GIANNI AGNELLI, “LOOKING GOOD, FEELING BAD”: UN PERDENTE DI SUCCESSO

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“Nella vita ci sono una o due occasioni”
Gianni Agnelli

“Meglio navigare che vivere” Flavio Carboni, citando Plutarco – intervista di Peter Gomez

E’ nato in Italia un nuovo mito: il mito di Gianni Agnelli. Lo aveva capito nel 2003 Piero Ottone, sostenendo nell’introduzione del suo instant book Gianni Agnelli visto da vicino (il copyright del titolo di questo libro è di chi scrive, in ciò ispirato dai Visti da vicino di Giulio Andreotti: ma purtroppo la bocciatura in prima liceo arrivò lo stesso) che Agnelli non aveva realizzato imprese straordinarie al pari della principessa Lady Diana o di John Kennedy, ma ai primi due era accumunato dall’allure, cioè il carisma.
E’ veramente così? Diana Spencer, morta a 36 anni per dipartita violenta per incidente automobilistico, era segnata gravemente da una condizione di lieve schizofrenia con disturbo di Asperger in una scissione patetica tra l’interno e l’esterno; Jfk era a capo della Camelot della Nuova Frontiera tra sesso, sangue e droga, e il senso della missione: questa non è stata un’impresa banale, soprattutto se si pensa al tragico epilogo di Dallas, che è la morte di Re Artù.
Gianni aveva uno spessore contraddittorio quasi pari a quello di Kennedy, ma troppo italiano per essere paragonato al presidente assassinato. Un’italianità sospetta da “latin heroes”.
Lasciatemi essere borghese: il signor Fiat mise in scena la “sindrome Marilyn: looking good, feeling bad”: Sembrare bene, stare male. Nei suoi eredi la faccenda si è manifestata, senza la grandezza del primo. Ma con lo sfascio degli Idiot Savants: “D’où vient ce mélange de génie et de stupidité?”, Robespierre dixit. Questo è stato il vero e unico lavoro dell’“aristo-borghese” caduto in piedi Gianni (come lo ha definito il ritrattista Filippo Ceccarelli): un attore a tempo pieno.
Per il solo fatto di esserci riuscito così bene, egli è stato un genio o poco meno: ha messo aristocraticamente in scena la sua recita calandosi nel personaggio di Gianni Agnelli che gli piaceva da morire (stava proprio per lasciarci la pelle in quell’incidente in macchina sulla Costa Azzurra già rovinata dal Tramonto dell’Occidente), fallendo in tutto il resto: fallendo come padre, fallendo come industriale, fallendo come politico.
Sarebbe potuto diventare il Reagan italiano, favorendo la nascita di un capitalismo anglosassone e della reaganomics italiana auspicata dall’Ingegnere di Ivrea, che non divenne lo Steve Jobs della Fiat per colpa dell’ostruzionismo sovietico del legibus solutus torinese: ma rubò più dei Ghino di Tacco della Prima Repubblica, anche se gli piaceva dire: “Mi piace il mare, perché è l’unica cosa che non si può comperare”, e sarebbe divenuto anche un favoloso giornalista – se solo fosse stato capace di portare a termine coerentemente un compito, almeno uno (sic!).
Non lesse neanche un libro in vita sua dalla prima all’ultima pagina, per quanto avesse capito con le forme inferiori dell’intelligenza: fiuto e furberia – sfogliando Il tramonto della nostra civiltà di Piero Ottone – che “lei ha scritto qualcosa di importante”. Poi non ne fece più nulla, per occuparsi presumibilmente dei piedi ora della Silvia Monti ora di chissà quale signora nel ricco panorama delle femme fatal piccolo-borghesi tra i 50 e i 60 (l’età migliore). Lo dico anche con un po’ di benigna invidia.
“Quando aveva capito un problema, non lo interessava più”: Piero Ottone dixit a Silvia Truzzi.
Gianni era disperatamente superficie, ma facendo gli effetti speciali.
Significa perdere vincendo.
E a questo mondo, non è cosa da poco.
Capì molto bene le contraddizioni di Jfk nella bellissima intervista che gli fece Eugenio Scalfari il 22 novembre 1983, ma poi a Mixer dal grande Giovanni Minoli dovette un po’ romanzare la realtà dicendo che Kennedy aveva scelto tanto Kissinger quanto Schlesinger Arthur jr nella sua Amministrazione alla Casa Bianca: in verità aveva scelto Schlesinger Arthur, proprio perché scartò Henry Kissinger! Ma i paradossi alla Glenn Gould sono irrinunciabili, si sa.
Gli artisti manipolano la realtà, e forse era un po’ artista anche il signor FIAT. Che nel suo snobismo rimaneva provinciale. Ma l’unica cosa che conta è dare un senso alla propria giornata, facendo buon uso delle poche risorse che uno ha: un’altra delle battute dell’Avvocato.
Che certamente era di panna montata: il carisma è di panna montata, è un’entità metafisica, e a volte gli dei si stancano di sostenerlo.
Sorridi, che tanto la vita è triste.
Il problema era Edoardo, come disse Piero Ottone.
Ho letto gustandola l’analisi del filosofo Marcello Veneziani “C’era una volta un re, anzi un dio serpente”: orbene, si tratta di un provincialismo ad altissimo livello che sottoscrivo tout court.
Vale la pena riportarne ampi passaggi, anche perché non ho più molto da dire: non che abbia mai avuto molto da scrivere, sia chiaro… Ma solo l’entusiasmo di una passione straripante:

