Perché non mi piace il Giorno della Memoria

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“Per l’Albatros un articolo di Dino Cofrancesco sul Giorno della Memoria”.


Ascoltare la radio in questi giorni significa essere richiamati in continuazione alla memoria dell’olocausto. Anche la TV e i giornali ricordano la più grande tragedia del XX secolo ma forse con minore pathos. E’ giusto, beninteso, non far cadere nell’oblio i giorni in cui parve che Dio si fosse ritirato dal mondo e tuttavia c’è qualcosa, nelle rievocazioni ufficiali e non ufficiali, che produce un profondo disagio negli spiriti che sono diventati liberali leggendo Montaigne e Hume e non Cartesio e Rousseau. Non mi riferisco alla tanto insistita : il genocidio nazista fu effettivamente qualcosa di e di inedito nella storia del genere umano. Le stragi compiute da regimi nazionalisti e autoritari—quella degli armeni ad es. o quelle recenti nella martoriata ex Jugoslavia—erano dettate dalla disumana determinazione a espellere il , a non permettere che altre etnie culturali o altre confessioni religiose minacciassero l’omogeneità della nazione (): i militari turchi consideravano il popolo armeno un veicolo di corruzione e di confusione ma, fuori dai patri confini, quel popolo diventava una ‘tribù’come le altre. Un eventuale stato confinante in cui gli armeni fossero stati l’etnia dominante non avrebbe costituito, per gli eredi della Sublime Porta, nessun problema: le relazioni diplomatiche e gli scambi commerciali con i vicini‘stranieri’non sarebbero stati certo ostacolati e una ragazza turca e un ragazzo armeno, emigrati entrambi, negli Stati Uniti sarebbero convolati a giuste nozze senza dover fare i conti con pregiudizi e con tragedie appartenenti al passato.
Anche le persecuzioni perpetrate dai regimi comunisti sono imparagonabili all’olocausto: le vittime venivano soppresse o mandate a morire nei Gulag in quanto oppositori del partito unico al governo o in quanto identificati con ruoli sociali (borghesi) ritenuti incompatibili con le ‘magnifiche sorti e progressive’che la classe dirigente stava confezionando per l’umanità sofferente. Borghesi o liberali non si nasce, si diventa e come si diventa borghesi o liberali in virtù dell’acculturazione o della collocazione sociale così ci si può convertire al socialismo grazie a un’opera di rieducazione a cura del Partito (la cui violenza, va riconosciuto, dipende dagli abiti mentali e dalle tradizioni storiche dei singoli paesi).
No, la shoah è unica giacché gli ebrei non venivano soppressi perché diversi, sotto il profilo etnico-culturale o religioso, o perché simboli di modelli economici o ideologie politiche non più tollerabili dal socialismo ‘in cantiere’ ma perché infetti e inferiori, perché,nella delirante ideologia nazionalsocialista, rappresentavano una minaccia non solo per la razza ariana ma per l’intero genere umano sicché ne derivava il diritto a sterminarli dovunque si trovassero, senza considerazioni di cittadinanza o debolezze sentimentali. In quanto funzionari dell’Umanità, i nazisti rivendicavano il dovere di eliminare dalla faccia della terra le mele marce che avrebbero contaminato l’albero della vita: per questo le generazioni future avrebbero dovuto essere grati a guaritori così disinteressati e generosi.
Sono precisazioni concettuali che vanno fatte in società superficiali quali stanno diventando le nostre nelle quali purtroppo paiono smarrirsi i confini tra xenofobia, nazionalismo, razzismo etc. e ogni esclusione diventa una prefatio ad Hitlerum. La violenza resta sempre una brutta cosa ma le motivazioni che la mettono in moto possono essere molto diverse ed è proprio tale diversità a prefigurare le concrete possibilità che si hanno per neutralizzarla o farla retrocedere allo stadio di vago, innocuo, pregiudizio.
