“PATTI CHIARI” TRA CLAUDIO MARTELLI E GIOVANNI FALCONE SECONDO FRANCESCO LA LICATA:


Ma Martelli dovette vedere Angelo Siino, prima di scegliere Falcone
L’accordo inconfessabile tra Falcone e Buscetta: tu mi parli della mafia, io non ti processo per droga e omicidio
Quello di Giovanni Falcone è un cold case: Corrado Carnevale resta un gigante del Diritto e superiore allo stesso Falcone (I parte)

“Corrado Carnevale viveva per il lavoro. Non andava mai in vacanza”
Cesare Previti ad Alexander Bush

“Una cosa che non ho mai detto è che, in fondo, io avevo sempre desiderato di fare il ministro
della Giustizia”
Claudio Martelli, “Storia di Giovanni Falcone” di Francesco La Licata

“Che figura misteriosa e complessa è Claudio Martelli!”
Grazia Lissi

Nel 30esimo anniversario di Mani Pulite sarebbe il caso di aprire una riflessione sulla Giustizia, ripartendo dalla battaglia – poi interrotta dall’esperienza di Mani Pulite – di Martelli, Falcone, Cossiga e Giuseppe Di Federico sull’art. 112 della Costituzione: il superamento nei fatti dell’obbligatorietà dell’azione penale, con il varo della separazione delle carriere tra pm e giudici per razionalizzare le attività del Pubblico Ministero che, grazie alla teoria antifascista della Carta, gode di un’indipendenza assoluta dai procuratori capi al vertice dei vari uffici giudiziari, realizzando de iure e de facto – di diritto e di fatto – una “illimitata irresponsabilità” (per citare Ferdinando Cionti); se ne era accorto un magistrato estremamente pratico e complesso come Giovanni Falcone – “un vero unicum nella storia della magistratura”, come ebbe a dire Giuseppe Pignatone nella spettacolare intervista che gli fece un professionista del calibro di Enrico Mentana a “Speciale Buscetta” – che vedeva la separazione delle carriere come il logico approdo del maxiprocesso a Cosa Nostra, nell’americanizzazione inedita della lotta alla mafia.
Ad avviso di chi scrive l’introduzione del principio della discrezionalità dell’azione penale – quando la corretta valutazione della notitia criminis risiede nella dipendenza del Pm dal potere politico statuale che è un funzionario dell’esecutivo secondo Charles Secondat di Montesquieu – era destinata a perdere nell’annus horribilis del ’92 perché l’implosione sudamericana del sistema di Tangentopoli con la supplenza straordinaria del pool del Tribunale di Milano non la rese possibile: salvando l’Italia all’Argentina, come peraltro spiegato molto bene dal fine giurista Guido Rossi ne Conversazione con Gianni Barbacetto su Micromega del 2012.
Ma – al netto degli indubbi meriti sul campo di galantuomini come Piercamillo Davigo, Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo, Francesco Greco, Boccassini, ecc. – l’intervento di pulizia della Magistratura era una sospensione della normalità, che ha portato gli alfieri di questa vera e propria rivoluzione della legalità a sentirsi legittimati a interferire con il potere politico-legislativo (non tanto all’epoca del decreto Biondi, anche se quell’episodio innescò un “non ritorno”): quando l’ordine giurisdizionale non può partecipare alla divisione dei poteri; eppure nel ’98 – quando siamo ormai in presenza del “post factum” di Mani Pulite – Gherardo Colombo che a differenza di Davigo e degli altri suoi colleghi, apparteneva al condizionamento dei “pretori d’assalto” dei ’70, rilasciò un’inquietante intervista a Giuseppe D’Avanzo per il Corriere della Sera intimando ai padri ricostituenti della Commissione per le Riforme Bicamerali in materia di giustizia di ritirare la cosiddetta “bozza Boato”, che prevedeva l’articolato della separazione delle carriere: se voi abrogate l’art. 112, noi magistrati andiamo a prelevare gli scheletri nell’armadio.
Un ricatto alla luce del sole: basta leggere il contenuto dell’intervista, per rendersene conto, e sul tema sono apprezzabili i rilievi già svolti dalla Tiziana Maiolo su Il Foglio.
Colombo e gli altri suoi colleghi non avevano le prove del coinvolgimento di Botteghe Oscure nella maxitangente Enimont, ma lo sospettavano: era Gardini che doveva parlarne, ma sappiamo com’è andata a finire. E a tal riguardo è rilevante l’intervista della Gaia Tortora ad Antonio Di Pietro, alla
presenza di Piero Sansonetti tra gli altri ospiti.
E Colombo il tavolo della Bicamerale lo rovesciò: questo modo di comportarsi al limite dell’art. 287
del codice penale – cioè tentata lesione agli organi costituzionali della Repubblica, attraverso l’agitazione delle manette – non va bene, e tra l’altro da allora il Parlamento nei vari governi che si sono succeduti non ha riformato la Giustizia “pluc cas change, plus c’est la meme chose” a causa del tintinnio delle manette. Che è tanto più grave quando avviene sulla base della conoscenza, in tutto o in parte, di fatti penalmente rilevanti (un tentativo di estorsione quello di Colombo più che un’estorsione vera e propria).
Arriviamo così alla riforma Cartabia sulla quale si è espresso con tutta l’autorevolezza del caso Otello Lupacchini, che ha sconfessato la narrazione alla Edgar Hoover di Nicola Gratteri: ma anche questo disegno di legge rischia di finire nell’eterna trappola del Gattopardo, soprattutto perché c’è una parte considerevole dei magistrati italiani che gode a vedere lo status quo preservato a tutti i costi – che vogliono fare il bello e il cattivo tempo, come i campioni della Storia inserita dentro la notizia di reato: mi riferisco, solo per citare alcuni esempi, a Vincenzo Calia – sconosciuto pm di Pavia che nel 1994 aprì un’inchiesta sulla morte di Enrico Mattei e la tenne aperta per nove anni, diventando nel frattempo sostituto procuratore generale del Tribunale di Milano, per poi avere il tempo di scrivere un libro di 400 pagine edito da Chiarelettere – e a Michele Ruggiero della Procura di Trani, che aveva fatto mandare a rinvio a giudizio le agenzie di rating per “manipolazione aggravata e continuata del debito pubblico”, per mezzo della contestazione del fantomatico “market abuse” (abuso di mercato): un reato che non esiste, ecc… Per non parlare di Piergiorgio Morosini, lo storico travestito da gip che prende il caffè con Antonio Ingroia e poi ne accoglie le richieste di rinvio a giudizio storiografiche: 20 pagine (sic!) di “storia” della trattativa Stato/Cosa Nostra.
E lor signori preferiscono fare gli storici della notitia criminis anziché occuparsi con “low profile” della volgarità della routine che pure fa la cifra del corretto andamento della Giustizia, facendosi carico delle istanze securitarie dei cittadini: migliaia di procedimenti si estinguono per decorrenza termini perché nessuno se ne interessa, ed è ridicolo l’argomento usato della mancata informatizzazione degli uffici giudiziari come causa della difficoltà nello smaltire i fascicoli!

