No alla guerra civile

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Un commento “a caldo” e inedito alle elezioni francesi di uno dei maggiori esperti di dottrine politiche.

Se fossi stato cittadino della République, sia pure con molti dubbi ed esitazioni, avrei votato per Emmanuel Macron, augurandomi, però, una sua vittoria di stretta misura. Non ho mai militato nella destra anche se non l’ho mai demonizzata -ovviamente a meno che non si trattasse di quella totalitaria, che mi ripugna quanto la sinistra totalitaria – ma non so a cosa porterebbero i neo-nazionalisti alla guida dei governi europei e ho il forte timore che non avrebbero la capacità né i mezzi per rimediare ai mali che denunciano e per scongiurare i pericoli che paventano, almeno non con le vecchie ricette dello ‘stato mercantile chiuso’. D’altra parte il mio europeismo, fermo e confinato alla libera circolazione degli uomini, delle merci e dei capitali all’interno di un grande mercato comune, per la sua natura liberistica, non potrebbe mai essere compatibile con ideologie populistiche e lepenistiche.
Fatta questa premessa, però, confesso di essere preoccupato dai trionfalismi macronisti e dal Te Deum intonato per la celebrazione di una vittoria schiacciante, sì – se si considera il 66,06 % ottenuto dal leader di En marche contro il 37,3 % ottenuto dal Front National- ma che ha visto più di un terzo dei francesi disertare le urne o votare scheda bianca o deporre nelle urne schede annullate. Certo il 33,94% dei francesi che non si è pronunciato non può essere ascritto alla parte perdente ma è un fatto che, sommato ai lepenisti, esso rientra in quel 71,24 % di elettori che non hanno fiducia nelle istituzioni e nelle classi dirigenti parigine (repubblicane, golliste o socialiste), anche se in radicale dissenso sulla pars construens ovvero sui progetti di risanamento di un paese oggettivamente in crisi, anche se forse meno di noi.
“La giustizia fugge dal campo dei vincitori”, scrisse Simone Weil. Si potrebbe dire, parafrasando, che quanti hanno scelto il lavoro intellettuale come professione dovrebbero tenersi lontani dai festeggiamenti, come se ne tenne lontano Benedetto Croce alla notizia della vittoria italiana nel novembre 1918, quando, in un articolo memorabile, si chiese :”far festa perché?”.
Marine Le Pen, come tutti gli abili leader della destra che hanno fatto storia (e lei è una di loro), del presente e del passato, ha posto sul tappeto problemi drammatici – le ricadute sociali e culturali della globalizzazione, la minaccia dell’identità nazionale, i vincoli soffocanti di Maastricht, l’immigrazione incontrollata, il problema del terrorismo e del fondamentalismo islamico – ma non ha spiegato come intende risolverli se non con un giro di vite rischioso per quelle libertà e per quei diritti civili e politici che sono il legato più prezioso dell’89. Su questo forse siamo d’accordo, se non tutti ma molti, ma, mi chiedo, il suo osannato avversario politico quali proposte concrete e realistiche ha poi avanzato per rassicurare quei ceti sociali – e oggi soprattutto operai – che, a differenza delle elite economiche, politiche e intellettuali, non vivono nei quartieri alti e che non vogliono sentirsi dire che la richiesta di legge e di ordine è segno di rigurgito reazionario e razzistico?
Come ha scritto Luca Ricolfi, nel saggio Sinistra e popolo, «La gente pensa che gli immigrati siano un pericolo? La sinistra le spiega che la diversità è un valore. La gente pensa che la globalizzazione sia una minaccia? La sinistra le spiega che si tratta di una grande opportunità. La gente pensa che l’Unione Europea sia un problema? La sinistra le spiega che l’Europa non è il problema, ma la soluzione. La gente pensa che il terrorismo islamico abbia dichiarato guerra all’Occidente? La sinistra le spiega che non si tratta di una guerra, che l’Islam non c’entra nulla, e che anzi gli attentati potrebbero essere una preziosa occasione per riprendere la costruzione dell’edificio europeo». Forse se Macron è piaciuto tanto alla sinistra establishment è perché questo è anche il suo stile di pensiero.
