Difendersi con le armi? E’ la libertà, bellezza!

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No alla regolamentazione delle armi, la voce dell’America più profonda?

« Essendo necessaria alla sicurezza di uno Stato libero una milizia regolamentata, il diritto dei cittadini di detenere e portare armi non potrà essere infranto. »
Il secondo emendamento della Costituzione americana, scritto nel 1791, è chiaro e non è passibile di interpretazioni restrittive, che possano limitare l’uso delle armi da parte dei privati. Lo ha sancito anche una storica sentenza del luglio del 2008, in cui la Corte Suprema degli Stati Uniti ha riconosciuto il diritto dei cittadini di possedere armi, dichiarando incostituzionale la legge del Distretto di Columbia che invece ne vietava ai residenti il possesso. Se quindi Hillary Clinton, nel malaugurato caso che diventasse presidente, intendesse modificare questa norma, sulla scia dei provvedimenti già presi da Barack Obama in tal senso, dovrebbe mettere mano alla costituzione statunitense. Il che non sarà facile, vista la rigidità della carta fondamentale statunitense. In realtà l’unica possibilità per aggirare l’ostacolo sarebbe, ma non è compito del presidente, modificare le leggi degli Stati nazionali in senso restrittivo. Ma non sarà facile e vi è sempre il rischio di entrare in contrasto con la prevalenza che va sempre data alla norma costituzionale, come si è visto nel braccio di ferro fra distretto di Columbia e Corte Suprema nel 2008.
La propaganda dei grandi giornaloni legati a Wall Street e l’ipocrita aria di superiorità degli europei scatta come un riflesso automatico, puntuale, dopo ogni strage compiuta negli Usa da parte di qualche squilibrato o autoproclamato terrorista islamico. Immediatamente si punta il dito contro la lobby dei fabbricanti di armi. I democratici più progressisti si stracciano le vesti e a malapena trattengono la loro ira. I dogmatici della non violenza dimostrano tutta la loro violenta intolleranza. Ma la National RifleAssociation si limita, con molta calma, a ripetere, come ha fatto anche recentemente con la Clinton: “Avete letto la Costituzione?”.
In realtà tale propaganda nulla ha a che fare con la questione delle fabbriche d’armi. La dimostrazione è che qui in Italia, dove vige una delle leggi fra le più restrittive al mondo in tema di possesso di armi da parte dei privati, ha sede la Beretta, un’azienda che non conosce crisi e che non solo vende tranquillamente i suoi prodotti alle numerose forze di polizia nostrane, ma che esporta in tutto il mondo, compresi gli Stati Uniti, pistole e fucili di altissima qualità.
Ai fabbricanti di armi non interessano le leggi: sanno che grazie alle politiche di sicurezza degli Stati e, duole dirlo ma è così, alle guerre che divampano in ogni parte del globo, è sempre tempo di vacche grasse. Similmente se uno squilibrato vuole compiere una strage, in caso le armi non siano reperibili con facilità presso negozi regolari, può sempre rifornirsi di ciò che gli serve presso qualche criminale.
E non è difficile procurarsi armi anche in regime di proibizionismo. L’Italia delle mafie lo sa bene. La vera posta in gioco è un’altra. Come la (fallimentare) riforma Obama sulla sanità, il vero scopo dei liberal democratici è quello di sovvertire alla radice il sistema politico americano. Un sistema che nasce profondamente liberale, in cui l’individuo e la sua proprietà sono intoccabili, e che pure è stato minacciato già negli anni Trenta del secolo scorso dalle misure sociali di F.D. Roosevelt e in tempi più recenti messo a dura prova dalle leggi antiterrorismo liberticide volute da George W. Bush.
Bisogna aver attraversato gli Stati Uniti in lungo e in largo per capire che quello che viene chiamato lo spirito della frontiera fa parte dell’essenza dell’America. E’ una questione filosofica e di dna. E soprattutto di libertà.
Noi italiani, malati di statalismo esasperato fin dai tempi del fascismo, facciamo difficoltà a capirlo. Non lo capiscono neanche i nostri corrispondenti, che scrivono dai loro appartamenti con vista sui grattacieli di New York, la città meno americana degli Stati Uniti. Gli opinionisti nostrani, cosiddetti esperti di America, hanno mai vissuto fra le paludi dell’Alabama, le coltivazioni del Tennessee o le montagne del Kentucky? Ovviamente no. Al limite fanno le vacanze in Florida o in California, frequentano le grandi università e i think tank, e poi credono di aver capito lo spirito americano. Che è quello della frontiera, della competizione meritocratica.
Un sistema, se vogliamo, crudele, dove chi non vince nella lotta per la sopravvivenza crepa. E non c’è sempre lo Stato mamma ad aiutarlo. E’ comunque il Paese dove, se una famiglia decide che suo figlio non deve crescere in scuole in cui si insegna che l’uomo discende dalla scimmia e si sponsorizza la teoria del gender, si può optare per l’home school, l’educazione domestica al di fuori degli schemi imposti dalle scuole pubbliche. E’ la libertà, bellezza, a cui noi europei malati di statalismo non siamo abituati.
Anzi, che neanche concepiamo. Ed è una vita dura, certo, ma in cui domina sovrana la responsabilità dell’individuo. E in cui anche la possibilità di armarsi e di difendersi da chi attacca la tua libertà è un diritto fondamentale.

Andrea Colombo

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Andrea Colombo
Andrea Colombo (Torino 1965) è un giornalista professionista e saggista specializzato in letteratura anglo americana. Ha scritto, fra l’altro, una controstoria del rock (“Sesso, droga & rock’n’roll”, “Fogli” n.219, 1995), una guida ai principali luoghi di spiritualità cattolici italiani (“Guarire l’anima. Itinerari dello spirito”, Leonardo Mondadori, 1998) e un saggio sui rapporti fra Ezra Pound e il cattolicesimo (“Il Dio di Ezra Pound”, Ares, 2011). Ha tradotto e curato diverse opere di Ezra Pound (fra cui i controversi “Radiodiscorsi” della seconda guerra mondiale, per Il Girasole 1999, nonché i pamphlet economici, “L’Abc dell’economia e altri scritti”, per Bollati Boringhieri 1996), G.K. Chesterton, R.H. Benson e C.S.Lewis. Collabora con le pagine culturali de “La Stampa”, con il mensile di “Avvenire”, “Luoghi dell’Infinito”, e con “Studi Cattolici”. Residente a Milano, ha vissuto in varie parti del mondo, fra cui New York, Sydney, Londra, Oslo e Helsinki. Appassionato di storia dell’arte antica e contemporanea, sta preparando una “controstoria dell’arte” e un saggio sul giovane Cioran. Si definisce “un liberista jeffersoniano con una spiccata predilezione per l’anarchia”.

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