Poi arriva Marta Cartabia, e la festa è finita, o quasi.
Un’altra volta insorge il partito di Davigo, Gratteri e Scarpinato che fanno politica alla festa del Fatto Quotidiano.
E viene in mente Guido Carli, in una conversazione con Piero Ottone: “Il guaio di questi magistrati è che non hanno il senso dello Stato”.

Un fatto è certo: Falcone era un nemico dell’obbligatorietà dell’azione penale, anche perché – da giocatore d’azzardo – la dovette abrogare nei fatti per realizzare extra ordinem lo scomodo maxiprocesso a Cosa Nostra: l’estorsione a Tommaso Buscetta, il pentito. Avete capito bene.
E’ stato il magistrato ex componente del pool Peppino Di Lello a confessarlo “apertis verbis” in un’intervista la scorsa estate, in occasione della sentenza di assoluzione del generale Mario Mori e degli altri imputati al processo d’appello per la trattativa Stato/Mafia: “… Io domando: la relazione che lo Stato cerca con i collaboratori di giustizia non è essa stessa una trattativa? Certamente, è una trattativa istituzionalizzata, codificata. E ha consentito molti successi nella lotta alla mafia.
Ricordo che Tommaso Buscetta mise immediatamente, già nei primissimi colloqui con Falcone, le mani avanti. Disse: “Io di me non parlerò mai”. E infatti non disse nulla dei suoi traffici di droga e dei suoi omicidi. E purtuttavia la sua è stata una collaborazione fondamentale, com’è noto a tutti per la storia del maxi processo. Anche quella fu una trattativa. Gli dicemmo: “Va bene Buscetta, dei fatti tuoi non parliamo e andiamo avanti. Dicci tutto quello che sai su tutto il resto”. (…)
L’intervista in questione è tratta dall’articolo di Piero Sansonetti “Parla l’ex del Pool – Il vice di Falcone rade al suolo il processo Stato mafia, per Peppino Di Lello è stato “un romanzone”.

E il parallelismo fatto da Di Lello è tra la “trattativa” fatta dal generale Mario Mori con l’ex sindaco
Vito Ciancimino per la cattura di Totò Riina, con l’accordo Buscetta-Falcone dell’84: no, caro Di Lello. Non sono la stessa cosa.
Mori era un esponente dei servizi segreti che, in conformità con l’art. 54 del codice penale – in guerra si può trattare con il nemico – apriva un contatto con un esponente dello schieramento corleonese di Cosa Nostra per far arrestare un capomafia pericoloso quanto Riina; Falcone era un magistrato che ometteva di procedere nei confronti di Buscetta per reati gravissimi, quando la legislazione sui collaboratori di giustizia non era ancora entrata in vigore.
Si chiama estorsione.
Che fine hanno fatto i soldi della droga?
Non c’è solo questa.
Perché quando si commettono dei reati in nome della Legalità come missione da parte di un magistrato nell’esercizio delle sue funzioni, il mezzo – irrimediabilmente inquinato – si confonde con il fine, che nel caso di specie (l’instaurazione dell’ordinanza del maxi-ter dell’84) ha portato poi alla manifesta violazione di uno dei più antichi principi del Diritto, fissato dall’art. 27 della Costituzione: la “responsabilità penale è personale”; l’unica fonte di prova al maxiprocesso di Palermo era costituita dalle dichiarazioni per relata refero di Don Masino, che vinse il confronto con l’irriducibile Pippo Calò.
Sull’ambiguità di questo impianto si segnala l’apprezzamento negativo di Leonardo Sciascia, ammesso dallo stesso Giuseppe Pignatone nella sua riflessione “La lezione di Sciascia trent’anni dopo: il maxiprocesso può e deve fare giustizia” su La Stampa: nella citata trattazione, il magistrato è arrivato ad ammettere che il maxiprocesso è stato legalizzato in itinere dai processi che si sono instaurati dopo (sic) con ulteriori acquisizioni rispetto ai soli collaboratori, subordinando la Legge ai diktat della giustizia.
Con il privilegio dell’autocitazione, riporto qui alcuni passaggi del mio libro “Psicologia di artisti maledetti e delinquenti” nel capitolo dedicato a Tommaso Buscetta: “C’era del genio in Tommaso Buscetta, Our Godfather: tra la vita e la morte a San Paolo”: “… Il maxiprocesso a Cosa Nostra a Palermo è legato eziologicamente al tentato suicidio di Tommaso Buscetta a San Paolo in Brasile nel 1984 per mezzo di assunzione di stricnina: i due fatti sono intimamente legati, e il magistrato – poi assassinato nella strage di Capaci con i tre agenti della sua scorta il 23 maggio 1992 – Giovanni Falcone ebbe successo solo grazie alla recitazione messa in scena nell’aula bunker a Palermo dall’ex sodale dei Bontate e Inzerillo che si definiva “un soldato semplice”.
Avevo anche aggiunto: “Al maxiprocesso non c’erano neanche le prove per condannare i Corleonesi (sic!), e Pippo Calò aveva ragione a lamentarsene nel corso dello stesso confronto con Don Masino”.

Nel 1989 Falcone era di fatto un uomo processualmente sconfitto, sullo sfondo del ribaltamento degli ergastoli comminati in primo grado ai capi storici della Cupola dal preparatissimo Corrado Carnevale soprannominato “l’ammazzasentenze”, quando 58 candelotti di esplosivo vengono misteriosamente ritrovati tra gli scogli dell’Addaura e Falcone “utilizzatore finale” si allea con il Psi di cui capolista a Palermo era Claudio Martelli: il vice di Bettino Craxi ormai nel ’91 gli offre il posto di direttore degli affari penali del Ministero di Grazia e Giustizia, proprio quando per Falcone la carriera era di fatto terminata.
E’ un fatto che Luciano Violante tra gli altri, all’Antimafia nell’agosto dell’89 e mi riferisco a Domenico Sica alias “Pigliatutto” e a Misiani, aveva degli strani sospetti su Giovanni Falcone due mesi dopo l’attentato dell’Addaura; si riteneva tra gli “addetti ai lavori” che l’ex trafficante di droga Totuccio Contorno nell’88, fosse rientrato segretamente dagli Stati Uniti in Italia a Palermo per regolare i conti con i Corleonesi su mandato di Giovanni Falcone, di Gianni De Gennaro, Giuseppe Ayala e Antonio Manganelli: fece scalpore una sua intervista al TG1.
Come è stato ben documentato da Salvo Palazzolo su “la Repubblica” del 27 settembre 2019 “Quando Falcone finì sotto accusa per il ritorno del pentito Contorno in Sicilia. L’Antimafia pubblica i verbali”:

