Come ho visto l’inizio della guerra civile in Ucraina

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“L’opposizione ha “oltrepassato i limiti” sperando di arrivare al potere grazie alla strada, e i responsabili saranno giudicati” ha detto il presidente ucraino Viktor Ianukovich”

Informazione ANSA, 19 febbraio 2014

Il 18 marzo 2014 in Ucraina de-facto è scoppiata la guerra civile, tanto più drammatica e travolgente, in quanto mossa dal governo del presidente Ianukovych contro il proprio popolo. Trovandomi a Kiev in questo periodo sono stata testimone oculare di violenti scontri che hanno portato alla morte di decine di persone e a centinaia feriti, tra cui anche molto gravi e in pericolo di vita. Ritengo il mio dovere morale e civile di descrivere quello che ho visto e vissuto il quella tragica giornata.

Il 18 febbraio al Parlamento ucraino si sarebbe dovuta discutere, oltre alla candidatura del nuovo premier, la riforma costituzionale, ovvero il ritorno alla costituzione del 2004, per ridurre i poteri del presidente. Questo fu uno dei punti cardinali del Piano di pacificazione nazionale proposto dall’opposizione nella situazione di profonda crisi politica dell’Ucraina: essa aprirebbe la strada, inizialmente, alla elezione di un nuovo governo tecnico per arrivare poi a nuove elezioni. Inoltre, il ritorno alla Costituzione del 2004 era stata la condizione indispensabile alla tregua tra il governo e la Piazza, in seguito agli scontri di gennaio. Per sostenere le rivendicazioni politiche delle opposizioni e fornire loro un supporto psicologico durante le votazioni in Parlamento, decine di migliaia di manifestanti di Maidan sono partiti in corteo pacifico verso la sede del Parlamento. La gente era convinta di fare una cosa legittima, oltre che giusta, visto che il diritto di manifestare e’ garantito dalla Costituzione ucraina. A circa 400 metri dal Parlamento, in una delle vie perpendicolari, un cordone di agenti delle forze speciali “Berkut” ha impedito ai dimostranti di avvicinarsi all’edificio. Alcuni dei manifestanti però sono riusciti ad aprirsi un varco e passare attraverso il cordone. Allora le forze speciali hanno cominciato a colpire i manifestanti con manganellate e pallottole di gomma, usando i lacrimogeni e persino ordigni esplosivi. Molti agenti sono saliti sui tetti dei palazzi per mirare con più precisione.
Nel frattempo, dentro il Parlamento, l’opposizione tentava in vano di far porre in votazione il progetto di legge sulla riforma costituzionale. Il presidente del Parlamento ha rifiutato di farlo, senza alcuna spiegazione. Dopo di che si è sentito male, salvo poi semplicemente andarsene (si presume che abbia agito così nel timore che persino alcuni rappresentanti della maggioranza supercontrollata da Ianukovych in persona, nella situazione critica che si e’ creata nel Paese, potessero votare la riforma costituzionale). Alla fine il progetto di legge è stato registrato dal vice-presidente del Parlamento, ma nel frattempo i deputati del Partito delle Regioni di Ianukovych, dichiarandosi scioccati dai violenti scontri tra manifestanti e polizia, che si potevano osservare dalle finestre del Parlamento, hanno dichiarato di non essere più in condizione di lavorare, e hanno cominciato a lasciare la sala andandosene (molti, come si è saputo dopo, attraverso un passaggio sotterraneo di sicurezza).
Apprendo tutte queste notizie in diretta sul Canale 5 ucraino: qui le troupe televisive continuano a lavorare, in condizioni estreme, dentro e fuori il Parlamento. Posso vedere un giornalista picchiato dalle forze speciali, nonostante porti la fascia con la scritta PRESS (ma anche il casco e giubbotto antiproiettile perché, come si é verificato più volte durante i tre mesi di protesta, la polizia ucraina e’ particolarmente violenta nei confronti dei giornalisti). Cominciano ad arrivare altre notizie sui feriti, tra i quali anche donne: è importante sottolineare che la marcia era pacifica, i manifestanti erano a volto scoperto, tra di loro si trovavano molte donne e anziani. I feriti manifestano ustioni, traumi cranici (parecchi tra manifestanti non sopravviveranno a causa di gravi traumi cranici subiti); alcuni, colpiti dagli esplosivi, hanno perso gli arti superiori. Dentro di me sento che devo andare lì, per vedere, per rendermi conto di persona di che cosa sta succedendo nella mia Kiev, per poter testimoniare.