E tuttavia, fatta questa premessa, non si può non rilevare che l’enfasi sul giorno della memoria rischia di creare atmosfere spirituali sempre meno vivibili. Anche le cause migliori quando diventano riti collettivi di massa, oggetto di martellamento etico-pedagogico continuo, retorica del , finiscono per ingenerare reazioni scomposte e barbariche. L’indottrinamento—sia quello fascista o quello comunista o quello demogiacobino—è sempre una forma di intollerabile pressione psicologica che le ‘società aperte’ dovrebbero accuratamente evitare. Il liberalismo, si è detto e ripetuto migliaia di volte, è una teorica delle libertà, non dei diritti: non c’è il diritto delle vittime a incatenare i passanti davanti a uno schermo gigante che mostri l’infame tragedia dei Lager. Le istituzioni, i mass media, fanno bene a ricordare ma evitando ogni (sospetto) pedagogismo e riconoscendo, ad es., che la libertà di mettere in questione l’olocausto (sia pure sulla base di un negazionismo assurdo e ributtante) e di disertare le cerimonie rievocative ufficiali è altrettanto sacra del diritto degli scampati al genocidio di venir intervistati per far conoscere le loro tribolazioni.
Le tragedie del passato non possono diventare risorse politiche per recuperare quei minimi consensi sui valori che le istituzioni e i rapporti sociali quotidiani non sono (o non sono più) in grado di assicurare. Il dissenso insanabile che oppone sulla questione palestinese Fiamma Nirenstein e Gad Lerner non può essere accantonato, per qualche momento, con la ripetizione ossessiva dell’ovvio: che i Lager rappresentarono lo zenith della ‘barbarie dei moderni’; che gli episodi di antisemitismo,riportati dai giornali, documentano l’esistenza di una umanità sotterranea, corrotta e malata; che dobbiamo sempre montare la guardia perché l’intolleranza religiosa e razziale non degeneri in guerra civile etc. Quando a destra e a sinistra, si è tutti d’accordo, qual è il senso delle condanne solenni, delle interminabili rievocazioni storiche, delle interviste ai pochi sopravvissuti che ripetono racconti sconvolgenti ma arcinoti?
Non è del tutto vero, però, quanto scrive Elena Loewenthal nel suo toccante e dolente saggio, Contro il giorno della memoria (add Editore) che . Lungi dal ridursi a un risarcimento (postumo) alle vittime della più cupa tragedia della storia contemporanea, secondo la studiosa—giornalista de ‘La Stampa’ e docente di ‘cultura ebraica’ al San Raffaele—la GdM avrebbe dovuto essere un’occasione per assumersi la ‘proprietà’di quanto accaduto, per < riconoscere che non è una storia altrui cui si rende omaggio, ma la propria che si ricorda per quello che è. Anche se è orribile. Ma non si può fare a meno di riconoscerla come qualcosa che i appartiene:”E’roba nostra, purtroppo”>. Forse, abbiamo letto analisi diverse, forse abbiamo ascoltato trasmissioni, interviste e conferenze fuorvianti, ma da anni, come l’ombra di Banquo, ci perseguita la retorica del , del Dio che è morto ad Auschwitz, della civiltà occidentale che si sarebbe macchiata in maniera indelebile di crimini inediti in duemila anni di storia, dei ‘diritti dell’uomo’affermati dalle rivoluzioni atlantiche e finiti nei forni crematori. Sull’altro versante, per i sostenitori della decadenza, per quanti non si sono mai riconciliati con la laicità autentica e con i ‘valori della società aperta’, per quelli del , i Lager sono il simbolo inquietante di un fallimento epocale, il punto d’approdo del nichilismo sotteso al processo di secolarizzazione. Per gli uni (la destra reazionaria e tradizionalista),segnano il macabro trionfo della modernità tout court, per gli altri (la sinistra immunizzata da ogni virus liberale), portano allo scoperto la modernità deviata, ovvero la modernità rimasta prigioniera dell’universo borghese e venuta a patti con le forze del Male (l’ancien régime). L’ideologia dominante nel nostro paese—e di cui non sembra essersi accorta la Loewenthal che ha eletto a maître-à-penser il compianto Alessandro Galante Garrone– : il Lager come fondo oscuro del secolo breve, come colpa collettiva che per quante rievocazioni si istituiscano per legge, rimarrà sempre indelebile. Altro che storia dei soli ebrei! Sul banco degli accusati ci siamo tutti noi con le nostre culture, le nostre istituzioni, i nostri ‘diritti’ ridotti a carta straccia quando si teme per i propri privilegi di classe.
