PERCHE’ GIUSEPPE CONTE HA PAURA DI FARE IL NEW DEAL DI KEYNES

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Moriremo keynesiani? Troppo bello per essere vero.

L’Italia potrebbe crollare in queste ore perché nella tragedia epocale del Coranavirus c’è una brutta notizia che i giornali non danno: il Presidente del Consiglio dei Ministri non sta attuando un’azione rooseveltiana di deficit spending, e l’unico ad essersene accorto è quel gambler geniale che è Matteo Salvini, il quale in piena forma ha scritto sui social network: “In Svizzera con un solo foglio ti accreditano subito fino a 500.000 franchi (equivalenti a circa 500.000 euro) sul conto, in Italia milioni in coda virtuale”. Nulla di più vero. Altro che fake news! Vedremo cosa accadrà nel Mezzogiorno. Che cosa vuol dire deficit spending? Vuol dire spesa pubblica in deficit. Marco Aurelio dixit: “La genialità è nella semplicità”, e Keynes era semplice. Da liberista quasi smithiano, l’economista britannico che impazziva per le donne e l’economia aveva capito che il capitalismo può sopravvivere nei momenti di grave crisi congiunturale soltanto se è parzialmente socializzato, prima di essere restituito alle magnifiche sorti e progressive del laissez faire entrato in crisi.
Fece solo uno sbaglio nell’elaborazione della sua teoria che perfezionava – aggiornandola – la Mano Invisibile di Adam Smith: innamorarsi della propria Weltanschauung sulla spesa pubblica in deficit a lungo termine, e morirà per consunzione a Bretton Woods nel 1944 rivedendo all’infinito – in piena “sindrome Mozart” – la sua quasi perfetta Teoria Generale dell’Occupazione, che il collega di “destra” Milton Friedman aveva osato criticare. Il narcisismo rende l’umanità migliore, ma è un’arma a doppio taglio. Perché Conte, così sensibile alla “democrazia dell’applauso”, ha paura di muoversi nel solco di Roosevelt mettendo in pratica il NEW DEAL 2.0 di Boris Johnson e Donald Trump che sta risollevando le economie di Stati Uniti e Regno Unito? Ad avviso di chi scrive la risposta è una sola: perché ha lo stesso provincialismo di Benito Mussolini, mentre per fortuna l’ex governatore della Banca Centrale Europea Mario Draghi ha di contro una mentalità pragmatica – come dimostra il suo lucido intervento ineditamente keynesiano sul Financial Times.
Spendere si può e si deve, poiché siamo di fronte “a una tragedia dalle proporzioni potenzialmente bibliche” e “il debito pubblico diventerà una caratteristica permanente delle nostre economie”.
Il prof Conte, però, proviene dalla inveroconda cultura dirigista che informa il Movimento 5Stelle: l’ossessione della Pianificazione, respinta al mittente da Keynes. Il quale sosteneva il laissez-faire.
L’orizzonte dei 5Stelle è Elio Lannutti, non John Kenneth Galbraith.
Infatti sostenere la domanda con le politiche passive di bilancio è fondamentale a rilanciare il “venture capital” (rischio di capitale): un’operazione a costo zero. Ma i Grillo’s boys non amano il business…
Era il 1980, quando Piero Ottone – una delle persone più importanti nella vita di chi scrive – dava alle stampe “La scienza della miseria spiegata al popolo” che Ciriaco De Mita vedeva come fumo negli occhi. Ottone, più anglosassone che italiano, esordiva così: “Nessun uomo moderno può fare a meno di una certa conoscenza dell’economia”. E aggiungeva: “Poiché faccio il giornalista da tanti anni, mi capita spessa di incontrare giovani che mi chiedono un consiglio: che cosa conviene studiare per diventare giornalisti? Ai giovani che me lo chiedono, rispondo che bisogna studiare l’italiano, perché un giornalista deve esprimersi con chiarezza, con frasi semplici, con parole appropriate; bisogna studiare la storia, perché i fatti di oggi devono essere confrontati con quelli del passato; la geografia, perché l’ambiente influisce sul comportamento degli uomini. Ma in particolare rivolgo a quei giovani una raccomandazione: studiate l’economia…”.
Nel capitolo cruciale del suo saggio, di cui si pubblica un riassunto destinato ai lettori forzatamente reclusi nelle loro abitazioni nell’era del Coranavirus, “Keynes contro Marx: vittoria della moderazione”, Ottone osservava:

“John Maynard Keynes ha avuto in Italia, per lungo tempo, una cattiva stampa. Molti dei nostri studiosi di economia hanno continuato a tributare a Adam Smith, anche negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, il trepido omaggio della loro venerazione; quando parlavano di Keynes diventavano invece freddi e sussiegosi, e affermavano che era troppo presto per stabilire l’importanza delle sue dottrine. Lo consideravano un uomo originale, eterodosso, bizzarro. Poiché la maggioranza degli economisti viveva nel mondo di sogno dei classici, regolato dalla concorrenza perfetta e dall’assoluta libertà di mercato, il loro contatto con la realtà diventava sempre più tenue, e gli avvenimenti, non guidati secondo teorie aderenti alla necessità del momento, degeneravano. Una dottrina economica antiquata perde efficacia; la mancanza di una dottrina efficace genera il caos. I partiti politici italiani, privi di un orientamento culturale moderno, non sono stati in grado di regolare lo sviluppo del paese. Cercherò di dimostrare che dal ripudio di Keynes sono derivati alcuni dei mali più profondi della nostra vita politica, e cioè l’eccessiva forza del comunismo, l’eccessiva debolezza di un socialismo moderato e democratico, il carattere reazionario delle forze conservatrici. Keynes avrebbe potuto avvicinare anche da noi, come altrove, capitale e lavoro. Senza di lui, la contrapposizione è rimasta a lungo di stile ottocentesco, massimalistica e intransigente. Oggi, anche gli studiosi italiani hanno riscoperto Keynes. Lo hanno fatto quando ormai la dottrina keynesiana ha trionfato in tutto l’Occidente, e quando bisognava difendersi dai suoi eccessi. Una volta di più, siamo fuori tempo… Il primo incontro fra Roosevelt e Keynes fu poco felice. Keynes, secondo la sua abitudine, guardò subito le mani dell’interlocutore, e ne fu deluso; gli rammentavano le mani di qualcuno che aveva già visto, e la sua memoria vagò alla ricerca del loro possessore, prestando scarsa attenzione agli argomenti del colloquio, fino a quando un nome non gli si presentò alla mente: Sir Edward Grey! Più tardi disse a un collaboratore di Roosevelt: “Non credo che il nostro presidente Roosevelt capisca qualche cosa di economia”. Il presidente, da parte sua, confidò a un ministro: “Mi ha lasciato una sfilza di cifre. Dev’essere un matematico piuttosto che un economista politico”. E’ probabile che Roosevelt sia stato irritato dalle maniere arroganti dell’economista, che trattava ogni interlocutore dall’alto in basso. “Quando discutevo con Keynes”, rivelò un matematico ancor più bravo di Keynes, Bertrand Russell, “mi sembrava di espormi a pericoli mortali, e solo raramente terminavo la discussione senza avere l’impressione di essere stato, più o meno, un cretino”.
Eppure, la politica del New Deal fu decisamente keynesiana nella sostanza, e non si sbaglia considerando Keynes uno dei suoi ispiratori. Ma furono soprattutto i partiti socialdemocratici d’Europa a adottare, con tutta l’anima, l’insegnamento di Keynes. Questo legame fra Keynes e socialdemocrazia non è forse stato messo in rilievo con sufficiente insistenza. Chi si renda conto della sua importanza, tuttavia, comprende il comportamento dei partiti socialdemocratici attraverso gli anni. L’insegnamento keynesiano offriva la possibilità di raggiungere la piena occupazione, che è il primo e più importante passo verso la ridistribuzione del reddito; poneva le premesse per la generale prosperità mediante i consumi di massa; e conseguiva tutti questi importanti obiettivi senza ricorrere alla nazionalizzazione dei mezzi di produzione. Dopo aver parlato dei vari controlli statali, da conseguire attraverso la politica fiscale e creditizia, e forse attraverso gli investimenti pubblici, Keynes aggiungeva infatti: “Oltre a questo, tuttavia, non appare per nulla chiara la necessità di un sistema di socialismo di Stato che abbracci la quasi totalità della vita economica della comunità. Non è la proprietà dei mezzi di produzione che lo Stato deve assumere”. Egli voleva piuttosto “ogni specie di compromesso e di meccanismi che avrebbero permesso al pubblico potere di collaborare con l’iniziativa privata”.
Keynes era il padre, insomma, dell’economia mista. Le conseguenze pratiche si sono viste nelle nazioni della Scandinavia e nell’Inghilterra postbellica: tutti paesi capitalistici che hanno goduto di un lungo periodo di alto livello produttivo, di piena occupazione, di grande prosperità, grazie a governi socialdemocratici. Ma l’insegnamento keynesiano si è propagato fuori dei confini della socialdemocrazia, e i suoi frutti sono stati raccolti anche in paesi governati da altri partiti, a cominciare dagli Stati Uniti d’America. L’Italia ha “saltato” Keynes e questo spiega il carattere più arcaico, non solo dei dibattiti economici e della pubblicistica economica, ma anche della vita politica e sociale.
Quando il fascismo andò al potere, le dottrine imperanti erano quelle classiche, e la dittatura fascista cristallizzò la situazione. Nel ventennio mussoliniano, i cervelli furono impegnati a sviluppare il tema del corporativismo, senza raccogliere i frutti delle esperienze straniere. I dittatori non amano gli economisti, perché credono di poter dirigere i fenomeni economici secondo i propri desideri e i propri capricci: lo si è visto con Mussolini, con Stalin, con Khrusciov. E Keynes era respinto dai fascisti perché, nonostante le innovazioni dottrinali, rimaneva un liberista, e riteneva che lo Stato dovesse intervenire “soltanto” quando le normali leggi economiche funzionavano in maniera poco soddisfacente; ma il liberismo, secondo il verdetto di Mussolini, era marcio e corrotto. L’Italia rimase pertanto isolata dal mondo e perse anni preziosi.
Dopo il fascismo, il dibattito economico in Italia ricominciò faticosamente al punto in cui era stato interrotto dopo il 1922.
Luigi Einaudi riespose il liberismo ortodosso nei giornali, e quando andò al governo attuò una severa politica di difesa della lira, che fu ottima e necessaria in un primo momento, per arrestare la folle inflazione postbellica, ma fu continuata troppo a lungo, col risultato di ritardare la spesa produttiva, e di esasperare gli esperti americani, i quali ci rimproveravano, a ragione, di fare cattivo uso dei loro aiuti…”.
“L’avere “saltato” Keynes – concludeva Ottone – significa dunque l’assenza di una forte socialdemocrazia in Italia. Solo l’insegnamento keynesiano avrebbe creato un caposaldo di pensiero economico intorno al quale il partito socialdemocratico sarebbe potuto fiorire, incidendo sulla politica nazionale, “mediando” veramente fra capitale e lavoro, come è accaduto nell’Europa del Nord…”.

