SAN MARIO DA FRANCOFORTE? UNA PERSONA PIENA DI DIFETTI, E L’ITALIA COMINCIA A FRANARE

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“Ma Draghi, li eserciterà davvero i poteri sostitutivi che gli sono stati personalmente conferiti in caso di ritardi e inadempienze delle singole entità responsabili dell’attuazione del Pnrr?…”
“Opere al palo se San Mario non usa i superpoteri”, Oscar Giannino

“… Io credo che Mario Draghi non sia stato aiutato dall’ossequio, pressochè unanime, da cui è stato circondato dal momento in cui andò al governo grazie a un irresponsabile colpo di mano di Matteo Renzi che fece cadere l’esecutivo, per motivi rimasti ai più incomprensibili, in piena pandemia. Osannato da tutte le parti come “il salvatore della Patria” Draghi ha perso il senso della realtà e soprattutto dei propri limiti. Ha creduto di essere onnipotente e di avere sempre ragione.
Non è la prima volta che capita in Italia, anche con personaggi ben più attrezzati di Draghi almeno politicamente (Super Mario non è un politico, è un banchiere che è mestiere del tutto diverso)…”.
Massimo Fini, “In Italia i miti poi franano (anche quello di Draghi)” 11 gennaio 2022

L’intero Occidente sta crollando tra le macerie della civiltà in decadenza (con gli echi del nichilista Oswald Spengler), ma nelle nazioni avanzate c’è almeno chi osa esplorare il deserto indicando la via. Povera Italia, sempre mancante di originalità; due sono gli ultimi fatti degni di sovrana attenzione: l’articolo di Oscar Giannino – giornalista di una certa lucidità, e uomo di grande generosità al netto della conclamata mitomania – “Opere al palo se San Mario non usa i superpoteri”, e la successiva decisione senza precedenti del cancelliere tedesco Olaf Scholz di perseguire in proprio uno scostamento di bilancio di 200 miliardi: ecco a voi John Maynard Keynes, apriti cielo!
Meglio tardi che mai… Anche perché i tedeschi rischiano di non sopravvivere all’onda d’urto della crisi dell’energia provocata dallo psicopatico Vladimir, figuriamoci gli italiani!
E’ un falso luogo comune che la Germania – già stressata dal crepuscolo del “modello renano” – abbia i soldi, le strutture finanziarie e sociali che invece l’Italia non ha, per andare fuori budjet (sic!): questi sono i tempi della spesa in disavanzo universalmente valida, a causa della depressione della domanda aggregata continentale tenuta in ostaggio da più “fattori esogeni”: prima la pandemia, e adesso la guerra all’Ucraina; anche lo Stato tedesco, o meglio, lo Stato tedesco in primis inaugura politiche passive di bilancio in luogo del fatto che se non c’è denaro in circolazione, è lo Stato come creatore di moneta a farsi carico della collettività a costo zero: le terapie inflazionistiche, però, funzionano appunto nell’emergenza del breve termine (scusatemi la tautologia): a lungo termine, le stesse sono criminogene poiché il debito pubblico con il tempo si intossica nel passaggio dallo “stato d’eccezione” alla normalità; su questo terreno specifico gli ordoliberali sbagliano in pieno, a causa della cecità dell’ideologia: elementare Watson!
Incredibile a dirsi, l’intera Commissione di Bruxelles è asservita alla ruggine “out of time” degli asfittici parametri comunitari schiacciati sul dogma di Milton Friedman (una religione), da Christine Lagarde a Ursula von der Leyen.
Draghi ha commesso un grossolano errore di valutazione nel dichiarare: “Così la Germania rompe il fronte europeo distorcendo il mercato”: infatti il cosiddetto “principio della concorrenza leale” non è valido in sé, ma è sospeso temporaneamente dallo stato di necessità del deficit spending che segna oggettivamente il passaggio dal mercato allo Stato come “arbiter emergentiarum”, ma Draghi sogna il mercato perché è “eternamente uguale” da macroesperto di finanza che non capisce di economia: lui non cambia mai, come tutte le persone monomaniacali; il fanatismo mal si concilia con la profondità dell’intelligenza.
Colgo l’occasione per osservare che l’incipit del discorso del Migliore a Washington: “Doctor Kissinger” è un difetto tipico delle persone provinciali, che aggettivano gli interlocutori con l’uso della parola Dottore.
Ovviamente, Kissinger lo avrà notato.
Come scrive Tito Boeri su “la Repubblica” nell’articolo “Il tabù del Pnrr – La rinegoziazione in Europa è difficile” del 22 settembre 2022,