“Siamo uomini di mondo”, anche se non tutti abbiamo “fatto il militare a Cuneo” (ma a me è capitato di farci spesso il Capodanno) e, pertanto, i trionfalismi fuori le righe per lo scampato ‘pericolo lepenista’ si possono comprendere, come si comprendono, del resto, le delusioni di quanti avevano puntato su Marine per dare una radicale svolta alla politica francese. Da qualche tempo, però, tira una brutta, una bruttissima, aria. Le diverse squadre in campo non vengono più riguardate come portatrici di programmi politici diversi ma legittimate dal comune riferimento ai valori della democrazia liberale e ai diritti fondamentali lockeani (vita, libertà, proprietà) bensì appaiono, sempre più, come incarnazioni, le une, delle Forze del Bene, le altre, delle Forze del Male. Sembra quasi di rivivere antiche lotte di civiltà che ora non oppongono più crociati e musulmani, fascisti e antifascisti, comunisti e anticomunisti – quelli sì, nemici ‘mortali’ – ma sovranisti contro globalisti, custodi delle tradizioni nazionali contro quanti definiscono la nazione “un gruppo casuale di persone all’interno di un insieme arbitrario di confini” e ironizzano sui teorici che vi vedono, al contrario, il “prodotto di una certa storia e del lascito di una cultura distintiva”. (cito un articolo del cosmopolita Andrew Sullivan sul ‘New York Magazine’3/5 2017–riportato dal ‘Foglio’ l’8 maggio u.s.) .
In questa nuova età del ferro e del fuoco – che per il momento rimane tale solo verbalmente – qual è il compito degli osservatori della realtà – storici, giornalisti coscienziosi, opinion makers: dotarsi dei lanciafiamme dei reparti d’assalto o delle tubolance dei vigili del fuoco? A mio avviso, se non si arresta la guerra ideologica in atto, quel poco o tanto di democrazia che nel 1945 ci riportarono gli Alleati corre davvero un rischio mortale. La delegittimazione reciproca degli eurofili e degli euroscettici, al presente, è assai più pericolosa della vittoria o della sconfitta degli uni o degli altri giacché sia gli uni che gli altri sembrano ritenere-ahimé! – che il mondo sarebbe migliore e più vivibile se i loro antagonisti ideologici togliessero il disturbo. Chi non è ‘dalla parte giusta della storia’ -è il comune anche se spesso non dichiarato arrière pensée– prima esce di scena, meglio è. Se si pensa che la democrazia liberale non consiste nella tolleranza dell’altro e nel diritto che gli si riconosce a competere per il potere ma nell’idea che dell’altro non si può fare a meno, giacché rappresenta un polo dialettico necessario da garantire istituzionalmente (in Inghilterra il capo dell’opposizione riceve uno stipendio) non si può non riportare la spiacevole sensazione di essere ritornati al tempo in cui, davanti alla minaccia totalitaria (di destra o di sinistra), c’era bisogno dell’Union sacrée (di destra e di sinistra).
Un dirigente del Pd, Andrea Orlando – rimasto comunista malgré soi – ha rimproverato Renzi di inseguire la destra, sottraendole i suoi ‘temi di battaglia’. Dal momento, però, che tali temi rinviano a bisogni, esigenze, paure e timori non sempre immaginari – che la destra vorrebbe monopolizzare senza riuscire, lo ripeto, riuscire a trovare per essi soluzioni credibili – perché un politico di sinistra dovrebbe venir messo alla gogna se li riprendesse nella sua agenda di governo? Analogamente, se Macron sottraesse qualche importante carta vincente al mazzo di Marine Le Pen, perché dovrebbe essere criticato? “Stupefacente e indimenticabile”, ha scritto Gianfranco Pasquino, “la scelta di far risuonare l’Inno dell’Unione Europea dalla Nona Sinfonia di Beethoven al suo primo discorso da Presidente”. E come no? Chissà come si sarebbero sentiti gratificati tutti quei francesi, che ancora si commuovono al canto della Marsigliese, se all’Inno beethoveniano non avesse fatto seguito Le Chante de guerre pour l’Armée du Rhin divenuto il simbolo stesso della Grande Révolution (un particolare, peraltro, taciuto da Pasquino)?
