Siria: chiunque vinca, noi perdiamo

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stefano

Siria, perché era giusto essere interventisti nel 2012, mentre si dovrebbe essere coerentemente neutralisti nel 2013? La risposta non arriva da una polemica “a prescindere” con il presidente Barack Obama, che fu neutralista fino all’estate scorsa, per poi risvegliarsi nel ruolo di unico presidente interventista in tutto il mondo occidentale. La risposta è data, piuttosto, dalla stessa guerra siriana e dalla sua rapida involuzione.
La ribellione contro il dittatore Bashar al Assad iniziò, assieme alle altre Primavere Arabe, come un moto democratico, contro la corruzione del regime e la repressione. Nel marzo del 2011, a sollevarsi erano tutti: sunniti, curdi, cristiani, uniti dall’esasperazione contro la dittatura. Allora il mondo libero, impegnato nel lungo intervento contro Gheddafi in Libia (otto mesi di campagna aerea) non aveva margini di azione. Inoltre il veto di Russia e Cina, dichiaratamente schierati dalla parte del dittatore, avrebbe impedito ogni autorizzazione da parte dell’Onu. Nel frattempo, la rivolta siriana diventava una vera e propria rivoluzione e la spaccatura all’interno dell’esercito siriano la trasformava in una guerra civile.
Nel 2012, tuttavia, la situazione era cambiata e relativamente più favorevole alle democrazie occidentali. Con i bombardamenti sull’esercito di Gheddafi, la Nato aveva dimostrato una risolutezza insperata dopo le divisioni che si erano create sulla guerra in Iraq del 2003. La Russia, nonostante la sua base navale a Tartus, sulla costa mediterranea siriana, avrebbe potuto fare ben poco per fermare un intervento in Siria, come ammise, fra i denti, lo stesso presidente Vladimir Putin. E l’uso diretto della forza, per tutto il 2012, sarebbe stato anche non necessario. Sarebbe bastato armare i ribelli, che nell’estate 2012 avevano già raggruppato un esercito di tutto rispetto (100mila uomini), controllavano la Siria settentrionale e contendevano al regime la città di Aleppo, la seconda del Paese. Il rischio jihadista c’era, ma era relativamente contenuto. L’Esercito Siriano Libero (ribelli) era costituito soprattutto da disertori dell’esercito regolare, cittadini reclutati con la leva obbligatoria e ribellatisi agli ordini spietati (e al trattamento brutale) dei loro superiori. Gli jihadisti, l’anno scorso, erano già organizzati, ma minoritari. Se ne contavano circa 5000 (su un totale di 100mila insorti), raggruppati nelle milizie di Al Nusra, affiliate ad Al Qaeda e prontamente condannate dagli Stati Uniti. Un intervento occidentale al fianco dei ribelli rientrava negli interessi nazionali americani ed europei: dalla parte di Assad combattevano i terroristi di Hezbollah, responsabili del più grave attentato anti-semita in Europa dei tempi recenti (la bomba su un autobus di turisti israeliani a Burgas, in Bulgaria, del 18 luglio 2012). Assad stesso, alleato dell’Iran, ha sempre costituito una minaccia diretta per Israele e indiretta (tramite l’appoggio ai terroristi, appunto) per tutte le democrazie occidentali.
Non essere intervenuti, né direttamente, né armando i ribelli, ha comportato una rapida degenerazione della situazione sul campo. Arrivati al settembre 2013, ci sono due nemici dell’Occidente che si sfidano in Siria, non facendosi scrupoli a usare le armi chimiche. Il plurale è d’obbligo, perché non è solo il regime di Assad ad aver gasato i suoi nemici a Damasco, il 21 agosto scorso: i ribelli hanno tirato quasi certamente i loro ordigni chimici il 23 marzo, ad Aleppo, uccidendo decine di civili e soldati regolari. Non siamo più di fronte a una ribellione popolare contro un dittatore, come nel 2011. E neppure a un conflitto fra un esercito regolare ed uno di disertori, come