Ps – Giuseppe Conte dovrebbe leggere Piero Ottone. Ma chi scrive dubita che lo farà.
L’Italia non può “saltare” Keynes un’altra volta. Draghi ha scritto sul Financial Times il 26 marzo 2020: “La pandemia del coranavirus è una tragedia umana di proporzioni potenzialmente bibliche. Oggi molti temono per la loro vita o piangono i loro cari scomparsi… Livelli molto più alti di debito pubblico diventeranno una caratteristica permanente delle nostre economie e dovranno essere accompagnati dalla cancellazione del debito privato”. Tanto – come diceva Keynes – “Nel lungo periodo saremo tutti morti”.

di Alexander Bush

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Alexander Bush
Alexander Bush, classe '88, nutre da sempre una passione per la politica e l’economia legata al giornalismo d’inchiesta. Ha realizzato diversi documentari presentati a Palazzo Cubani, tra questi “Monte Draghi di Siena” e “L’utilizzatore finale del Ponte dei Frati Neri”, riscuotendo grande interesse di pubblico. Si definisce un liberale arrabbiato e appassionato in economia prima ancora che in politica. Bush ha pubblicato un atto d’accusa contro la Procura di Palermo che ha fatto processare Marcello Dell’Utri e sul quale è tuttora aperta la possibilità del processo di revisione: “Romanzo criminale contro Marcello Dell’Utri. Più perseguitato di Enzo Tortora”.

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