“Il 9 agosto 1989, la commissione antimafia allora presieduta da Gerardo Chiaramonte convocò il
pentito Salvatore Contorno per chiedergli del suo ritorno in Sicilia dagli Stati Uniti, mentre a
Palermo c’erano diversi omicidi. Ma sotto accusa non sembrava lui, in quel momento arrestato (e
poi scagionato), piuttosto il giudice Giovanni Falcone. Le domande fatte al collaboratore e poi anche all’ex capo della Criminalpol Gianni De Gennaro raccontano di un clima di sospetti attorno al magistrato che a giugno i boss di Cosa Nostra avevano tentato di far saltare in aria sulla scogliera dell’Addaura. Di quel fallito attentato neanche si parlava a Palazzo San Macuto. I verbali di quei giorni sono stati pubblicati oggi (27 settembre 2019, ndr) dalla commissione parlamentare antimafia presieduta da Nicola Morra: raccontano la solitudine di Falcone e dei suoi più stretti collaboratori. Mentre a Palermo tirava addirittura il venticello della calunnia, “forse il giudice se l’è fatto da solo l’attentato”. Falcone era davvero isolato. Come Paolo Borsellino.
Altre carte desecretate dall’Antimafia ricordano oggi cos’era la lotta alla mafia in quegli anni difficili. Un recupero della memoria che la commissione sta facendo grazie a un certosino lavoro di studio e ricostruzione fatto dall’ex pubblico ministero del processo Trattativa, Roberto Tartaglia, che Morra ha voluto suo consulente. In questi giorni Tartaglia è candidato alla successione di Cantone al vertice dell’autorità anticorruzione (qui c’è la Mano Invisibile o no?!, ndr).

Quella mattina del 9 agosto, il deputato del Pci Luciano Violante chiedeva al collaboratore Salvatore Contorno: “E’ stato interrogato dal dottore Falcone, o ha visto il dottore Falcone nel periodo in cui era in Italia?”.
Risposta: “Andavo spesso alla Criminalpol, l’ho incontrato al bar con un paio di altri magistrati”.
Violante incalzava: “Io ho fatto un’altra domanda. Lei è stato interrogato dal giudice Falcone?”. Contorno: “Non ricordo perché sono venuti diversi magistrati.”
Il verde Gianni Lanzinger: “Poco fa lei affermava di essersi incontrato con Falcone al bar. Si ricorda cosa vi siete detti?”. Risposta di Contorno: “Era un bar all’interno della Criminalpol, frequentato da molti poliziotti. Ero andato alla Criminalpol perché avevo bisogno di un dentista e io non avevo né soldi né assistenza sanitaria per cercarmene uno. Andando al bar con un agente ho visto che c’era Falcone”. E quell’episodio, del tutto banale, diventò presto un altro sospetto. “Vi siete solo salutati?”, chiedeva il deputato. “Sì”.
Anche il deputato Franco Corleone, pure lui dei Verdi, chiedeva: “E’ stato interrogato dal dottore Falcone, oltre che vederlo al bar?”.
Contorno: “Quando?”. Corleone: “Non lo so, chiedo a lei… perché a me risulta che ci sia stato l’interrogatorio”.

Il deputato Salvo Andò puntava invece De Gennaro: “Lei aveva parlato col giudice Falcone del ritorno di Contorno?”. Il poliziotto chiariva che “il giudice Falcone lo ha anche interrogato nel mio ufficio”. Non c’era davvero nessun mistero in quel ritorno in Italia del pentito, che lamentava di non avere assistenza, all’epoca non c’era ancora la legge sui collaboratori: “Contorno manifestò la sua situazione di insofferenza già negli Stati Uniti… voleva tornare in Italia”, spiegava De Gennaro.

Anche Violante: “Ci è risultato strano che Contorno, che su tante cose è preciso nel ricordare, non ricordava di essere mai stato interrogato in procura”. Risposta del poliziotto: “Forse da Falcone è stato interrogato più volte, non so, questa può essere una spiegazione”.
E a quel punto Violante sbotta: “Lei si è reso conto che il problema delicato della permanenza di Contorno in Sicilia e quello relativo al rapporto tra Contorno e l’organizzazione mafiosa per un verso e in secondo luogo dei rapporti fra Contorno e settori istituzionali in quel periodo è il punto delicato della vicenda.
In sostanza bisogna capire se Contorno è stato in quel periodo fonte informativa consapevole, se è stato lì per acquisire notizie e passarle a qualcuno”. E dopo questa considerazione, un’altra domanda: “E’ accaduto questo?”. Risposta netta di De Gennaro: “Ho già risposto di no per quanto riguarda il mio ufficio. Anche teoricamente ne ho spiegato la ragione. Posso dire che per quanto mi riguarda non ho avuto informazioni, tranne quelle di ordine generico”.

Poi, l’Antimafia chiuse il caso…”.

Sembra di essere in “American Tabloid” di James Ellroy.
Domenico Sica – definito dal defunto giudice istruttore del caso Moro Ferdinando Imposimato (il cui fratello fu assassinato da Cosa Nostra) il giorno della sua morte un “modello di investigazione”, al centro giudiziariamente delle pagine più nere della storia repubblicana con la passione maniacale per i cold case di cui era capace – parlò in relazione all’attentato dell’Addaura di “non funzionalità dell’ordigno”.
E qui siamo già entrati a mio modesto avviso nel cold case di Giovanni Falcone, caso aperto.
C’era qualcuno tra i funzionari degli apparati securitari e della Magistratura che sospettava che Totuccio Contorno avesse piazzato i 58 candelotti di dinamite tra gli scogli dell’Addaura, per fare un favore a Falcone?
Su Wikipedia che è una fonte informativa straordinaria sono chiarite le inquietanti “liaison dangereuses” tra Falcone e Salvatore Contorno, di cui però è bene non parlare nel cosiddetto monopolio del trentennale di Capaci con la narrazione unica dei Lodato e Di Matteo, che peraltro risentono di un fanatismo sofferente – alla voce Totuccio Contorno: “… Gli altri arresti e un nuovo attentato – Nel 1984 venne estradato negli Stati Uniti dove ricevette dal governo una nuova identità, la cittadinanza statunitense e la libertà vigilata in cambio della testimonianza nel processo “Pizza connection”, che si svolse a New York e vide imputati Gaetano Badalamenti e altri mafiosi siculo-americani accusati di traffico di stupefacenti.

