Genocidio non è qualcosa che riguarda solo Hitler e Stalin
C’è una parola che scotta. Che fa paura. E così, fra i tanti voli pindarici e le rievocazioni di Hiroshima e Nagasaki, sessant’anni dopo il lancio delle bombe atomiche americane, essa non viene pronunciata. La parola è: genocidio.
Eh sì, fa proprio paura. Perché siamo abituati ad associarla ai due grandi totalitarismi criminali del Novecento: comunismo e nazionalsocialismo. Già ci mette un po’ a disagio usarla quando si parla degli armeni e dei loro aguzzini turchi (su questo punto conviene rileggersi l’accorato appello del presidente della comunità armena in Italia, Baykar Sivazliyan. pubblicato da Libertates col titolo “La campana armena e il silenzio dell’Occidente”). Quando poi si viene a parlare del Ruanda, si entra nel campo degli esotismi post coloniali…
Ebbene, anche se fa impressione attribuirne la responsabilità agli Stati Uniti, il paese della libertà. il liberatore dell’Europa (una metà, almeno) dal totalitarismo, l’alleato indispensabile e prezioso all’interno della Nato, pure dobbiamo farlo. Non per rovesciare sulla patria del capitalismo l’odio mai spento dei vinti, ma per onestà intellettuale e amore della verità.
A Hiroshima e Nagasaki, sessant’anni fa. venne commesso un genocidio. Le sue caratteristiche quasi indicibili sono affidate alla penna di Kenzaburo Oe, in un libro che tutti dovrebbero leggersi (le “Note su Hiroshima” pubblicate nel 2008 dalla Alert). Basterebbe per convincersene la parola giapponese Hibakusha: letteralmente designa “coloro che sono stati colpiti dal bombardamento” e si compone delle parti “hi” (subire), “baku” (esplosione), “sha” (persona). Basterebbe ricordare il “diritto al silenzio” invocato per loro da Oe. O immaginare – usando le sue parole – il dramma delle giovani donne per sempre sfigurate da cheloidi sul viso, straziate per la loro bellezza perduta, macerate nella loro sofferenza solitaria. O, ancora, rappresentarsi la sofferenza dello stesso scrittore di fronte al figlio nato con una deformazione al cranio, perennemente tra vita e morte.
Tutto ciò – il riconoscimento del genocidio perpetrato – è molto, eppure non è tutto. Perché comporta una considerazione: non solo i regimi totalitari possono commetterlo. Il genocidio può ammantarsi di ragionevolezza, di calcoli militari e filosofici intorno all’accettabilità del male minore, di “Realpolitik”.
Ma nemmeno questo è tutto. La constatazione del totalitarismo genocida di oggi, l’islamismo radicale, deve indurci a comprenderne il profondo cuore di tenebra: esso non ha veramente a che fare con la religione, né con la nazionalità, né con la classe, né con la razza. Esso si manifesta già, dovunque si commetta un delitto – tipicamente nel caso del terrorismo – non per colpire un nemico definito, una persona anagraficamente precisa, ma in quanto simbolo di qualcos’altro. L’uccisione di una vittima sacrificale dimostrativa, anonima, è già un genocidio in provetta, in pillola. Non si può essere liberali, né conservatori, né democratici, né riformisti, né libertari, né credenti in un Dio se non si riconosce una tale angosciosa, elementare verità.
Dario Fertilio