Se i repubblicani vincono, gli Usa abbandonano l’Europa?

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Quante volte abbiamo sentito questa domanda, negli ultimi anni: se vincesse Trump o un altro presidente che parla da isolazionista, gli Usa lascerebbero l’Europa? Le esperienze passate suggeriscono che non sia il caso di preoccuparsi. Ma qualcosa potrebbe cambiare nell’eventuale nuovo mandato di Trump. Stavolta potrebbe veramente esserci una svolta.
Finora la minaccia di ritirarsi dalla Nato, abbandonando di fatto l’Europa (senza più il deterrente nucleare americano, quello francese e quello britannico non basterebbero a contenere la Russia) è stata usata come leva, dagli ultimi presidenti americani, per indurre gli alleati a impegnarsi di più. Considerata la malsana abitudine europea a far pagare al contribuente americano le spese della propria difesa, sia Obama che Trump hanno fatto la voce grossa e ventilato l’opzione del ritiro per farci spendere di più.
Trump, però, parrebbe veramente convinto a ritirarsi, a prescindere dall’argomento economico. Nei suoi discorsi, infatti, si può individuare una diversa visione di politica estera, basata sul principio America First e non solo un braccio di ferro con gli alleati europei. Uomini della sua amministrazione, con cui poi ha litigato, come Mike Pompeo e soprattutto John Bolton, ritengono che Trump volesse uscire dalla Nato già nel suo primo mandato e ci sia rimasto veramente suo malgrado. Il Congresso ha preso le parole del candidato alla rielezione molto seriamente e con una legge bipartisan (uno dei proponenti è un repubblicano: Marco Rubio) ha stabilito che occorra una maggioranza dei due terzi per sciogliere il vincolo atlantico. Ma un presidente che volesse veramente cambiare alleanze lo potrebbe comunque fare: basta smettere di contribuire all’Alleanza, ritirare le truppe e dire chiaramente che non si intende onorare l’articolo 5 (mutua difesa), per essere di fatto fuori dall’Europa.
C’è da dire che Trump non sta inventando nulla di nuovo. In tutto il Novecento, i presidenti repubblicani sono stati quelli meno propensi a una politica europea. Per tradizione, sono più orientati all’America latina e al Pacifico, dal 1990 anche al Golfo e al Medio Oriente. Ma mai all’Europa. Senza voler fare tutta la storia degli Usa, ricordiamo solo che: i Repubblicani erano contrari all’intervento nella Seconda Guerra Mondiale in Europa, avrebbero voluto il ritiro di tutte le truppe dopo la resa della Germania, Eisenhower fu il meno interventista dei presidenti del dopoguerra, Nixon e Ford pensarono soprattutto alla Guerra del Vietnam e alle crisi nel Medio Oriente, ma ridussero al minimo indispensabile la presenza in Europa. Se noi oggi pensiamo ai Repubblicani come ai “falchi” antisovietici è solo perché ci ricordiamo di Reagan… che fu l’eccezione e non la regola. Ma già i suoi successori si vollero disimpegnare del tutto dal vecchio continente. Bush (padre) non voleva neppure che l’Urss si sciogliesse, per non avere nuove grane. E non mosse un dito nei primi due anni di guerra e di massacri nella ex Jugoslavia. Bush (figlio) aveva addirittura l’intenzione di ritirare tutto dall’Europa e fu solo l’11 settembre che lo trasformò in un interventista.
Il punto, quindi, non è Trump, ma tutta la tradizione che ha alle spalle, che non è tanto isolazionista, quanto non-europea. E questa è una tendenza trasversale, non è solo repubblicana ormai. C’è una fetta sempre più ampia di elettorato, di destra e di sinistra, che pensa di essere trascurata a vantaggio di governi europei, ricchi ma tirchi, protetti ma ostili.
Su questa tendenza storica si innesta poi un fenomeno nuovo, il putinismo della destra americana. Difficile stabilire quanto sia vasto, di sicuro è ancora un fenomeno minoritario. Il 91% degli elettori repubblicani ha un’opinione negativa della Russia. Però i russi hanno messo a segno una serie di vittorie propagandistiche clamorose proprio presso i Repubblicani. Soprattutto con l’intervista di Tucker Carlson (anchorman conservatore con decine di milioni di spettatori affezionati) a Vladimir Putin, sono entrati nelle case e nelle reti dei sostenitori di Trump. Ed è un lavoro assiduo che si avvale, non solo di Tucker Carlson, ma anche di numerosi altri giornalisti, opinionisti e influencer di area repubblicana. Nessuno (tranne ultimamente proprio Carlson) ha mai puntato a presentare Putin e la Russia in chiave particolarmente positiva. Ma hanno ugualmente fatto il gioco dei russi presentando la guerra in Ucraina come un “affare di Biden”, riferendosi soprattutto ai presunti scandali delle tangenti ucraine al figlio del presidente. Tucker Carlson, in particolare, ma non è l’unico, ha rilanciato sistematicamente tutte le teorie cospirative del Cremlino, dal negazionismo del massacro di Bucha al sospetto di laboratori biologici americani in terra ucraina. Al peggio non c’è mai fine e fra i Repubblicani negli Usa (ma lo vediamo anche in Italia) è partita da subito la macchina del fango contro il presidente ucraino Zelensky, che pure era in buoni rapporti con Trump. Queste campagne hanno avuto effetto, in due anni. Ora, sempre secondo gli stessi sondaggi, solo il 52% degli elettori repubblicani esprime un parere favorevole all’Ucraina, contro una media nazionale del 64%. Ma soprattutto, meno della metà degli elettori repubblicani, il 49%, ha un parere positivo della Nato, contro una media nazionale del 62%. E il 71% degli elettori repubblicani chiede che il prossimo presidente si occupi più dell’America e non di questioni internazionali.
C’è un motivo per cui la propaganda russa si rivolge ai Repubblicani più che ai Democratici. La destra di oggi non è più quella di Reagan e nemmeno quella di Bush, è una destra nazionalista, sociale e religiosa. La desta religiosa, che si era risvegliata ai tempi di Reagan e si era rafforzata soprattutto con Bush jr. era comunque inserita in un ambiente più variegato che includeva liberal-conservatori, moderati, libertari, laici. Oggi esiste praticamente solo la destra religiosa: ci si identifica come “Repubblicani” esclusivamente su battaglie etiche, religiose, identitarie, come quella contro l’aborto, contro le nozze gay, contro la cultura “woke” (dei militanti antirazzisti). A questa destra si sovrappone, quasi completamente, anche il nazionalismo. Che identifica come nemico principale il “globalismo”, nemico a cui viene attribuito il pericolo peggiore, la trama del Grande Reset che renderebbe tutto il mondo un regime totalitario e che vede nei Democratici i burattini di consorterie finanziarie e sovranazionali. Di libertà di mercato non si parla più (anzi…) e men che meno di libertà civili all’estero. È su questa destra che la propaganda russa fa molta presa, perché, mentendo, riesce a presentare la Russia come il paradiso dei valori tradizionali cristiani e Putin come il difensore dei popoli contro il globalismo. Ai Repubblicani di opposizione che, dopo l’assalto al Campidoglio, sono diventati persino opposizione sistemica sempre più emarginata, la propaganda russa offre addirittura spunti rivoluzionari, così come la propaganda sovietica, a suo tempo, la offriva ai socialisti, ai comunisti e ai nazionalisti afro-americani. E Putin vince facile, perché non gli serve attrarre consenso per la Russia, gli basta nutrire l’odio contro il sistema americano e i suoi alleati.

di Stefano Magni

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