Nel dicembre del 1988 fece scalpore l’intervista da lui concessa al TG1, in cui lanciava velate e inquietanti accuse sui rapporti tra Cosa nostra, magistratura e politica (“Ma come si fanno ad avere sospetti su Falcone?”, disse a un certo punto l’intervistatore a Contorno, ndr). Per un periodo venne ospitato in un residence nei pressi di Castellamare del Golfo gestito dall’albergatore Paolo Ficarola, il quale era inconsapevole dell’identità del suo ospite ma venne lo stesso assassinato per ritorsione dai Corleonesi il 28 settembre 1992.
Nel maggio 1989 Contorno venne infine arrestato in un villino a San Nicola l’Arena insieme al cugino Gaetano Grado dagli uomini del questore Arnaldo La Barbera che trovarono in loro possesso fucili, pistole, divise dei Carabinieri e ricetrasmittenti. La vicenda destò numerose polemiche e una serie di lettere anonime definite giornalisticamente del “Corvo” accusarono i giudici Giovanni Falcone e Giuseppe Ayala, il Capo della Polizia di Stato Vincenzo Parisi e importanti investigatori come Gianni De Gennaro e Antonio Manganelli di avere “pilotato” il ritorno di Contorno in Sicilia al fine di sterminare i Corleonesi, storici nemici della sua famiglia: infatti si mise in diretta correlazione il rientro di Contorno con una serie di omicidi che effettivamente si erano registrati tra Bagheria e Casteldaccia proprio in quei mesi ai danni di persone legate alle cosche dei corleonesi.
Contorno venne scarcerato e processato per detenzione illegale di armi ma venne assolto e ottenne la libertà provvisoria nel 1990…”.

Sono francamente inquietanti le contraddizioni di Giovanni Falcone, versato fanaticamente nel polytropos delle attività senza risparmio di energie e di fatto complice della seconda guerra di mafia. Che poi ha portato allo scontro tra Cosa Nostra e lo Stato a suon di bombe.
Chi scrive ha una certa diffidenza per le personalità “missionarie”, cioè i soggetti monodirezionali che hanno il senso della missione: prima o poi commettono il passo falso; ieri Falcone, oggi il procuratore “one track mind” Nicola Gratteri che ha attaccato il presidente del Consiglio Mario Draghi, dimostrando – nell’intervista di Corrado Formigli – di non avere il senso dello Stato, e di non avere compreso perché Draghi si trova dove è: non per fare la lotta alla mafia, ma per realizzare il Recovery Fund e favorire l’Alleanza Atlantica nel quadro dei mutati rapporti di forza con Michail Khodorkovsky: l’ordine giurisdizionale non è il terzo potere dello Stato, ma è subalterno allo Stato nell’amministrare la Giustizia.
E’ probabile che se qualcuno chiedesse a Gratteri: “Procuratore, ma lei ha mai sentito parlare del deficit spending?”, lui non saprebbe rispondere: non esiste solo la mafia, la realtà è variegata e complessa.
Inoltre, Gratteri – cedendo agli “ammiccamenti” dell’onorevole Giorgia Meloni che cerca di portarlo dalla sua parte – non è forse vero che sta facendo politica, contribuendo “obtorto collo” ad avvicinare sempre di più la figura del Ministro di Giustizia all’Attorney General?
Ma torniamo ai rapporti dark tra Martelli e Falcone.

1. LA PROPOSTA DI GIOVANNI FALCONE A CLAUDIO MARTELLI NELL’AULA BUNKER: TI METTO DENTRO PER VOTO DI SCAMBIO, SE NON FAI QUELLO CHE TI DICO
“Fiat iustitia et pereat mundus”:
Ferdinando I d’Asburgo

Come molto opportunamente rilevava il cronista di prima grandezza Francesco La Licata – facendo forse intendere dell’altro tra le righe – nel suo bellissimo libro “Storia di Giovanni Falcone” nel capitolo “Patti chiari con Martelli”, Martelli cambia nel ’91.

E, tra l’altro, il racconto di La Licata – un uomo che conosce i retroscena della Sicilia come pochi altri – si concilia bene con le dichiarazioni rese da Angelo Siino con faccia di Charles Bronson davanti ai magistrati di Palermo, l’uomo del famigerato “tavolinu”: “Ho conosciuto l’onorevole Martelli. Ma rimasi perplesso sia per quello che diceva di volere fare sia per i suoi rapporti con una parte della Dc con cui aveva stretto numerosi accordi. Martelli l’ho visto nel 1987: venne a casa mia a Palermo e mi chiese di votare e cercare voti per lui. Martelli aggiunse di essere sempre stato un liberale e che queste leggi (il carcere duro, ndr) non sarebbero mai passate. Io ascoltavo il tutto, ero una sfinge. Ma anche molto perplesso… Non mi convinse molto. Restelli era una persona con cui si era incontrato Piddu Madonia. A me sembrava del tutto inaffidabile. Così mi fu consegnata una scaletta con i nomi da votare: Martelli, Reina, un personaggio di Marsala e uno di Partinico. Falcone sapeva che c’erano stati gli accordi tra Martelli e la mafia locale. Poi successivamente mi venne chiesto di uccidere Martelli… Mi dissero che Martelli intratteneva una relazione con una donna palermitana, una certa Greco. Brusca mi fece sapere che voleva uccidere Martelli perché aveva tradito e non aveva mantenuto le premosse (è a quella donna che allude Tonino Bettanini nel suo romanzo Contro tutte le paure, ndr). Quando mi venne chiesto di uccidere Martelli, venne un personaggio in compagnia di Giovanni Brusca e Piddu Madonia e mi disse: tu sei in grado di poter avere l’indirizzo di Martelli a Roma? Perché Martelli deve capire che non si può tradire Cosa Nostra, ci ha preso per il culo e deve pagare. Martelli doveva essere ammazzato nel ’96”. Rectius: 1992 e 1993, non ’96.

