La libertà dell’amicizia

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cofrancesco
Un saggio per comprendere cos’è oggi l’amicizia

A mio avviso, per comprendere l’amicizia dei tempi moderni può essere utile il riferimento alle categorie Comunità/Società elaborate dal pensiero sociologico tedesco, in primis da Ferdinand Toennies ma, in maniera più critica e wertfrei, da Max Weber. L’amicizia, infatti, è la tesi che mi propongo di sostenere, si può comprendere solo se la si colloca in quello spazio ristretto ed elastico, insieme, che sta tra la ‘comunità’ e la ‘società’: è una figura dell’anima, per così dire, che, vivendo al confine tra due dimensioni, partecipa — ma solo in parte — della natura di entrambe e che, proprio per questo, in epoche e in ambienti culturali differenti, viene sentita e definita talora in modo molto diverso. Ma cosa sono la ‘comunità’ e la ‘società’ che, nella ‘scientifica’ ritrascrizione weberiana, diventano Vergemeinschaftung (comunità) e Vergesellschaftung (associazione)? In Economia e società, si legge che “Una relazione sociale deve essere definita ‘comunità’ se e nella misura in cui la disposizione all’agire sociale poggia –nel caso singolo o in media o nel tipo puro– su una comune appartenenza soggettivamente sentita (affettiva o tradizionale) degli individui che ad essa partecipano”. Al contrario “Una relazione sociale deve essere definita ‘associazione’ se e nella misura in cui la disposizione dell’agire sociale poggia su una identità di interessi oppure su un legame di interessi motivato razionalmente (rispetto allo scopo o al valore). In particolare (ma non esclusivamente) l’associazione può riposare, in modo tipico, su una stipulazione razionale mediante un impegno reciproco. Allora l’agire associativo è orientato, nel caso della sua razionalità: a) razionalmente rispetto al valore–in base alla credenza nella propria obbligatorietà; b) razionalmente rispetto allo scopo–in base all’aspettativa di lealtà dell’altra parte”.
Toennies, nella sua fondamentale opera del 1887, Comunità e Società, aveva individuato non tanto due tipi ideali ma due concreti e corposi fenomeni sociali, riconducibili sostanzialmente l’uno –la comunità– alla famiglia, luogo della convivenza durevole, intima ed esclusiva, l’altro –la società– al rapporto di scambio razionale, passeggero, interessato che trova la sua realizzazione per antonomasia nel mercato. La sua riflessione trovava non a caso (e trova ancora oggi) una vasta eco negli scrittori della ‘crisi della civiltà’ che vedevano il passaggio dall’una all’altra delle due fattispecie concrete – dalla comunità alla società –come una decadenza. Per Weber, al contrario, ‘comunità’ e ‘associazione’ erano, per dirla con Tocqueville, “costumi della mente e abiti del cuore” che, nelle complesse relazioni umane, potevano ritrovarsi in ogni età e in ogni ambito umano, in una misura che spettava allo studioso stabilire e in una gradazione decisiva per distinguere i vari fenomeni sociali. “I tipi più puri di associazione, faceva rilevare, sono i seguenti: a) lo scambio rigorosamente razionale ristretto allo scopo e liberamente pattuito, in una situazione di mercato -che costituisce un compromesso attuale tra individui che hanno interessi contrapposti ma complementari; b) la pura unione di scopo liberamente pattuita – che costituisce la stipulazione di un agire continuativo diretto, nella sua intenzione e nei mezzi, soltanto a perseguire gli interessi oggettivi (economici o dì altra specie) dei propri membri; c) l’unione di intenzioni, fondata su motivi razionali rispetto al valore – rappresentata dalla setta razionale, in quanto essa prescinde dalla cura di interessi emotivi o affettivi, e propone di servire soltanto la ‘causa’ (il che, certamente in tutta la sua purezza avviene soltanto in casi particolari)”.
