“… Il vuoto di autorità lascia spazio all’insediamento dell’ideologia tirannica dove la persona è schiacciata, e assorbita come entità devitalizzata del collettivo.
Ripete il mantra della sua giovinezza, Gustavo (come lo chiamava nei suoi articoli Eugenio Scalfari).
Demonizza chi ha un’altra concezione dell’educazione, invece di confrontarsi, si contrappone. E versa, come se stesse offrendo un vermouth in salotto, il veleno del voto politico. Spiega che negli ultimi anni di insediamento universitario, l’unico voto che ha scritto sui libretti è stato 30. Uno è uguale a uno. E se uno si comporta da bullo, amen, i compagni bullizzati devono cordialmente avvicinarsi e chiedergli perché…”.
“Zagrebelsky odia chi va bene a scuola: cosa gli esce di bocca”
Renato Farina
“Zagrebelsky è una persona piena di difetti”
Piero Ottone
Attenti al fascismo zagrebelskiano dei maitre à penser che non cambieranno mai: essi non possono accettare l’eccellenza, che è il valore preminente nella società americana.
L’ex pretore di Torino Zagrebelsky molto Gustavo – incarnazione vivente dell’Homo Sovieticus nella sua declinazione accademica – ha dichiarato in un’intervista della insopportabilmente normale Annalisa Cuzzocrea per “La Stampa”: “Altro che merito e umiliazioni. In aula si cresce insieme. L’eccellenza è un inganno”. Sono frasi criminogene e in realtà molto italiane.
Mi sarei aspettato che Paolo Crepet, lo Steve Jobs della psichiatria italiana, censurasse Zagrebelsky, ma Crepet non lo ha fatto. Peccato.
Il dramma dell’Italia oggi nel 2022 è che è un paese non sostanzialmente identico, ma completamente identico al 1922: cento anni fa, appunto. Per quanto possa sembrare incredibile.
Cosa vuol dire questo? Vuol dire che si tratta di un paese piccoloborghese, fatto di piccinerie infinite che sono legate “psicoculturalmente” all’arretratezza della società civile, che poi sceglie i politici a propria immagine e somiglianza (e non è vero il contrario).
A che cosa è legata la grave e perdurante arretratezza del nostro Paese? Su un argomento così complesso occorrerebbe svolgere una adeguata riflessione in più tempi e in più articoli; vorrei limitarmi alla superficie, prendendo atto “sine die” del fatto che, a cominciare dalle scuole, prevale una deteriore mentalità catto-comunista che condiziona in modo vulnerante i ragazzini: non possono competere tra di loro, come avviene di norma nei paesi anglosassoni, tra chi è più meritevole e capace a discapito di chi non lo è (sic!) poiché il corpo insegnanti – con il “dolo dell’inconsapevolezza” – tende a delegittimare tanto nelle scuole del Nord quanto in quelle del Sud chi esce dalla norma, invitandolo a ridimensionare la sua “eccessiva indipendenza” come se dovesse vergognarsene, e addio competizione.
Una parola, questa, messa al bando nel Belpaese del cattolicesimo che non ha mai voluto la “controriforma” per citare Indro Montanelli, un punto di riferimento per i giovani.
Orbene, sulla annosa questione del così detto “merito” in relazione alle polemiche intervenute in seguito alla formazione del governo Meloni e alla nomina del nuovo ministro dell’Istruzione, è intervenuto anche la star degli psicanalisti e lo psicanalista delle star Massimo Recalcati, in un articolo su “la Repubblica” significativamente titolato “Rendiamo merito al merito”; chi scrive, nota
in proposito – senza timori di autocensura troppo scandalosamente diffusi in un paese che rimane senza pubblica opinione – che Recalcati è una persona piena di difetti che oscurano le qualità che pure ha, avendo un’eleganza che ai suoi colleghi invidiosi manca; si prende arrogantemente sul serio senza nessuna forma di “dialogo keynesiano” con gli studenti, e teorizza da tempo “l’indebolimento necessario dell’Io” in aperta polemica a suo tempo con Eugenio Scalfari (nel frattempo morto e che sosteneva che il narcisismo non va indebolito), e – ancorchè a sua insaputa – si scaglia contro il Merito dalle colonne de “la Repubblica”: l’avevo sospettato già prima di leggerlo, e valga la prova.