Sennonché è venuto, forse il tempo di mettere da parte il cilicio e di scrollarsi la cenere dal capo. Quanti sono nati dopo la fine della seconda guerra mondiale sono responsabili dei Lager come lo sono della distruzione del Tempio di Gerusalemme ordinata da Tito Flavio. Le responsabilità storiche ricadono soltanto sui nostri antenati e anche nei loro confronti non siamo autorizzati a indossare le vesti del giustiziere ma abbiamo il dovere di comprendere, non per perdonare (i morti non ne hanno bisogno) ma per guardare lucidamente gli errori commessi nel passato e attrezzarci per non ripeterli. Il totalitarismo nazista fu alimentato da pregiudizi culturali, da istituzioni politiche, da folkways antichi, da configurazioni oggettive dei rapporti internazionali che rinviano, sì, a colpe oggettive ma che non sono certo le nostre bensì quelle di classi dirigenti che non seppero evitare la catastrofe della guerra civile permanente e resero, in diversi casi, i movimenti totalitari benemeriti agli occhi della ‘gente comune’ desiderosa soprattutto di quiete e di ‘normalità’(un crimine?). Ad accendere il rogo antisemita concorse la legna secca di culture religiose e di pregiudizi secolari che non erano mai penetrati nei paesi in cui avevano fatto scuola Adam Smith e David Hume (dove, tutt’al più, si ebbero episodi sporadici di antisemitismo assimilabili più alla xenofobia che non al razzismo) ma che erano rimasti depositati nel fondo degli animi in altri paesi—neutralizzando gli anticorpi dell’illuminismo sobrio e del cattolicesimo liberale: v. le Interdizioni israelitiche di Carlo Cattaneo (1835) e Dell’emancipazione civile degli Israeliti,di Massimo d’Azeglio (1848).
Condizionata dalle sue credenze ideologiche, la Loewenthal dà l’impressione di ignorare che la filosofia sottesa al GdM va Norimberga, sul banco degli accusati, porta non solo i capi del nazionalsocialismo ma, altresì, l’intera civiltà europea che non riuscì a evitare che e che, nella più ricca e potente nazione del continente, conquistassero il potere i figli di Satana ma, quel che è più grave, chiude gli occhi dinanzi alla vera ‘strumentalizzazione’ del 27 gennaio..Ma siamo sicuri che gli ebrei vengano messi sotto accusa (e poi da chi?) per voler Le altre familles spirituelles dell’Italia (e dell’Europa) sono tutte sinceramente impegnate a ricordare i Gulag , i massacri degli armeni, le ecatombi cristiane in Africa? I Moni Ovadia che non perdono occasione per rievocare la tragedia del loro ‘popolo’ e che distinguono il socialismo reale dall’utopia che non finirà mai di riscaldare i cuori, chiedono con insistenza una GdM anche per le vittime di Stalin e di Pol Pot? Non risulta. Per loro, ha scritto Pierluigi Battista, ne I Conformisti. L’estinzione degli intellettuali d’Italia,(Ed. Rizzoli 2009) . In quest’ottica, il genocidio ebraico era iscritto nella storia della cultura europea mentre il Gulag è stato un incidente di percorso, su cui non vale la pena tornare anche perché il comunismo è crollato sotto il Muro di Berlino (in Italia, per non parlare della Cina o dell’America Latina qualcosa esiste ancora ma lasciamo stare…). Forse ci saranno pure degli ebrei che facendo del Lager (et pour cause) un evento unico incomparabile per efferatezza a qualsiasi altro episodio di violenza, si assicurano una visibilità mediatica che non sembra dispiacere a qualche rabbino, di cui avremmo ignorato il nome e l’esistenza senza le comparsate in televisione–ma sicuramente ci sono altre agenzie politiche che hanno un interesse di gran lunga maggiore a enfatizzare il ‘buco nero’della storia della ‘modernità’,e che forse la Loewenthal, formatasi nella Torino della mistica antifascista e dell’azionismo liberalcomunista, non ha lenti sufficienti per smascherare. Per quelle agenzie (partiti, istituti di cultura sindacati etc.), davanti ai bagliori dei forni crematori, tutte le altre pire erette dall’intolleranza e dal fanatismo diventano fuocherelli secondari, anche nel caso del massacro degli Armeni. Né può essere ignorato, del resto, che un GdM in ricordo della tragedia armena causerebbe un incidente diplomatico con la Turchia, mentre l’istituzionalizzazione di una eventuale commemorazione annua delle vittime africane e asiatiche del fondamentalismo islamico ci attirerebbe le rappresaglie dei paesi arabi che ci forniscono il petrolio:nessuna ritorsione, invece, c’è da aspettarsi da regimi nazisti ancora in vita.
