Il sistema proporzionale ormai ci va stretto

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Ormai si avvicinano le elezioni: ma siamo proprio sicuri che votare con il sistema proporzionale funzioni?

Nel 1944, Luigi Einaudi scriveva, a difesa del collegio uninominale, «I parlamenti  non sono società di cultura od accademie scientifiche. Sono organi, il cui scopo unico è quello di formare governi stabili e di controllarne l’azione. […] Le elezioni non si fanno per contare le opinioni, per fare il censimento delle sette, dei ceti, dei partiti, dei movimenti, dei gruppi sociali, religiosi, politici, ideologici in cui si fraziona una società, la quale sia composta da uomini vivi e pensanti: ma si fanno per mettersi d’accordo in primissimo luogo, sul nome della persona che in qualità di primo ministro sarà chiamato a governare il paese, e in secondo luogo sul nome di coloro che collaboreranno con lui o che ne criticheranno l’operato».
Non  pochi  condividono la tesi del grande pensatore piemontese, anche se non sempre ricordano che il maggioritario uninominale per lui doveva comportare «alcune riforme degli equilibri istituzionali», come la sfiducia costruttiva e il premierato. E tuttavia occorre anche riflettere su un dato cruciale; ovvero che in un paese   fortemente diviso, come il nostro, il sistema proporzionale se non rafforza le istituzioni governative  può contribuire ad attenuare l’alienazione di forti minoranze destinate a rimanere escluse dalla  ‘stanza dei bottoni’.
Prendiamo l’esempio fatto dallo stesso Einaudi: in un collegio uninominale 600 votanti  danno 250 voti a Tizio, 200 a Caio, 120 a Sempronio, 20 a Mevio e 10 a Mario. Secondo la regola viene eletto Tizio anche se non ha  ottenuto la metà più uno (301) dei voti validi sicché la maggioranza degli elettori resta delusa. L’anglofilo Einaudi se la cavava osservando che «gli inglesi da 700 anni contemplano il fatto, senza scomporsi: ‘gli elettori impareranno’, paiono dire, ‘a non frantumarsi in troppe conventicole’», ma non considerava che, nei paesi anglosassoni, elettoralmente non si fronteggiano questioni di vita o di morte, progetti alternativi come il collettivismo contro l’economia di  mercato, o l’atlantismo contro il neutralismo. Sennonché era proprio questo il caso dell’Italia del secondo dopoguerra dove il proporzionale servì  almeno a tenere a bada la guerra civile.
Oggi, però, la situazione è profondamente mutata. A parole nessuno vuol ’fare come in Russia’, gli interessi che si affrontano sono molteplici, trasversali alle classi, agli stili di vita, alle credenze religiose e ideologiche. E, soprattutto, i partiti deboli e screditati, incapaci di imporre a scatola chiusa i propri candidati, sarebbero costretti, se vigesse l’uninominale, a puntare su candidati ‘presentabili’ e stimati. Inoltre il fatto che ci sarà un solo vincitore  produrrà effetti di convergenza, costringendo ad aggregazioni politiche che il proporzionale tende a scoraggiare. Le cose non sono così semplici, però è certo che la rappresentatività   non garantisce effetti virtuosi  in un periodo in cui i beneficiari della rappresentatività (i partiti) sono polvere di ferro che nessuna calamita può tenere uniti per un ragionevole lasso di tempo, come mostrano i cambiamenti di casacca dei nostri onorevoli.

di Dino Cofrancesco

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Dino Cofrencesco
Dino Cofrancesco è uno dei più importanti intellettuali italiani nel campo della storia delle dottrine politiche e della filosofia. E' autore di innumerevoli saggi e tra i fondatori dei Comitati per le Libertà. Allergico all'ideologia dell'impegno, agli "intellettuali militanti", ai profeti e ai salvatori del mondo, ai mistici dell'antifascismo e dell'anticomunismo, ha sempre visto nel "lavoro intellettuale" una professione come un'altra, da esercitarsi con umiltà e, nella misura del possibile, "senza prendere partito". Per questo continua, oggi più che mai, a ritenere Raymond Aron, Isaiah Berlin e Max Weber gli autori più formativi del '900; per questo, al tempo dell'Intervista sul fascismo di Renzo De Felice, si schierò, senza esitazione, dalla parte della storiografia revisionista, senza timore di venir accusato di filofascismo.

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