Queste revolving doors nello stress emotivo al limite della morte – cioè al limite del “cold case” – sono indubbiamente all’origine della scelta di Martelli di convocare Falcone a Roma, dopo l’incontro “strano” avuto con il magistrato nell’aula bunker del maxi-ter (un tentativo di estorsione, non estorsione tout court); una scelta maturata non senza profondi travagli interiori, al punto che lo stesso Claudio accettò di rischiare la propria vita pur di affrancarsi dal “mondo di mezzo”.
Ed emanciparsi dalle soverchianti ambiguità del suo passato, tra il Conte Protezione, la droga e le tangenti.
Ecco la trascrizione di uno dei passaggi più interessanti del capitolo “Patti chiari con Martelli!”: (il copyright è di Francesco La Licata):

“Falcone prende servizio al ministero di Grazia e giustizia il 13 marzo del 1991. La direzione dell’ufficio Affari penali gli è stata offerta da Claudio Martelli. Il giudice accetta dopo non poche titubanze e qualche perplessità, rimosse soltanto in seguito a una serie di chiarimenti e assicurazioni ottenute in via preliminare. La decisione del magistrato provoca l’ennesima polemica
e la conseguente, infamante campagna di stampa: “venduto”, “ha paura”, “abbandona”, “pensa alla pelle”, “avete visto che brigava coi politici?”. Questi atteggiamenti ostili non affioreranno subito, ma soltanto in seguito, quando prenderà corpo l’ipotesi che il giudice possa andare a occupare il posto di procuratore nazionale antimafia.
Ma come matura la partenza di Falcone da Palermo?
Come prende corpo il progetto di affidargli l’ufficio di via Arenula? Un progetto inseguito proprio dalla persona più impensabile, quel Martelli che solo qualche anno prima aveva cavalcato la campagna per la “giustizia giusta”, promuovendo il referendum sulla responsabilità civile dei giudici e censurando pesantemente i magistrati che avevano istituito il processo Tortora. Proprio lui, che a Palermo era stato il nemico implacabile di Leoluca Orlando, sposando la tesi degli oppositori dei maxiprocessi considerati “mostri giuridici”.
La vicenda parte da lontano e trova la sua ragion d’essere nelle convinzioni che hanno sempre mosso l’azione di Giovanni Falcone in relazione al tema del coordinamento delle indagini sulla mafia e, quindi, in definitiva, dei pubblici ministeri che ne sono i responsabili.
Il magistrato si convince che la sua capacità di progettazione potrebbe uscire dallo spazio angusto delle ipotesi, per entrare nella concretezza, solo se al ministero vi fosse qualcuno che se ne occupa. D’altra parte sono note le teorie di Falcone e non v’è intervento che non sottolinei la necessità di un efficiente strumento di coordinamento delle inchieste antimafia. Nel dibattito generale Falcone si trova vicino Peppe Di Federico, docente di ordinamento giudiziario all’Università di Bologna. Tra i due si instaura una vera e propria sinergia, oltre che una bella amicizia.
Sarà il professore uno dei registi della venuta di Falcone a Roma.
GIUSEPPE DI FEDERICO: Fu Cossiga uno dei primi a tentare di portare Giovanni al ministero. Gli piacevano le sue idee sulla problematica legata al tema del coordinamento delle inchieste giudiziarie. Credo esista addirittura un carteggio tra l’ex presidente della repubblica e l’allora guardasigilli, Giuliano Vassalli. Il presidente avanzò chiaramente l’ipotesi di sostituire il direttore degli Affari penali, credo fosse Callà, proprio per dare impulso al progetto di istituire uno strumento che potesse servire ad armonizzare il lavoro dei giudici impegnati nelle indagini sulla criminalità organizzata.
Vassalli, che è sempre stato uno aggressivo a parole e accomodante nei fatti, non ritenne di dover accogliere il suggerimento di Cossiga.
Penso che il suo timore fosse quello di dover affrontare uno scontro con la corporazione della burocrazia ministeriale. Non se la sentiva di andare a rimuovere incrostazioni cementate da privilegi e accordi sanciti da rigide lottizzazioni politiche. E Falcone, oltretutto, non aveva sponsor di alcun tipo. Il guardasigilli lasciò cadere il discorso rispondendo a Cossiga che il direttore degli Affari penali “dopotutto non ha demeritato”.
Quando arrivò Martelli, quindi, esisteva già, per così dire, il “precedente”. Un giorno mi fece cercare per batteria. Mi trovò al Cnr e mi diede appuntamento per un colloquio a Palazzo Chigi. Ci vedemmo il 6 febbraio del 1991 alle 18.30.
Parlammo a lungo dei problemi della lotta alla criminalità e di coordinamento, poi mi chiese: “E sul fronte interno del ministero?. Risposi d’istinto, dissi che una cosa che avrei subito fatta era quella di chiamare a Roma Giovanni Falcone.
Spiegai che mi sembrava l’uomo adatto per portare avanti un programma di seria azione di contrasto alla criminalità organizzata e che aveva tutte le caratteristiche per rendere concreta la realizzazione del progetto di coordinamento dei pubblici ministeri.
Aggiunsi pure che mi sembrava l’unico segnale forte che potesse inviare alla “corporazione”.
2. MARTELLI NON ERA CONVINTO SUL NOME DI FALCONE E AVEVA L’ARIA SMARRITA
Continuava Francesco La Licata: “GIUSEPPE DI FEDERICO: “Gli dissi (a Martelli, ndr): “Tu non hai nessun potere nei confronti della burocrazia interna. Puoi solo cercare di provocare qualche piccolo sommovimento con una mossa inattesa. Per esempio intervenendo nei settori ritenuti inaccessibili e intoccabili”.
Si trattava di dare il benservito a qualche “istituzione ministeriale” per sostituirla, per esempio, con un Falcone che sfuggiva a qualunque logica di lottizzazione.
Martelli mi sembrò convinto sulla strategia complessiva, un po’ meno sul nome di Giovanni.
Quando gli ripetei chiaramente che Falcone mi sembrava il candidato ideale per la realizzazione di una “rivoluzione” degli Affari penali, mi guardò con aria smarrita.
Forse si chiedeva se Giovanni avrebbe mai accettato una proposta del genere e pensava a come fargli avere la proposta.
Alla fine, però, fu favorevole. Il progetto lo convinse, tanto che gli suggerii di chiamarlo subito.
La risposta di Martelli fu immediata: “No. Gli telefono dopo che gli avrai parlato tu, se accetta”. Mi sentii immediatamente con Giovanni. Mi chiese alcune delucidazioni, ma non mostrò pregiudizi di sorta. Ricordo che mi chiese se io avessi parlato con Martelli “dei problemi legati all’attività dei pubblici ministeri”.
Gli risposi che ne avevamo parlato a lungo e che gli avevo esposto la sua, la nostra posizione.
“Allora va bene”, fu la risposta. Si telefonarono subito dopo.
Ci furono degli incontri immediati.
Accadde anche un intoppo inatteso. A un certo punto Giovanni mi telefonò per comunicarmi: “Non posso più venire al ministero. Non vengo”. Gli chiesi cosa fosse accaduto e lui: “Ho saputo che il ministro ha dato il via libero per far venire anche Giuseppe Ayala. Questo non è possibile: se le cose stanno così, io mi ritiro”.
Cercai di farmi spiegare il motivo di quell’atteggiamento e lui fu chiaro: “Ayala ha chiesto il trasferimento a Roma, al ministero, per motivi di sicurezza. Non voglio che la mia scelta di lasciare Palermo venga assimilata a quella di Peppe. Io non ho chiesto nessun trasferimento e, tanto meno, per ragioni di sicurezza”. La questione non fu di facile soluzione, credo che si sia rivelato decisivo l’intervento del presidente Cossiga. Ad Ayala fu trovata un’altra sistemazione.
Anche questo piccolo particolare, secondo me, testimonia la serietà e correttezza di Falcone.
Ma ci sono altri fatti, forse sconosciuti ai più, di grande importanza. Uno risale al 9 ottobre del 1990, qualche giorno dopo l’assassinio del giudice Rosario Livatino, ad Agrigento. I magistrati, la giunta dell’Anm, si accingevano a un duro confronto col governo e cercavano di mettere insieme un pacchetto di proposte da presentare all’esecutivo. Fu istituita una commissione e Giovanni ne faceva parte.
Ricordo che definì “folle” il metodo con cui era stata formata: quattro rappresentanti per ogni corrente della magistratura, totale sedici persone. Ma non era tutto: all’organismo venne imposta persino una linea da seguire, basata sui due capisaldi della difesa dell’indipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo e dell’intoccabilità del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. Giovanni andò su tutte le furie, riteneva offensivo per la commissione già così inutilmente allargata un mandato tanto rigido.
Si dimise per protesta. Disse che quelli non erano metodi, che “i magistrati risentono ancora di un retaggio ideologico che non fa i conti con la realtà”. Fu accusato di “comportamento antidemocratico” perché “non stava alle decisioni della maggioranza”.
Ecco cos’era Giovanni Falcone: un giudice che non accettava nessun condizionamento ideologico.
Uno che mirava a fare le cose. Era avanti di molti anni, rispetto agli altri. Credo che questa marcia in più gliel’avesse data la continua frequentazione con altri paesi europei e con gli Stati Uniti.
Erano “patti chiari”, dunque, quelli tra Martelli e Falcone. Da un lato il ministro, col suo bisogno di dare una impronta forte all’attività del ministero nella lotta alla mafia, dall’altro il giudice, che intravedeva la possibilità di andare sul concreto e realizzare una serie di cambiamenti per favorire l’azione di contrasto con la criminalità organizzata. A quanti lo mettevano in guardia sulle “reali
intenzioni” del ministro, rispondeva: “Sa chi sono, se mi chiama vuol dire che sa anche cosa deve chiedermi”.
3. MARTELLI VEDE FALCONE AL BUNKER: DAVANTI ALLE CELLE CHE OSPITAVANO
LUCIANO LIGGIO E MICHELE GRECO
You can’t have the cake and eat it, vecchio detto inglese