Sennonché, al di là di tutti questi rilievi, sicuramente in controtendenza, queste crociate filosemite (spesso condite di antisionismo e di critiche violente a Israele che, come denuncia questa volta a ragione la Loewenthal, confondono le sia pur discutibili politiche dello stato ebraico col genocidio) rivelano, in filigrana, la débacle dello stato moderno e della filosofia civile che lo animava e segnano—insospettatamente– la rivincita del nazionalsocialismo e delle altre correnti di pensiero premoderno che quello stato aveva ricacciato nelle latebre della storia.
Per chiarire il discorso, sia consentito un riferimento scolastico: la distinzione tra le ‘qualità secondarie’ e le ‘qualità primarie’, sulla linea Galileo/John Locke, che Guido Calogero così sintetizzava:,”primarie” sono .
Ebbene l’essenza dello Stato moderno (oggi rimessa in discussione) può sintetizzarsi nell’aver fissato un modello di cittadinanza che riduce le ‘appartenenze’ (religiose, culturali, etniche, regionali, di categoria sociale etc.) a qualità secondarie ed eleva i ‘diritti’—a cominciare dal diritto civile dell’eguaglianza dinanzi alla legge—a qualità primarie. A ben riflettere, a tale filosofia si era ispirato il Risorgimento italiano, grazie al quale, per citare una pagina ispirata di Benedetto Croce,. Lo stato nazionale trasformò i sudditi in cittadini, rese, sia pure attraverso un faticoso processo legislativo e un cambiamento ancor più lento dei costumi, irrilevante l’esser nato a Milano o a Frosinone, l’essere cattolico o libero pensatore, l’essere contadino o operaio, borghese o aristocratico. Negli anni sessanta quando, nonostante il fascismo e la ‘morte della patria’, questo nobile retaggio durava ancora poteva capitare al sottoscritto, vivente nel Lazio meridionale, ‘alla periferia dell’impero’, come si diceva scherzosamente, di inorgoglirsi per i successi delle industrie lombarde e piemontesi, per le bellezze della Costiera amalfitana o della Riviera Ligure, per le tombe dei Grandi in Santa Croce etc. Un poeta non certo tra i giganti della letteratura universale, Giosuè Carducci, uno dei più generosi artefici della ‘nazionalizzazione delle masse italiane’ assieme a Giuseppe Verdi, aveva fatto sentire il Piemonte delle sulle quali < salta il camoscio, tuona la valanga da' ghiacci immani rotolando per le selve croscianti>, la Maremma dalle , la Piazza di San Petronio, la , Miramare, le Fonti del Clitumno col monte che , come un patrimonio collettivo di tutti gli Italiani. Dopo il 1861 dalla Lombardia alla Sicilia ovunque era Italia—stessa bandiera, stessi uffici anagrafici, stessi codici, stesse scuole, stessi programmi educativi, confezionati talora da menti elevate come Francesco De Sanctis, stesse caserme, stessi tribunali etc. Faceva ancora differenza essere cattolico o protestante persino nella Genova degli anni 60 dove una liceale poteva essere mostrata a dito se valdese, ma quella differenza non aveva, poi, nessunissima caduta giuridica di nessun genere: alla liceale non era vietato iscriversi nel miglior istituto cittadino, né stipulare contratti, né affittare un appartamento nella zona che più le piacesse, né di frequentare tutti i locali che voleva, né, ancor meno, di praticare il suo culto nel centro della città.
La minoranza religiosa più interessata alla retrocessione delle appartenenze a ‘qualità secondarie’, gli ebrei per l’appunto da secoli discriminati e interdetti, fu tra quelle che diedero, in proporzione alla consistenza numerica, il maggior numero di vite e di idee alla causa nazionale, anche per gratitudine a Carlo Alberto che con il suo Statuto aveva abolito ogni discriminazione nei suoi riguardi. E il risultato fu che i grandi intellettuali ebrei anche quando abbracciavano la causa del socialismo e della Repubblica, coltivavano schietti sentimenti patriottici e una ‘religione civile’che spesso sostituiva quella delle sinagoghe in cui, peraltro, non mettevano piede da anni. Filosofi, storici, giuristi come Rodolfo Mondolfo, Felice Momigliano, Alessandro Levi non solo si sentivano italiani ma erano, in un certo senso, più italiani degli altri. E’ noto l’aneddoto di Filippo Turati che entra nella sala di riunione del direttivo di ‘Critica Sociale’ e, vedendo i suoi più stretti e fedeli collaboratori, esclama :. Nessuno di quei socialriformisti—da Claudio Treves a Amedeo Modigliani–si era sottratto al fascino di Giuseppe Mazzini (dal marxista Mondolfo difeso contro le critiche di Marx), nessuno, nel corso della Grande Guerra, sarebbe stato restio a ripetere, con Turati, . Qualcuno, come Felice Momigliano, addirittura guardò, nei primi tempi, con simpatia a Mussolini e al fascismo, ritenuti (a torto) gli eredi autentici della grande stagione risorgimentale. E non fu il solo se si pensa a Mario Attilio Levi ma anche ai tanti professionisti genovesi, milanesi, torinesi che, nel 22, presero le parti delle camicie nere. Non è affatto casuale, d’altronde, che tra i fascisti della prima ora, quelli più fedeli all’eredità risorgimentale—es. Italo Balbo ma anche Giovanni Gentile– abbiano mostrato la maggiore insofferenza per le leggi razziali, prontamente accettate invece dai fascisti guelfi, i tradizionalisti cattolici, da sempre ostili al popolo ‘deicida’, e da quelli ghibellini, i tradizionalisti pagani alla Julius Evola, affascinati dal mito ariano sia pure riveduto e corretto in senso ‘spiritualistico’.