Perché le persone si confessano, anche Recalcati che è culturalmente sbagliato; ma il “portavoce di Lacan” si offende se uno osa dirglielo, e commettendo un palese passo falso arriva a criticare financo pubblicamente il comico Maurizio Crozza, che ha osato prenderlo in giro, quando oltretutto – a detta di chi scrive – la terapia praticata da Recalcati con i suoi pazienti – l’analisi dell’inconscio – minaccia di indebolire la fragile architettura del Sé che presiede a ogni essere umano, quando è l’azione a definire l’Io e non è l’Io a nascondere l’azione (come un tempo scrisse Umberto Galimberti spettacolarmente anti-freudiano e poi tornato ad essere freudiano, purtroppo):
Massimo Recalcati dixit. Inconsapevolmente anti-meritocratico:
“Esaurite le reazioni a caldo sulla nuova denominazione del ministero dell’Istruzione voluta dal governo Meloni, ritengo opportuno tornare sul concetto di merito per provare a dare, mi si perdoni il gioco di parole, merito al merito. Nella maggior parte degli interventi pubblici orientati a sinistra sul tema, non può non colpire la cautela sospetta se non l’aperta demonizzazione di questa parola e del suo significato considerato alternativo all’inclusione se non decisamente classista.
E’ la stessa allergia che la sinistra mostra verso un’altra parola che si è rivelata decisiva per la vittoria politica della destra: sicurezza. Ogni volta che si usano le parole merito e sicurezza scatta una sorta di riflesso pavloviano di ripudio che sembra anticipare ogni possibile argomentazione. Si chiama, effettivamente, pregiudizio ideologico. Per la sicurezza è quello che porta a percepire oscuramente l’uomo in divisa in quanto tale come un simbolo della repressione, per il merito è quello che condanna questa parola ad autorizzare alla diseguaglianza e alla crudeltà della selezione naturale (la selezione naturale non è crudele, nda). In realtà il merito, come è noto, è sancito come valore dalla nostra Costituzione (vedi articolo 34), con particolare attenzione verso gli allievi “privi di mezzi”.
Fermiamoci un momento.
Già, nel citato passaggio comincia ad affiorare lo scabroso “anti-èlitarismo” di Recalcati, figlio di agricoltori; ma Richard Nixon che era “privo di mezzi” non aveva la sofisticatezza di John Kennedy che proveniva dall’èlite di Boston.
Continuava Recalcati, e chiedo scusa per il “battage” alla Benito Mussolini di cui non posso fare a meno: anche se la profondità dell’analisi è preferibile alle battute ad effetto: “I capaci e i meritevoli vengono riconosciuti come tali a prescindere dal ceto sociale di appartenenza, dal colore della pelle, del proprio luogo di nascita, dal proprio credo religioso, ecc.
Nondimeno, il compito dello Stato non si limita a premiare i capaci e i meritevoli ma anche a ridurre il più possibile quelle condizioni di diseguaglianza che tendono a favorire i soggetti al di là delle loro capacità e del loro merito. Si tratta di una rottura netta con ogni forma di familismo, di nepotismo, di casta. Non è questo ragionamento che dovrebbe garantire la piena acquisizione del termine merito nel vocabolario di una nuova sinistra? MA LA SINISTRA PIU’ IDEOLOGICA PERCEPISCE SOLO IL LATO NEOLIBERALE DEL MERITO COME AVALLO DI UNA CONCEZIONE DELL’ESISTENZA COME CORSA PER LA PROPRIA AFFERMAZIONE INDIVIDUALE, CONCORRENZA, SELEZIONE, ANTAGONISMO, EGOISMO, ASSENZA DI INCLUSIONE. “Ma questa versione”, osserva Recalcati, “è solo una degenerazione del valore del
merito, che toglie davvero merito al merito”. Punto primo: è stato lo studioso Alberto Mingardi a condannare l’incolto neologismo “neoliberale” che tradisce un’insofferenza idiosincrasica al merito.
“Le parole hanno un senso”: come dice Nanni Moretti.
La propria affermazione individuale, la concorrenza, la selezione, l’antagonismo, l’assenza di inclusione – dovremmo includere tutti? – sono per Recalcati valori negativi; eppure se non c’è la concorrenza una comunità muore di mediocrazia.