“CLAUDIO MARTELLI Una cosa che non ho mai detto è che, in fondo, io avevo sempre desiderato di fare il ministro della Giustizia. Fino a quel momento non avevo avuto grandi incarichi di governo. Diciamo che quella di vicepresidente del Consiglio era un’esperienza limitata che, tuttavia, aveva già fatto trasparire la mia propensione per i temi e le iniziative legate ai diritti civili.
A un certo punto si presentò il problema di Vassalli che andava via dal governo, essendo stato chiamato alla Corte costituzionale. Si discusse della sostituzione e i candidati quasi naturali alla successione sembravano Giuliano Amato o Salvo Andò. Io avrei fatto volentieri quella esperienza e ne parlai con Craxi. La cosa migliore ci sembrò di proporre che fossi io, come vicepresidente del Consiglio, a prendere l’interim del ministero di Grazia e giustizia. E così avvenne, era il 4 febbraio 1991.
Chiamai quasi subito Giovanni Falcone. Nel mio programma di lavoro c’era al primo posto la lotta alla criminalità. Era diverso, allora. La vera emergenza era la mafia, il suo strapotere e la sua capillare diffusione, come si trattasse di una nube tossica, in gran parte del territorio e non solo al Sud. Era l’impotenza nei confronti di questo mostro che, in definitiva, ci veniva rimproverata all’estero. Nei miei viaggi di lavoro avevo più volte ricevuto le preoccupate contestazioni di colleghi di altri paesi che si chiedevano come fosse possibile che una nazione civile sopportasse l’arroganza di un potere forte della disorganizzazione dello stato. Naturale, quindi, che volessi giovarmi dell’apporto di Giovanni Falcone. Era il migliore, senza alcun dubbio. Lo avevo conosciuto nel 1987, durante la campagna elettorale. Arrivava a Palermo, dov’ero capolista, preceduto dalla fama di “ammazzagiudici” per via del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati e di garantista che aveva criticato il processo di Napoli contro Enzo Tortora. Chi si attendeva, però, un atteggiamento preconcetto e ostile verso il pool antimafia di Palermo, restò deluso. Rifiutai, per esempio, di vedere comitati e sottocomitati per la liberazione dei detenuti. Non volli andare all’Ucciardone, sebbene vi fosse chi si adoperava per preparare incontri. (secondo chi scrive poteva essere il “Ministro dei Lavori Pubblici di Cosa Nostra” Angelo Siino: a pensar male si fa peccato, ma s’indovina, nda). Insomma, non mi confusi con quanti facevano dei problemi della giustizia occasioni di attacchi gratuiti alla magistratura e finivano col diventare punto di riferimento di un falso garantismo. La mia campagna elettorale si limitò al contatto diretto con gli elettori, in occasione di manifestazioni pubbliche. Feci pochissima pubblicità: solo un “filo diretto” coi cittadini attraverso una televisione privata palermitana.
Andai a trovarlo, un pomeriggio. Lo vidi al bunker, fu l’incontro con un uomo serio, molto serio, forse un po’ triste, pervaso da una vena di malinconia.
Volevo capire di più, gli feci domande anche ingenue. Gli chiesi cosa fosse veramente la mafia e se credesse davvero che uomini così da poco potessero avere quel grande potere di condizionamento che tutti conosciamo. Giovanni fu comprensivo, col suo solito sorrisetto si dedicò a spiegarmi la mafia come si fa con uno scolaro.
Mi parlò di “gruppi di fuoco”, dell’“ala militare”, di uomini che sotto l’apparente aspetto di umili campagnoli, sotto la scorza della loro natura primitiva, nascondono insospettabili doti di leader.
Rimasi nella sua stanza un pomeriggio intero. Non mi ci volle troppo tempo per capire che mi
trovavo di fronte a un magistrato che aveva una straordinaria conoscenza del fenomeno di cui si occupava, che avevo davanti un investigatore scrupoloso. Niente a che vedere con la realtà del maxiprocesso di Napoli, con gli eroi di quei giudici, con la gente in galera per omonimia. Mi servì, quell’incontro. Con Giovanni ci rivedemmo un paio di volte in occasione di compagni, ma non ci siamo mai frequentati.
Quando gli proposi di venire a lavorare al ministero, gli dissi che ne sarei stato felice e gli chiesi se avesse ancora un senso la sua permanenza a Palermo. Lui mi rispose con una domanda: “Cosa posso darti?”. Gli spiegai: “Puoi offrire tutte le risorse che hai maturato in questi anni.
Hai l’occasione di trasfondere le tue esperienze, finora episodiche, in norme generali. Puoi farle diventare leggi. Da qui voglio fare la guerra alla criminalità e tu mi sembri indispensabile”. Mi chiese un po’ di tempo per riflettere ma capii che avrebbe accettato, che iniziava la nostra amicizia. Ci eravamo trovati d’accordo sulle questioni di fondo, che erano sostanzialmente legate ai problemi del coordinamento e della professionalità dei pubblici ministeri. Sapevamo di dover trovare soluzioni per poter vincere le tradizionali resistenze della magistratura, ancorata a vecchi schemi che appesantivano il lavoro di approfondimento della lotta alla mafia, relegandolo nella condizione di pura teoria.
Intervenne la crisi di governo, io insistetti per rimanere ministro di Grazia e giustizia. Riuscii nell’intento e già Falcone aveva accettato la mia proposta. Mi trovai subito a dover assumere iniziative pesanti e difficili, ancora prima che Giovanni si insediasse a Roma. Accadde in occasione della famosa sentenza della Cassazione che metteva in libertà quaranta boss di Cosa Nostra per decorrenza dei termini di carcerazione preventiva. Mi rendevo conto che non era uno spettacolo rassicurante per i cittadini assistere alle “passeggiate” dei capimafia in libertà. Bisognava intervenire, anche a costo di “forzare un po’”, e lo facemmo con un decreto di interpretazione autentica della norma che sospendeva il computo dei termini di custodia in carcere per il periodo delle udienze processuali.
A onor del vero, in questo “azzardo” trovai la piena solidarietà del ministro dell’Interno, che allora era Vincenzo Scotti. Tutto avvenne in gran segreto, per evitare fughe di notizie che avrebbero indotto i boss a nascondersi. L’operazione fu perfetta e la collaborazione di Scotti essenziale: i mafiosi furono presi e riportati in carcere, nel pieno di infuocate polemiche che bollavano l’intervento del governo come “il decreto d’arresto”. Chiesi a Giovanni cosa pensasse della mia iniziativa, mi rispose: “Hai fatto benissimo”.