“Gianni Agnelli è stato l’autobiografia della nazione. Fu l’unico sovrano riconosciuto, ossequiato e temuto, al di sopra della legge, per lunghi decenni. Il Regno d’Italia restò a Torino anche dopo la caduta della monarchia sabauda e l’avvento della repubblica cambiò solo la dinastia regnante.

A cento anni dalla sua nascita, ricordiamo Gianni Agnelli come una tartaruga secolare, dal volto grinzoso che fuorusciva dal suo guscio chiamato in gergo automobilistico carrozzeria. Testuggine antica, dell’era rettilian guardava con sprezzo elegante l’umanità, di cui avvertiva la profonda estraneità e l’irrimediabile subalternità. Un monarca legibus solutus, come si diceva dei regnanti assoluti, a cui erano consentite trasgressioni negate ai comuni mortali, a cui anzi non si poteva neanche accennare.
Anche dal punto di vista giudiziario, ai tempi di Mani pulite, ogni leader o imprenditore in Italia “non poteva non sapere” quel che succedeva nella sua azienda o nel suo impero; lui, invece, pur essendo onnipotente e di stirpe quasi divina, aveva il potere di non sapere e di non essere contaminato dalle vicende umane troppo umane dei suoi dipendenti, fossero pure i più stretti collaboratori.

Nel centenario della sua nascita lasciate che ricordi senza nostalgia la sua dominazione.
Primo, perché la Fiat di Agnelli prese dall’Italia più di quel che aveva dato.
Aveva dato tanto; figuriamoci quanto ha preso. L’Italia fu in parte disegnata a immagine e somiglianza dei suoi interessi. Secondo, perché il suo restò un capitalismo protetto, in cui – come un tempo si diceva – si socializzavano le perdite e si privatizzavano i profitti; era doveroso difendere la Fiat per patriottismo, ma l’azienda sognava di de-italianizzarsi, come poi ha fatto.
Terzo, perché c’era un’aura d’intoccabilità su tutto quel che apparteneva al suo reame, dall’industria pesante, anche d’armi, al calcio, passando naturalmente per le auto, la Ferrari e tutto il resto. Quarto, perché l’editoria era ai suoi piedi e nessuno poteva veramente e seriamente osare qualcosa su di lui, la sua azienda, la qualità delle sue auto, la loro sicurezza, e in generale sui metodi di potere. Quando fondai un settimanale nei primi anni Novanta, un giornalista assai scafato, che curava le pagine economiche di un grande giornale, mi disse: attacca tutti, anche la mafia, ma lascia stare la Fiat e l’Avvocato”.