Se si tiene presente tutto questo, non c’è nulla che risulti più intollerabile che sentir parlare della deportazione degli ‘ebrei’ tout court o, più raramente della persecuzione degli ebrei italiani, francesi, tedeschi, polacchi etc. Quella che per il glorioso ‘stato moderno’, repetita iuvant, era scaduta a ‘qualità secondaria’ (religiosa, etnica, di genere etc.), con queste designazioni pseudo-razziali e religiose, sembra essere ridiventata, infatti—proprio come volevano i nazisti antimoderni radicali—‘essenza’ e ‘natura’, simbolo per antonomasia di ‘identità’. Senza rendercene conto, ci siamo messi da sessant’anni su una china pericolosa, abbiamo accettato il terreno di scontro deciso dal più temibile nemico della civiltà giudaico-cristiana, abbiamo adottato il suo linguaggio, le sue prescrizioni anagrafiche, i suoi segni (pur se con opposte connotazioni di valore). Per liberarcene, dovremmo imparare, finalmente, a parlare di ‘italiani trucidati alle Fosse Ardeatine che, casualmente, erano di religione ebraica’La vera vergogna delle leggi razziali fu quella di espellere dalla ‘comunità nazionale’ non alcune migliaia di ebrei ma alcune migliaia di Italiani di religione ebraica—o presunti tali, se si considera l’avanzato processo di secolarizzazione in atto tra i lettori del Libro nostri connazionali. Quanti, sotto certi aspetti, avevano più diritto degli altri a considerarsi italiani, si ritrovarono, improvvisamente, con la stella gialla attaccata sul petto: quanti conoscevano Cicerone e Livio, Dante e gli umanisti, Leopardi e i Romantici, Verdi e Rossini, più della media dei loro connazionali (non per merito individuale ma per appartenenza alla classe media delle professioni liberali, in cui si reclutavano tanti italiani di religione ebraica) si ritrovarono messi alla porta da un regime sempre più totalitario che, a un certo momento, aveva deciso che la colpa di tutti i mali del mondo era da attribuirsi agli . C’è una battuta umoristica che scolpisce la quintessenza dello Stato moderno: dopo aver sentito un fanatico sbraitare dal palco contro la razza maledetta, un ascoltatore dice al suo vicino:< ha ragione, per me la colpa è tutta degli ebrei!> ., si meraviglia il primo. controreplica il secondo.
Chissà quanti caduti delle Fosse ardeatine s’erano ritrovati ‘ebrei’ solo a causa delle leggi razziali: rievocarli tutti come adepti di un culto, che non pochi avevano dismesso come un vecchio abito logoro, fa pensare a un’inconsapevole mancanza di rispetto, significa davvero gettare alle ortiche la loro ‘dignità’. In realtà, solo quando si parlerà del loro sacrificio come di una violenza fatta a ciascuno di noi—e non in virtù della generica appartenenza al ‘genere umano’ma in virtù del nostro concreto essere e sentirci ‘fratelli d’Italia’—quei morti saranno davvero vendicati. La polizia fascista e le SS non hanno prelevato, nella tarda ora della notte, il vicino di casa (etichettato come ebreo) ma sono entrate proprio a casa nostra, hanno arrestato un nostro congiunto, ci hanno sottratto qualcosa di prezioso, la cui eliminazione fisica ha irrimediabilmente impoverito la nostra famiglia.