Sulla base di questa tassonomia, l’amicizia, esaltata nel Laelius di Cicerone -che resta un po’ il modello della ‘pratica’ di questo sentimento nel mondo antico- rientra nella ‘società’ più che nella comunità. “L’amicizia -osservava Marco Tullio- non è altro che un’intesa sul divino e sull’umano congiunta a un profondo affetto. Eccetto la saggezza, forse è questo il dono più grande degli dei all’uomo. C’è chi preferisce la ricchezza, chi la salute, chi il potere, chi ancora le cariche pubbliche, molti anche il piacere. Ma se i piaceri sono degni delle bestie, gli altri beni sono caduchi e incerti perché dipendono non tanto dalla nostra volontà quanto dai capricci della sorte. C’è poi chi ripone il bene supremo nella virtù: cosa meravigliosa, non c’è dubbio, ma è proprio la virtù a generare e a preservare l’amicizia e senza virtù l’amicizia è assolutamente impossibile”. Forse è superfluo rilevare che la virtù, nella Roma repubblicana, aveva una valenza politica: solo i virtuosi possono essere amici giacché non perseguono il proprio utile ma quello della città, alla quale sono disposti a sacrificare i beni e la vita stessa, come “i Paoli, i Catoni, i Gaio, gli Scipioni “ etc.
L’amicizia, quindi, può trovarsi naturaliter fondata sul disinteresse proprio come l’appartenenza a quella “comunità di destino” che è la famiglia ma, nel suo caso, non si tratta di un disinteresse iscritto nelle ‘radici’ bensì implicito in una libera scelta che porta a stabilire relazioni talora profonde e durature con quanti sono animati dalle nostre stesse passioni ideali, da quelle oggettivamente meno rilevanti -come il tifo per una squadra o il collezionismo- alle più impegnative e costitutive dell’identità personale -come l’appartenenza a una chiesa, a un partito, a una nazione vissuta come impegno continuo e dedizione incondizionata. In fondo, anche nelle amicizie ‘più naturali’, quelle che si formano nell’infanzia e nell’adolescenza c’è un elemento di condivisione, uno scopo comune, dai giochi dei bambini alle squadre di calcetto. D’altra parte, è pur vero che, a differenza della famiglia, che, nel tipo ideale, prescinde totalmente da ogni fine utilitario -sul suo blasone sta scritto ‘tutti per uno, uno per tutti’- come prescinde dall’identità di vedute (le diverse Weltanschauungen che contraddistinguono i membri della famiglia non ne attenuano i legami affettivi), l’amicizia è definita dall’assenza, sempre più percepibile con l’avanzare della modernità, dell’etica del destino (“è tuo dovere conservare un’amicizia anche se non ne sei convinto!”) ovvero di quell’attitudine che, sulle alte cime dell’etica politica, induce a dire “Right or wrong it’s my country”.
Quando di un amico non si condividono più le idee, le passioni intellettuali, le scelte ideologiche, l’amicizia viene meno giacché non abbiamo verso di lui obblighi naturali e in certi tipi di personalità la rottura di una amicizia può diventare persino una festa come diceva Giuseppe Prezzolini dell’ex sodale Gaetano Salvemini (‘Per me, confessava Prezzolini, invece è un dramma’). In fondo, è la constatazione della mancanza di un idem sentire che porta a troncare i rapporti con i parenti più o meno stretti (dai fratelli ai cugini), con i quali pure si erano stabiliti rapporti di amicizia (cosa, peraltro, non molto frequente), e talora a troncarli col sottile piacere di spezzare un legame che ci aveva imposto Madre Natura guardandosi bene dal consultarci.
Nella sua dimensione comunitaria, l’amico, come il familiare al quale si vuol bene, ci è caro non per quanto riceviamo da lui (dimensione comunitaria) ma per la sua stessa esistenza di polo affettivo che riscalda la nostra vita; nella sua dimensione societaria, l’amico, come il compagno d’arme (oggi ‘di partito’, in senso lato) weberianamente “orientato razionalmente rispetto al valore- in base alla credenza nella propria obbligatorietà”, ci è caro per il sostegno che riceviamo da lui nel comune cammino verso ‘il bene’, comunque inteso. E’ una spola, tuttavia, che, col tempo, sembra abbandonare sempre più lo spalto comunitario per privilegiare quello associativo (mercato, partito, club, chiesa: tutti i luoghi, insomma, in cui si svolgono scambi materiali o ideali). Siamo dinanzi a un trend comprensibile, forse inevitabile, ma che mette nell’animo un po’ di malinconia.