Il giornalista in questione era il genio del giornalismo Giuseppe Turani, che scrisse un capolavoro a quattro mani con Eugenio Scalfari: “Razza padrona – storia della borghesia di Stato”, ed è morto a 79 anni con il “fiato corto” di chi non è più in linea con lo Zeitsteil poiché aveva fatto il passo più lungo della gamba: come osservò Piero Colaprico nel suo ritratto stupendo – repetita iuvant: stupendo – titolato “Addio Turani, raccontò la Razza padrona”. Nella sua analisi di rara bellezza in cui si odono gli echi delle colonne sonore di Ennio Morricone nei film di Sergio Leone, Colaprico osservava di Turani, il Fitzgerald mancato della letteratura italiana: “… Una passione che andava al di là degli schemi di un articolo, che non sconfinava quasi mai nel pettegolezzo, ma sottintendeva un desiderio di letteratura: anche se un grande affresco su quel mondo a quanto si sa – non l’ha mai scritto. Aveva saputo superare la crisi, anche personale, della stagione di Tangentopoli. Era stato accusato di essere un po’ troppo contiguo alla famiglia Ferruzzi e all’operazione Montedison, quella che creò, secondo il pubblico ministero di Mani Pulite Antonio Di Pietro, non solo una fusione aziendale che avrebbe potuto cambiare la chimica italiana, ma anche “la madre di tutte le tangenti”…”.

Perché, caro Colaprico, il successo è l’altra faccia del fallimento. Come il sogno di Vincent van Gogh di fondare la “comunità gialla degli artisti” ad Arles, nel sud della Francia, con Paul Gauguin.
Giuseppe Turani era “over-talented”, proprio come Arthur Miller. Sullo sfondo del suicidio di Raul Gardini.

Non sono un grande scrittore ne ambisco a diventarlo, ma ho una curiosità infinita per le cose belle della vita; continuava Marcello Veneziani: “… Larga parte della saldatura tra sinistra e capitale, tra grande borghesia e militanza di sinistra e sessantottina, tra salotti buoni e terrazze radical, avvenne all’ombra dell’impero Agnelli e dei suoi derivati. L’egemonia si estese ad altri ambiti, come l’università, e si avvalse di altre figure come il finanziere progressista Carlo Debenedetti (Carlo De Benedetti, rectius, ndr) e il principe Carlo Caracciolo…”.

No, questo è inesatto. De Benedetti fu licenziato da Re Gianni, prima che potesse metter mano al risanamento della FIAT in linea con il free trade.
Già, CDB: un altro perdente di successo, ma con una grandezza che mancava al “dio serpente”: la moralità di un calvinista nel deserto. “Non ho fatto la fine di Raul Gardini, quando ho capito che era il momento di uscire di scena: anche se il ridimensionamento non è la parte che si addice al mio carattere”: Cdb dixit a Federico Rampini, “Per adesso”.
E vi pare poco?
Tra artisti e imprenditori non c’è nessuna differenza. Come emerge nel bel libro Icarus, ascesa e caduta di Raul Gardini, a firma di Matteo Cavezzali, un gigante della letteratura che è direttore artistico del Festival di Sanremo.
E non smettono d’illuminarci d’immenso.

di Alexander Bush

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Alexander Bush
Alexander Bush, classe '88, nutre da sempre una passione per la politica e l’economia legata al giornalismo d’inchiesta. Ha realizzato diversi documentari presentati a Palazzo Cubani, tra questi “Monte Draghi di Siena” e “L’utilizzatore finale del Ponte dei Frati Neri”, riscuotendo grande interesse di pubblico. Si definisce un liberale arrabbiato e appassionato in economia prima ancora che in politica. Bush ha pubblicato un atto d’accusa contro la Procura di Palermo che ha fatto processare Marcello Dell’Utri e sul quale è tuttora aperta la possibilità del processo di revisione: “Romanzo criminale contro Marcello Dell’Utri. Più perseguitato di Enzo Tortora”.

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