“Siamo coscienti che l’Europa è contraria a qualsiasi idea di rinegoziare il Pnrr, ma sbaglia. Il Pnrr non è un dogma religioso, e rinegoziarlo non dovrebbe essere un tabù se ci sono validi motivi. E in teoria ci sono tante ragioni per farlo. Il Recovery Fund fu pensato quando in Europa imperversava la pandemia senza vaccini e la gente stava chiusa in casa. Oggi quell’epoca sembra lontana decenni. Da allora abbiamo avuto una guerra alle porte, che ora minaccia di diventare nucleare; il prezzo della principale fonte di energie per le famiglie e imprese è aumentato sette volte; e l’inflazione è passata da zero ai massimi degli ultimi 40 anni rendendo già obsolete le stime sui costi di molte misure previste dal piano, tanto che il governo ha già stanziato 10 miliardi per affrontare la lievitazione della spesa. Nessuno di questi eventi era minimamente prevedibile quando fu pensato il Recovery Fund e ognuno da solo giustificherebbe un ripensamento. In astratto, non c’è niente di sbagliato nella richiesta avanzata dalla coalizione di centrodestra di rinegoziare il piano con Bruxelles”.

Le osservazioni del lucidissimo Tito Boeri, come sempre, sono totalmente condivisibili in punto di pragmatismo a-ideologico.
In particolare la seguente osservazione che mette in luce la intrinseca inadempienza dei Fratelli d’Italia entrati nella stanza dei bottoni: “Il problema, ovviamente, è come si rinegozia e come si vuole cambiare il Pnrr. Per rinegoziare efficacemente ci vogliono tre ingredienti: idee chiare e capacità progettuale per elaborare rapidamente misure all’altezza delle nuove priorità; persone che conoscano a fondo la macchina dello Stato; credibilità, presentabilità e autorevolezza a livello internazionale per negoziare con Bruxelles in modo costruttivo…”.

Secondo voi, qual è la risposta? Ci vogliono degli Schlesinger e Roosevelt al vertice dello Stato, cioè personale politico-amministrativo altamente qualificato nelle posizioni apicali, ma la Meloni in tasca non ce li ha. Ha gli amici di Guido Crosetto.
C’è poi un altro problema: la Commissione di Bruxelles non intende reiterare gli appoggi finanziari a Roma, ora che a Mr Wolf è subentrata Giorgia Meloni – anche con motivazioni non del tutto campate in aria: il flop del PNRR 1.0 su tutta la linea; se esso non ha avuto successo con Mr Wolf, nella versione primigenia del Prestito di 209 miliardi di euro – osservano con il consueto scetticismo anti italiano gli euroburocrati di Bruxelles –, come potrà avere successo diversamente con Fratelli d’Italia che sono i nipotini della RSI!
L’Europa non presta i soldi per divertissement. Vuole vedere i risultati!
Dunque, qui si pone la vera domanda delle domande: come mai il maxiprestito della Commissione Europea altrimenti nota come Trojka, si è trasformato in un fallimento tanto da spingere gli uomini di apparato a dire no a nuovi prestiti?
La ragione fondamentale di un insuccesso così evidente – a mio avviso – sta nel fatto che Draghi si è rifiutato tout court, prima di approvare il salario minimo legale alla Macron (il più grave errore politico della sua carriera che, ricordiamolo, gli è costata la Presidenza del Consiglio) –, e poi di usare il debito pubblico “socializzandolo” (cosa che sta facendo adesso Olaf Sholz): per Mario, esiste infatti il debito pubblico “buono” contro il debito pubblico “cattivo”; il cosiddetto debito “buono” andrebbe riservato soltanto alle imprese vincenti escludendo a priori la stragrande maggioranza delle imprese di costruzioni medie, piccole e piccolissime note come “zombie firms”.
E’ tra l’altro una valutazione “darwinisticamente” errata quella del Migliore: perché in tempi di vacche magre, il deficit spending è DEBITO TOUT COURT; è vero che Roosevelt salvò il Mercato con i soldi pubblici, ma l’America è da sempre un’economia sociale di mercato dove cioè il

capitalismo è direttamente collegato ai cittadini che ne fanno parte; l’Italia “provincia dell’impero” no, essendo paese trainato per spinta inerziale dalle medie e piccole imprese che in quanto tali – essendo cioè “zombie firms” – sono escluse dal pacchetto inflazionistico della Resilienza.
Lo aiuta a capire perfettamente Oscar Giannino nella menzionata analisi su “Affari e Finanza” del 20 settembre “Mario non usa i superpoteri”, tra gli embrioni del federalismo fiscale tanto agognato da Massimo Cacciari:

“… Entro e non oltre 30 giorni dalla conclusione della Conferenza di Servizi abbreviata, le Regioni devono pronunciarsi su espropriazioni di aree necessarie a opere.
L’installazione delle infrastrutture di ricarica dei veicoli elettrici ad accesso pubblico non è soggetta al rilascio del permesso di costruire, ed è considerata attività di edilizia libera. Si consente agli enti locali in esercizio o gestione provvisoria di iscrivere comunque in bilancio i finanziamenti di derivazione statale ed europea per investimenti infrastrutturali per gli anni dal 2021 al 2026, in deroga alle norme del Testo unico Enti locali che lo vieterebbero. Non basterebbero altre pagine intere solo per elencare i titoli delle semplificazioni assunte per legge.
Da questo pur sommario elenco, si potrebbe dedurre che in realtà le imprese hanno già ottenuto larghissima parte di quanto chiedevano da 11 anni, perché tanto è durata la crisi da sempre più grave delle costruzioni nel nostro Paese. Eppure, non è così.
L’Associazione costruttori guidata da Gabriele Buia ha riconosciuto esplicitamente che Draghi ha fatto finalmente molto.
Ma nella realtà il mondo dei costruttori ha in sé due interessi non esattamente coincidenti.
Da una parte, i (pochissimi) grandi gruppi internazionalizzati vogliono innanzitutto che davvero la macchina pubblica di gare e progetti si metta a correre, e che Draghi sia pronto a intervenire tutte le volte che torneranno a manifestarsi intoppi. Dall’altra parte c’è la grande maggioranza delle imprese di costruzioni medie, piccole e piccolissime.
Sopravvissute alla strage degli ultimi anni, se ora nella fretta le opere si aggiudicano per grandi o addirittura immensi lotti, il rischio concreto per loro è di non avere struttura finanziaria, patrimoniale o operativa tale da poterseli aggiudicare, neanche se pensassero ad amplissime associazioni temporanee. E allora la ricaduta del Pnrr sarebbe concentrata su un collo di bottiglia di pochissime grandi imprese pubbliche e private. Per evitarlo, le piccole chiedono a Draghi che i lotti siano il più possibile tali da consentire all’intero tessuto produttivo di partecipare. Servirebbe un miracolo, come nel Dopoguerra”.

Ma Draghi, caro Giannino, ha rifiutato e rifiuta di usare i superpoteri perché è innamorato di un’idea che fa acqua da tutte le parti: la finanza è superiore allo Stato.
Più la realtà gli si ribella, più lui non la accetta peggiorando nella sua indifendibilità.
Osserva in conclusione Giannino da Oscar: “Cè un punto che unisce le preoccupazioni di grandi e piccoli. E’ stato un mezzo flop la leva concorsuale straordinaria del personale qualificato previsto per le Regioni in vista del Pnrr, volto a dotarsi della capacità tecnica di esaminare i progetti infrastrutturali, il punto debole di moltissime Regioni che ha provocato nei decenni l’incapacità italiana di sfruttare al meglio i Fondi europei. Il bando era scritto male, si è dovuto richiamare alle prove anche chi era stato escluso, le alte competenze non si sono presentate, per un contratto a tempo poco remunerato (insufficiente copertura finanziaria dello Stato che Draghi non voleva concedere, nda). Ecco perché tutti temono che Regioni e Comuni non ce la faranno, anche se Draghi ha adottato tutte le procedure straordinarie che le imprese chiedevano…”.

Occorre l’integrazione del Pnrr con il debito pubblico, come passo successivo caro Giannino: ma la brutta notizia è che né Draghi né la Meloni ne vogliono sapere, poiché non capiscono e tutto ciò ha dello stucchevole, se non dell’incredibile vero e proprio.
Le opzioni in campo restano allora due: chiedere nuovi prestiti a Bruxelles, o fare come Sholz in
Germania stampando moneta in caso di diniego dei figli di Trojka.
Nell’ipotesi malaugurata che falliscano tutt’e e due le opzioni, l’Italia va in default.

di Alexander Bush

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Alexander Bush
Alexander Bush, classe '88, nutre da sempre una passione per la politica e l’economia legata al giornalismo d’inchiesta. Ha realizzato diversi documentari presentati a Palazzo Cubani, tra questi “Monte Draghi di Siena” e “L’utilizzatore finale del Ponte dei Frati Neri”, riscuotendo grande interesse di pubblico. Si definisce un liberale arrabbiato e appassionato in economia prima ancora che in politica. Bush ha pubblicato un atto d’accusa contro la Procura di Palermo che ha fatto processare Marcello Dell’Utri e sul quale è tuttora aperta la possibilità del processo di revisione: “Romanzo criminale contro Marcello Dell’Utri. Più perseguitato di Enzo Tortora”.

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