Ha scritto Nicola Abbagnano ne La saggezza della vita (1994): “Coloro che lamentano la solitudine in cui la civiltà moderna fa cadere gli esseri umani, insistono spesso sulla decadenza che in questa civiltà ha subito l’amicizia. I rapporti umani si sono in essa moltiplicati perché sono indispensabili a ogni forma di attività, che richiede sempre collaborazioni molteplici, ma hanno perduto in profondità e costanza. Ogni tipo di lavoro esige intese ed accordi tra gli individui che hanno un comune interesse a mandarlo avanti, ma intese e accordi rimangono il più delle volte limitati alle esigenze del lavoro e subordinati all’utilità reciproca, senza trasformarsi in quei rapporti personali e disinteressati che sono propri dell’amicizia>. Sennonché la società, lo si è visto, non è solo quella fondata sull’utilità reciproca: è anche la ‘società civile’ ottocentesca ovvero il mondo delle associazioni volte ai più vari scopi etici, culturali, politici, un mondo che la messa al bando del tipo umano dell’‘approfittatore’ non rende certo prossimo alla ‘comunità’. Ma anche se la società, riuscisse a tenere in equilibrio i suoi due volti di Venere celeste (l’associazione idealistica disinteressata) e di Venere terrena (il rapporto utilitaristico che definisce il mercato), qualcosa andrebbe pur sempre perduto: quella ‘gratuità’, quella ‘distensione’ dell’animo, quella gioia del ritrovarsi che caratterizza l’amicizia antica come contraddistingue la stretta parentela non inquinata da rancori e da risentimenti. L’amicizia vera è la domenica dell’esistenza: è il giorno in cui non ti vengono richieste prestazioni di nessun tipo, in cui non devi dimostrare di essere pronto a batterti per un ideale né sei tenuto a portare a compimento un lavoro richiesto e retribuito. E’ il luogo dell’abbandono comunitario in cui si gode del tepore di un affetto reciproco e, soprattutto, gratuito”.
“Il significato dell’amicizia, annota Benedetto Croce in una bellissima pagina di Etica e politica, sta nel sentirsi sollevati sull’utilitarismo |…| con l’amico ci si sfoga, ci si confida, si piange e si ride insieme. Solo tra amici si ride davvero, di riso sano”. L’amicizia è la sensazione di un legame profondo che nasce dalla gioia del sapere che l’altro c’è e ti vuole bene per quel che sei e, pertanto, non ti chiede conto dei tuoi difetti e dei tuoi errori, né ti incita alla virtù, anche se non ti asseconda nel vizio. Diciamola tutta, il prototipo dell’amico, nel suo versante comunitario,beninteso, è…il cane -al quale Curzio Malaparte ha dedicato le pagine più toccanti de La pelle- col suo affetto disinteressato e incondizionato, che non chiede nulla ma è disposto a dare tutto, che festeggia il tuo ritorno dal tabaccaio come se rientrassi in casa dopo un lungo peregrinare; si potrebbe quasi dire che l’amicizia, a scanso di equivoci sempre nel suo versante comunitario, potrebbe adottare come emblema il motto homo homini canis. Certo, se fosse solo la domenica dell’esistenza, essa non durerebbe a lungo giacché è fatta anche di societas (e spesso nasce da lì): sei giorni su sette sono lavorativi e, in quei giorni, abbiamo bisogno di persone sulla cui collaborazione, nei più vari campi, poter contare, persone del ‘fare’ e non dell’essere’. Nulla di più vero ma il timore è che la cancellazione del ‘disimpegno’, la perduta consapevolezza dell’importanza di pause distensive in una vita perennemente volta a rincorrere interessi e valori, il sollievo del non ‘sentirsi sotto esame’ ci facciano tornare al lavoro, ogni lunedì, con un carico di nevrosi e di frustrazioni al termine delle quali sta la solitudine dell’uomo contemporaneo.

Dino Cofrancesco
Questo scritto è un’anticipazione dall’ “Almanacco 2016. Strenna per la famiglia Invitto & associati e amici”

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Dino Cofrencesco
Dino Cofrancesco è uno dei più importanti intellettuali italiani nel campo della storia delle dottrine politiche e della filosofia. E' autore di innumerevoli saggi e tra i fondatori dei Comitati per le Libertà. Allergico all'ideologia dell'impegno, agli "intellettuali militanti", ai profeti e ai salvatori del mondo, ai mistici dell'antifascismo e dell'anticomunismo, ha sempre visto nel "lavoro intellettuale" una professione come un'altra, da esercitarsi con umiltà e, nella misura del possibile, "senza prendere partito". Per questo continua, oggi più che mai, a ritenere Raymond Aron, Isaiah Berlin e Max Weber gli autori più formativi del '900; per questo, al tempo dell'Intervista sul fascismo di Renzo De Felice, si schierò, senza esitazione, dalla parte della storiografia revisionista, senza timore di venir accusato di filofascismo.

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