“Sarebbe come dire che reclamare il diritto alla sicurezza per la nostra via individuale e collettiva comporti necessariamente una virata repressiva dello Stato, una militarizzazione delle nostre città, ecc. Perché non si riesce a liberarsi da sinistra da questa maculopatia che pare aggravarsi insieme della nostra visione della realtà. L’affermazione del merito non significa affatto concepire la vita come una corsa ad ostacoli, né colpevolizzare chi non è in grado di affermarsi come meritevole e capace, così come rivendicare il diritto alla sicurezza non significa affatto escludere politiche dell’accoglienza e dell’inclusione.”
Analizzando i lapsus recalcatiani, ipotizziamo la seguente scena: due studenti si trovano di fronte a Recalcati; uno ha scritto una tesi su Sigmund Freud che è geniale e visionaria in polemica aperta con alcuni eminenti colleghi dello stesso Recalcati, un altro ha realizzato una tesi mediocre sullo stesso soggetto, ma il compito che lo psicanalista “primus super pares” si prefigge per autoimposizione figlia dei suoi pregiudizi culturali è quello di non “colpevolizzare chi non è in grado di affermarsi come meritevole e capace”, e la comunità accademica che beneficio trarrà da questo comportamento?
E infine, l’errore più grave in un’affermazione che non poteva essere più italiana e “pasoliniana”:
“Nella vita della scuola il significato del merito coincide con il potenziamento dei propri talenti. Non esiste, infatti, una norma standard di cosa debba essere il merito. Da questo punto di vista il merito è sempre per principio antigerarchico e singolare. Si potrebbe dire che coincide con la capacità generativa tout court.”
No, caro Massimo.
Per premiare il merito occorre avere le èlite che sono gerarchicamente sovraordinate alla società civile, in quanto la cosiddetta gente comune non è in grado di apprezzare la “discontinuità” della novità (mai); per èlite tanto rifiutate dal recalcatismo, si intendono persone snob come il Trinity College ed appartenenti all’alta borghesia in una tradizione storica solida alle spalle come in Inghilterra (ad esempio ma non soltanto), che sono nella posizione di poter premiare o bocciare le idee “divergenti” – in qualunque ambito – del divergente di turno; se non ci fosse stato il cosmopolita Jean Martin Charcot alla direzione della Salpetrière, Sigmund Freud non avrebbe avuto successo con la sua tesi sull’inconscio.
Propongo infine un esempio che è poco italiano.
Nel libro “Le regole del gioco” l’anglofilo Piero Ottone scriveva quanto segue: Joseph Patrick Kennedy era un po’ delinquente ma aveva anche il senso dell’èlite:
“Il vecchio Joe Kennedy, fondatore della dinastia, aveva trasmesso ai figli un’ambizione imperiosa: essere i primi.
Non c’era momento della loro esistenza in cui potessero abbassare la guardia.
Anche quando giocavano a pallone fra di loro in giardino, dovevano dar l’anima per vincere, e questa ossessione conduceva a scene drammatiche, a scontri violenti, anche se poi i Kennedy diventavano tutti solidali e compatti di fronte ai terzi, perché allora era il clan nel suo insieme che doveva primeggiare.
C’era fra di loro un’incredibile rivalità.
Quando Jack, il futuro Presidente, ricevette una decorazione in guerra, il fratello maggiore, Joe,
pianse per invidia
Anche la madre, Rose, aveva adottato il motto di famiglia: “You must be the one”.
Una figlia, Eunice, confessa che fino all’età di ventiquattro anni aveva creduto di dover vincere qualche cosa ogni giorno.
I Kennedy sono una famiglia eccezionale, come dimostrano i suoi trionfi e le sue tragedie.
Di recente, occupandomi della Coppa America, ho letto la biografia di Ted Turner, che è diventato un re della televisione e ha messo insieme una brillante fortuna, e ho scoperto una situazione davvero raccapricciante: suo padre aveva deciso di provocare in lui insicurezza, perché era convinto che l’insicurezza, e i complessi che ne derivano, portano al successo.
Voleva insomma che suo figlio fosse infelice, purchè vittorioso.
Risulta che i Kennedy avessero vissuto le stesse esperienze di Turner.
Io sono assolutamente contrario a infondere l’ossessione agonistica, la volontà del primato nei figli.
A Stefano e Bettina, non ho mai posto problemi di avanzamento, e confronto con gli altri.
Papà Kennedy non mi avrebbe approvato.
A me, sta bene così.”
Ma, a conti fatti, non è nata la dinastia Ottone: è vero anche questo, e forse a Bettina non sarebbe dispiaciuto.
Meno Recalcati, più Kennedy.
di Alexander Bush