Me ne rendo conto, forse il mio è un linguaggio sempre più incomprensibile negli anni di riscoperta impetuosa delle ‘identità’. Elena Loewenthal coglie nel segno quando si rifiuta, come me, di considerare l’alterità ebraica :. Non si esce, però, da questa logica senza sciogliere il vero nodo politico—lo Stato nazionale nato dal Risorgimento–, senza mettere a fuoco le ragioni profonde e inconfessate per cui il 27 gennaio continua a riproporre un ‘loro’ (gli ebrei vittime del nazifascismo) contrapposto a un ‘noi’ (che abbiamo tante cose da farci perdonare e che ora, finalmente, cominciamo a ‘sdebitarci’ moltiplicando ‘generosamente’ rievocazioni, riti, interviste…).
Nel vuoto indotto dalla delegittimazione (sempre più virulenta e provocatoria, a destra e a sinistra) dello Stato nazionale (sabaudo), rimane un deserto popolato da cittadini astratti, astratti portatori di diritti dove la ‘divisione fondamentale’ passa tra quanti sono stati ingiustamente e irrazionalmente privati dei ‘diritti universali dell’uomo e del cittadino’ e quanti, per loro fortuna, se li sono ritrovati (pressoché intatti) a guerra finita. E’ l’unico spartiacque tra ‘noi e loro’ rimasto in piedi ma, a dire le cose come stanno, non può che essere uno spartiacque retorico e falso, che non a caso si è risolto nello spettacolo (o nella contraffazione) della tragedia, senza neppure arretrare davanti al grottesco del ‘turismo ad Auschwitz’,nel luogo centrale dell’orrore, o sentire la stanchezza dell’avvicendarsi delle testimonianze dei pochissimi (sempre meno) sopravvissuti.
In realtà, se non ci sentiamo parte di una ‘famiglia’, di una ‘comunità di destino’, se non ci sentiamo più radicati nella terra , ci sarà sempre più difficile sentire dentro, nelle viscere, la vera tragedia dell’olocausto. Qualora fossimo in grado di recuperare il senso della realtà storica il simbolo delle Fosse ardeatine ci colpirebbe dolorosamente per la perdita di stretti congiunti che avevano contribuito validamente a costruire la ‘casa comune’ e avvertiremmo come la propensione a blindarli nella categoria ‘ebrei’ o, meno peggio, in quella di ‘ebrei italiani’. Tale confinamento, infatti, significherebbe allontanarli da noi, trattarli come estranei ai quali dobbiamo un grosso risarcimento in nome della comune umanità offesa e violata. No, non dobbiamo risarcire un ’prossimo generico’, per il quale ‘non abbiamo fatto abbastanza’, ma . La stessa disponibilità a risarcire i sopravvissuti ai Lager e le rispettive famiglie devolvendo a loro favore una parte consistente del nostro patrimonio non potrebbe mai chiudere la partita del dare e dell’avere.
Non so se, durante le celebrazioni, nel luogo dell’ecatombe, sulla via Ardeatina, sia venuto in mente a qualcuno di intonare l’inno nazionale Fratelli d’Italia: avrebbe avuto un valore simbolico incalcolabile, sarebbe stato come dire ai morti < non siete freddi ed evanescenti simboli universali di uomini privati di ogni diritto>, giacché con i versi di Goffredo Mameli e le note musicali di Michele Novaro (non importa il loro valore estetico) rientrate nella nostra famiglia non come il ‘figliuol prodigo’ ma come Giuseppe cacciato dai fratelli.

Dino Cofrancesco

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Dino Cofrencesco
Dino Cofrancesco è uno dei più importanti intellettuali italiani nel campo della storia delle dottrine politiche e della filosofia. E' autore di innumerevoli saggi e tra i fondatori dei Comitati per le Libertà. Allergico all'ideologia dell'impegno, agli "intellettuali militanti", ai profeti e ai salvatori del mondo, ai mistici dell'antifascismo e dell'anticomunismo, ha sempre visto nel "lavoro intellettuale" una professione come un'altra, da esercitarsi con umiltà e, nella misura del possibile, "senza prendere partito". Per questo continua, oggi più che mai, a ritenere Raymond Aron, Isaiah Berlin e Max Weber gli autori più formativi del '900; per questo, al tempo dell'Intervista sul fascismo di Renzo De Felice, si schierò, senza esitazione, dalla parte della storiografia revisionista, senza timore di venir accusato di filofascismo.

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