E’ importante quello che rileva sul punto Francesco La Licata: “Doveva essere proprio convinto, Falcone, della scelta che aveva fatto. Si era ripromesso di parlarne con qualcuno dei suoi amici, ma forse fu sopraffatto dagli eventi e accettò senza avere il tempo di consultarsi”.

Le cose accadono semplicemente perché devono accadere: per citare Alessandro De Nicola, presidente di Adam Smith Society.
La testimonianza di Mario Almerighi inserita nel libro di La Licata, che firmò l’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di Pippo Calò e Flavio Carboni per concorso nell’omicidio di Roberto Calvi, è decisiva, anche per raccontare meglio un episodio centrale: il rinvio a giudizio di Claudio Martelli per concorso nella bancarotta fraudolenta del Banco Ambrosiano, il 10 febbraio 1993.
E che molto probabilmente gli salvò la vita.
Infatti, prima di riportare il contributo di Almerighi – che è stato minacciato di morte in seguito al processo per l’omicidio Calvi – occorre citare Claudio Martelli, che riferisce quanto segue con la consueta lucidità:
“Mi parlò dell’omicidio di Salvo Lima in termini allarmati. Disse che era saltato un meccanismo delicatissimo e che ciò avrebbe potuto provocare guasti irreparabili. Mi fece intendere che da quel momento nessuno poteva più sentirsi al sicuro: era convinto che Cosa Nostra avrebbe alzato il tiro per cercare di colpire lo stato nelle sue istituzioni più alte. Mi avanzò anche l’ipotesi che io potessi
essere uno dei possibili obiettivi della mafia, essendo identificato come il responsabile politico del mutamento di linea giudiziaria che aveva provocato tanti fastidi ai boss. Un giorno venne anche a trovarmi a casa: voleva verificare se il luogo fosse sicuro o se bisognasse intensificare i controlli e aumentare le misure di sicurezza. Non mi espresse mai timori per la sua vita, anche se ne aveva. Chissà, forse la Superprocura lo avrebbe salvato. Ce l’avrebbe fatta a essere eletto? Non so…
credo di sì, perché io avrei fatto di tutto per farlo arrivare. Non sarebbe stato facile convincermi che Falcone non doveva fare il procuratore nazionale”.

La situazione politica e personale di Giulio Andreotti, traditore delle speranze riposte da Totò Riina in Ignazio Salvo e Salvo Lima e artefice della svolta storica del 30 gennaio 1992, e cioè l’affidamento della I sezione della Cassazione non più a Corrado Carnevale – che tra l’altro era già riuscito a smontare il lavoro di Piercamillo Davigo sulla “operazione San Valentino” con l’interpretazione raffinatissima che il tentato riciclaggio non è il riciclaggio (sic!), e poi c’è il mistero… – ma ad Arnaldo Valente, era se possibile più grave di quella di Martelli: dovevano essere rapiti i suoi figli da un commando agli ordini di Matteo Messina Denaro.
E non accadde, per puro caso: perché Totò Riina – forse in ciò condizionato dai suggerimenti delle “menti raffinatissime” che dall’esterno consigliavano Cosa Nostra – decise di ripiegare su Falcone non con un semplice omicidio (come ben disse Vito Ciancimino – “il politico più mafioso e il mafioso più intelligente che abbia la Democrazia Cristiana” (parola di Giovanni Falcone) – sarebbe stato semplice ammazzarlo a Roma mentre conduceva le sue passeggiate; ma il magistrato doveva essere “fatto fuori” in un’azione militare senza precedenti. Che provocasse uno shock politico a livello nazionale.
La strage di Capaci del 23 maggio 1992 con la devastazione dell’autostrada era finalizzata a sbarrare la strada al Quirinale del Divo Giulio, che aveva già messo piede al suo interno: fu così che gli uomini d’onore umiliarono Andreotti, il quale (con la prontezza della sua intelligenza) aveva capito tutto in un solo momento lo stesso pomeriggio del 23 maggio 1992. E la cui tensione nel sostenere il maxiter – attenzione – va considerata (soltanto) inferiore a quella di Martelli: entrambi avevano deciso di recidere certi legami.
I racconti di Giuseppe Ayala, ex pubblico ministero a latere del maxiprocesso, fanno venire i brividi: i brividi provocati da chi è stato a contatto con il lato oscuro.
La parola a Mario Almerighi, che è stato un formidabile investigatore pieno di passione, a costo di cadere vittima della trappola dei paralogismi nella requisitoria per l’omicidio di Roberto Calvi (se ne era accorto il pm Pierluigi Dell’Osso!), con la dote dello scrittore e che ha prestato anche il suo contributo alla sceneggiatura per il soggetto “I banchieri di Dio” di Giuseppe Ferrara:

“Mario Almerighi (magistrato) Vidi Giovanni al seminario sul pubblico ministero che si tenne a L’Aquila all’inizio del ’91.
Era ancora adombrato per l’esito che aveva avuto la sua candidatura al Csm: non l’aveva proprio capito, quel rifiuto. Parlammo a lungo, poi mi disse: “Martelli mi ha fatto questa proposta”. Aggiunse che non ne aveva parlato con nessuno e che non voleva si sapesse. Io ero contrario, così lui, per tagliar corto, mi interruppe con un’assicurazione: “Va bene, ne riparliamo. Tanto c’è tempo”. Non era vero: l’indomani trovai la notizia sui giornali.
Glielo dissi, poi, perché ero contrario: “In questo paese, diminuisce il controllo della legalità. Come puoi pensare di articolare questo tuo disegno di attribuire tanto potere al pubblico ministero? Secondo me ti vogliono strumentalizzare e basta”. Lui replicò secondo un suo schema, forse un po’ ingenuo: “Io posso anche essere più intelligente di Martelli. Giudicatemi dai fatti, aspettate e vedrete”. E non valse a nulla il richiamo che gli feci alle aspettative dei colleghi di Palermo, che apparivano delusi per la scelta di lasciare la Procura.
Poi, mentre cominciavano a vedersi i primi risultati del “nuovo corso” al ministero, mi riferisco ai decreti contro la mafia, e la lotta alla criminalità si faceva finalmente seria, Giovanni mi chiamava al telefono e mi ricordava: “Su questi fatti voglio essere giudicato. Hai visto che le cose si possono
fare?”. Aveva una grandissima stima dell’intelligenza politica di Martelli, uno che aveva capito che il vento cambiava e che bisognava proporsi come punto di riferimento di questo cambiamento. In Martelli vedeva la possibilità di realizzare se non tutti, gran parte dei suoi progetti di contrasto alla criminalità organizzata.
Io continuavo a essere scettico. Gli dicevo: “Giovanni rifletti, ma quando mai è accaduto che un uomo del sistema sia riuscito a incidere tanto in profondità da renderlo trasparente?
Vedrai che lo fermeranno, non lo faranno andare avanti”. Oggi, dopo la “caduta” di Martelli, mi chiedo cosa sarebbe stato di Falcone.”
4. IL PROBLEMA DELLA GIUSTIZIA ITALIANA E’ UNO SOLO: L’ART. 112 COST.
Mario Almerighi si riferiva all’avviso di garanzia recapitato a Claudio Martelli dalla Procura della Repubblica del Tribunale di Milano il 10 febbraio 1993 per concorso nella bancarotta fraudolenta del Banco Ambrosiano (non era un semplice finanziamento illecito ai partiti come ricordò nel maggio 2021 Maria Antonietta Calabrò sull’Huffington Post, ma si trattava della corruzione da 7 milioni di dollari del Psi nel “Conte Protezione” gestito dall’architetto Silvano Larini per conto di Roberto Calvi con il risultato di indebolire finanziariamente il Banco Ambrosiano con la lottizzazione dell’Eni).
Non stiamo parlando, insomma, di fatti molto belli ma di malcostume che concorse a intralciare il corretto andamento dell’economia nazionale deprimendone le potenzialità concorrenziali: anche se qualcuno potrà obiettare che queste sono deduzioni alla Kant.
E’ difficile se non impossibile riassumere unitariamente tutte le vicende ambigue del “biennio horribilis” 1992- ’94 all’interno di un unico filone narrativo, non ci resta che la Weltanschauung di James Ellroy: la realtà è ambigua.
Ma resta imprescindibile sulla vicenda del “Conte Protezione” la ricostruzione offerta da Marco Travaglio – one track mind da disturbo ossessivo, ma ha saputo farne un successo! – nella nuova edizione di “Mani Pulite – La vera storia” edito da Paper First:
“Le stragi nel continente – La fine politica di Martelli, coinvolto – come abbiamo visto – nel vecchio scandalo del conte Protezione dalle improvvise confessioni dell’architetto Larini e da quelle ancor più sorprendenti di Licio Gelli, ha ripercussioni decisive anche sul fronte della lotta alla mafia. Il tecnico che lo sostituisce, Giovanni Conso, è un giurista sopraffino e uno specchiato galantuomo.
Ma forse non ha le spalle abbastanza larghe per comprendere fino in fondo la portata delle pressioni sotterranee che le mai sopite trattative fra pezzi dello Stato e Cosa Nostra continuano a esercitare sulle istituzioni, né per resistervi.
Il 12 febbraio, appena due giorni dopo il cambio della guardia fra Martelli e Conso, si riunisce il Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica.
E qui – racconterà Niccolò Amato, capo del Dap (cioè direttore delle carceri) – il capo della Polizia Vincenzo Parisi esprime “riserve sull’eccessiva durezza” del 41-bis per i mafiosi detenuti a Pianosa e Asinara. Nei verbali della riunione, però, l’intervento di Parisi non risulta.
Anzi, nella successiva riunione del Comitato del 6 marzo, risulta che l’addolcimento del 41-bis l’abbia invocato proprio Niccolò Amato, socialista e avvocato difensore di Craxi, citando presunte riserve di Parisi e auspicando un’uscita dall’“emergenza” del dopo-stragi. Sia come sia, uno dei punti qualificanti del “papello” di Riina entra ufficialmente nell’agenda politico-istituzionale…”.

Ps – Tra guardie e ladri non c’è molta differenza come ben aiuta a capire James Ellroy, e nei fatti l’art. 112 della Costituzione repubblicana non esiste. E’ Travaglio a dimostrarlo!
E’ tempo ormai di abrogare l’obbligatorietà dell’azione penale all’americana, poiché la teoria è parte della realtà.
A 30 anni da Mani Pulite.

di Alexander Bush

Sull'Autore

Alexander Bush, classe '88, nutre da sempre una passione per la politica e l’economia legata al giornalismo d’inchiesta. Ha realizzato diversi documentari presentati a Palazzo Cubani, tra questi “Monte Draghi di Siena” e “L’utilizzatore finale del Ponte dei Frati Neri”, riscuotendo grande interesse di pubblico. Si definisce un liberale arrabbiato e appassionato in economia prima ancora che in politica. Bush ha pubblicato un atto d’accusa contro la Procura di Palermo che ha fatto processare Marcello Dell’Utri e sul quale è tuttora aperta la possibilità del processo di revisione: “Romanzo criminale contro Marcello Dell’Utri. Più perseguitato di Enzo Tortora”.

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