Viva le divisioni sociali e le contrapposizioni di civiltà! L’intellettuale impegnato, al solito, aborre l’acqua e porta la sua brava tanica di benzina all’incendio che forse divamperà in tutta l’Europa – isole britanniche comprese. Una guerra assurda perché nessuno minaccia le libertà civili e politiche di francesi, di italiani, di tedeschi, di greci etc, e proporre scelte di politica economica con ricadute rilevanti sui livelli di benessere di questa o di quella parte della comunità nazionale non significa spalancare le porte a una dittatura populista, ma semmai commettere errori gravissimi che porteranno al governo altri partiti, altre classi politiche (e forse, sui tempi lunghi, alla crisi di un regime politico e al crollo della democrazia, cosa che è tutto da vedere, essendo la Storia il regno dell’imprevedibile per antonomasia). Per l’intellettuale impegnato, i nemici non sono certo quanti alimentano questa nuova guerra civile ma leader –come quelli del Pd o di Fi – che, ponendosi i problemi reali della gente reale, cercano (bene o male) di spegnere le passioni e s’impegnano non a uscire dall’Europa ma a ricostruirla su basi più eque, non potendo nascondersi che c’è gente che dopo l’euro sta peggio di prima, sul piano del reddito e del potere d’acquisto. “In Italia, ricorda ancora Pasquino, il capo del governo che ha preceduto Gentiloni fece rimuovere la bandiera dell’Unione in occasione di una sua conferenza-stampa”. Un gesto simbolico davvero imperdonabile! Specie se volto ad assicurare tanti italiani che stare in Europa non significa perdere la propria identità etico-politica e a sottolineare che, in una conferenza stampa in cui si parla di problemi nostri, il vessillo europeo non c’azzecca poi tanto – per usare il linguaggio del Robin Hood delle Procure che tanto entusiasmò scienziati politici, giuristi, filosofi, storici, giornalisti, nani e ballerine, tutti ferocemente anticraxiani.
Per i chierici italiani, “finché c’è guerra (civile) c’è speranza”. Preferire Macron alla Le Pen non è solo ragionevole (come a me sembra, messi a confronto il pro e il contro): dev’essere anche un atto di fede, un impugnar le armi o, meglio ancora, un sacro dovere imposto dall’imperativo categorico che esige lo sradicamento delle erbacce dal giardino del Signore. E’ il fascismo dell’antifascismo giustamente stigmatizzato dal geniale Ennio Flaiano.

di Dino Cofrancesco

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Dino Cofrencesco
Dino Cofrancesco è uno dei più importanti intellettuali italiani nel campo della storia delle dottrine politiche e della filosofia. E' autore di innumerevoli saggi e tra i fondatori dei Comitati per le Libertà. Allergico all'ideologia dell'impegno, agli "intellettuali militanti", ai profeti e ai salvatori del mondo, ai mistici dell'antifascismo e dell'anticomunismo, ha sempre visto nel "lavoro intellettuale" una professione come un'altra, da esercitarsi con umiltà e, nella misura del possibile, "senza prendere partito". Per questo continua, oggi più che mai, a ritenere Raymond Aron, Isaiah Berlin e Max Weber gli autori più formativi del '900; per questo, al tempo dell'Intervista sul fascismo di Renzo De Felice, si schierò, senza esitazione, dalla parte della storiografia revisionista, senza timore di venir accusato di filofascismo.

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