nel 2012. La guerra è attualmente un scontro fra jihadisti sunniti contro un dittatore alawita. Come si è arrivati a questo? Pur tirandosi indietro, gli Usa e gli alleati europei hanno incoraggiato gli aiuti arabi e islamici agli insorti. Armi e volontari sono fluiti da Qatar, Arabia Saudita, Turchia, Giordania, Egitto, Libia e Tunisia, tutte nazioni in cui i Fratelli Musulmani giocano un ruolo importante (Turchia, Arabia Saudita, Qatar, Libia) o sono direttamente al governo (Tunisia, Egitto fino a questa estate). La fazione dei ribelli si è completamente islamizzata fra il 2012 e il 2013. Forti dei loro finanziamenti dall’estero, Al Nusra ha messo in piedi un vero e proprio Stato parallelo, con un suo welfare state funzionante nelle zone occupate da ricostruire e riorganizzare. Attualmente, secondo l’analisi della londinese Ihs Jane’s Intelligence Review, i due terzi dello schieramento degli insorti sono islamizzati: dai 10mila ai 15mila sono i membri di Al Nusra (dunque: Al Qaeda), dai 25mila ai 30mila sono jihadisti appartenenti a formazioni minori locali, altri 30mila circa sono inquadrati in formazioni armate dei Fratelli Musulmani. I “laici” sono ormai una sparuta minoranza, sui 20-25mila uomini. Questo dà un’idea su cosa possa diventare la Siria in caso di vittoria dei ribelli. Nella migliore delle ipotesi, finirebbe sotto un regime dei Fratelli Musulmani, più moderati rispetto agli jihadisti solo perché vogliono instaurare un totalitarismo islamico gradualmente e non con metodi rivoluzionari. A causa dell’ideologia totalitaria di entrambe le parti in guerra, il conflitto è degenerato oltre ogni immaginazione. Gli jihadisti uccidono o sottomettono i cristiani, stuprano sistematicamente le loro donne, incarcerano e torturano gli occidentali che capitano loro sotto mano, fra cui il giornalista italiano Domenico Quirico, tenuto prigioniero per cinque mesi nell’inferno delle covi jihadisti. Da questa estate è iniziata anche una resa dei conti finale fra gli islamisti e i laici, all’interno della fazione ribelle. Come nella Guerra Civile di Spagna, quando il Partito Comunista eliminò fisicamente trotzkisti e anarchici (pur dovendo combattere contro Franco), gli jihadisti stanno passando per le armi i ribelli dell’Esercito Siriano Libero. Considerando il rapporto di forze sbilanciato a favore dei primi, è possibile che la resistenza laica si estingua in pochi mesi.
Siamo ormai arrivati al punto in cui una vittoria di Assad rientrerebbe negli interessi delle democrazie occidentali, più di un trionfo dei suoi nemici interni. Eppure, proprio a questo punto, Obama ha iniziato a premere per un intervento. Il presidente statunitense si è schierato per l’azione, per sostenere la sua rete di alleanze con Arabia Saudita, Qatar e Turchia, per lanciare un segnale forte contro l’uso di armi chimiche da parte del regime (che hanno provocato 1300 morti, non ancora accertati, all’interno di una guerra da 100mila morti…), ma senza calcolare i rischi di un intervento che finirebbe, inevitabilmente, per favorire uno schieramento jihadista sunnita, la peggior minaccia all’Occidente. La proposta non ha convinto gli alleati, né l’opinione pubblica americana, né il Congresso, né lo stesso esercito americano, che ha iniziato a mostrare segni di evidente insofferenza. Obama ha rinunciato a premere sull’acceleratore dell’intervento armato, preferendo ridare voce alla diplomazia. Ma la possibilità di un’azione in Siria è sempre latente. Qualunque futura grave violazione dei diritti umani potrebbe far tornare in auge il dibattito. In tal caso si dovrà aver ancora la forza di essere neutralisti. Perché ormai, in Siria, chiunque vinca sarà il nostro prossimo nemico.

Stefano Magni

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