Arrivo a Maidan, piazza dell’Indipendenza, l’isola della democrazia (un esempio di democrazia pressoché diretta, come in Svizzera), dove da tre mesi sono accampati nelle tende centinaia di attivisti di Maidan giunti da tutto il Paese, comprese le regioni russofone dell’est e del sud dell’Ucraina, tradizionalmente considerate feudo del presidente Ianukovych. Qui, tutte le domeniche, a partire dalla fine di novembre quando sono cominciate le proteste antigovernative, si raduna l’Assemblea popolare con 20-50 mila persone: il picco ha superato le 500 mila. Da tra mesi la richiesta principale di Maidan sono le dimissioni di Ianukovych, già delegittimato agli occhi del popolo a causa di una pessima gestione della crisi politica e sociale, macchiato di sangue dopo l’ordine che ha impartito di usare la forza contro i manifestanti, quattro settimane fa. Anche adesso in piazza Maidan c’è tanta gente, ma molti si dirigono verso le vie che portano direttamente ai luoghi degli scontri: la via Hrushevs’ki (impressa nella coscienza collettiva degli Ucraini per i tragici eventi del 22-23 gennaio scorso, durante i primi scontri violenti) e la via Instytuts’ka, il luogo di scontri odierni intorno ai palazzi del governo.
Vado prima in via Hrushevs’ki. Sento gli spari e vedo una barricata fatta di pneumatici infuocati (servono a creare una cortina di fumo tra manifestanti e polizia); dall’altro lato, sulla collina, si intravedono le file serrate della polizia coperte da alti scudi metallici. Cerco di soffocare dentro di me la prima reazione emotiva (mi viene da piangere quando vedo tutto questo nella realtà e non più in televisione, perché bruciano i luoghi storici di Kiev, archetipi sin dalla mia infanzia vissuta in una delle più belle città europee): sono qui per rendermi conto di persona di tutto ciò che accade per poter testimoniare. Passano i combattenti di “Prayj sektor”, il braccio armato dei manifestanti. Con spranghe e pneumatici vanno “in prima linea” verso la barricata infuocata che li divide dalle file delle forze speciali. Tornano con i volti di nero, la folla che si fa sempre più compatta applaude e scandisce “Gloria agli eroi!” In realtà di volti interi se ne vedono pochi, perché i ragazzi della prima linea si coprono con i passamontagna. Mi hanno particolarmente colpito i loro occhi – quasi tutti celesti e, mi viene la parola, candidi – e i loro sguardi dove non c’è odio, nè paura: nei loro sguardi mi sembrava di cogliere una determinazione profonda e … l’ispirazione di chi è convinto di combattere per una causa giusta.
Comunque, voglio capire quel che sentono e chiedo a uno di loro: “Ma perché combattete?” – <Perché loro ci massacrano e vogliono annientarci. E nessuno ci può difendere da loro se non noi stessi. Questo non è un governo legittimo, sono criminali, capiscono solo la forza”. (Qui, forse, ci vorrebbe un lungo commento politologico sulla legalità e la legittimità del potere in Ucraina, ma il mio compito adesso è ben altro. Il mio messaggio principale ai colleghi occidentali e a tutti gli italiani che potranno leggere questa mia testimonianza è il seguente: non credeteci, quando sentite parlare degli estremisti in Ucraina, perché non possono essere estremisti decine di milioni di persone, che si sono ritrovate costrette a difendere la loro Patria e la loro vita dal proprio governo). Altre immagini della via Hrushevs’ki che mi si sono impresse: un prete che benedice i combattenti con la croce; due fidanzatini, ragazzo e ragazza stretti per mano, attivisti della Samooborona (Autodifesa, è il movimento cittadino di ucraini sorto in occasione di Maidan), equipaggiati con caschi e maschere, il cui compito è vegliare sull’incolumità dei civili e scoraggiare i più “audaci” che salgono sulle colline per “vedere meglio”, avvertendoli della presenza dei cecchini: ogni tanto sparano sulla folla per fare paura; due ragazzine appena adolescenti, di 13-14 anni, non di più, che si coprono la parte bassa del viso con le sciarpette, ma sono avvolte in sgargianti bandiere nazionali giallo blu dell’Ucraina (dentro non posso trattenere la preghiera: che Dio le copra dagli occhi dei cecchini).
Gli spari si sentono da più lontano, capisco che arrivano dalle vie adiacenti al Parlamento. Decido di andare li’, giungo alla barricata sulla via Instytuts’ka che porta al quartiere governativo. Il flusso di persone in entrambe direzioni è continuo. Attraverso il varco, passano prevalentemente i combattenti di Maidan e le ambulanze. I controllori della Samooborona fanno passare soltanto gli uomini: “La situazione è piuttosto seria, le donne non ci devono andare”. Molte donne invece sono proprio intenzionate ad andarci, insistono con forza: “Siamo state noi a costruire le barricate là, guarda, ho ancora i guanti da stamattina”. Anch’io provo a convincere il controllore, ma il suo no e’ categorico: “Può passare soltanto se lei è pronta di portare poi sulla coscienza il peso di qualche morte dei nostri. Lì sparano con i proiettili convenzionali e mirano proprio al manifestanti, per spaventare e seminare il panico. Se lei dovesse cadere e i nostri uomini cominciassero ad aiutarla, diventerebbero bersagli”. Una ragazza ha udito le mie vane trattative con il controllore: “Ho sentito che lei voleva passare, possiamo fare un giro e raggiungere Instytuts’ka dall’altro lato; posso vedere col cellulare le vie dove non ci sono ancora i blocchi, abbiamo creato sulla rete un sistema per segnalare i nuovi blocchi”.
Cominciamo ad aggirare le barricate. In pochi minuti siamo già sulla Instytuts’ka. Guardo la ragazza: non avrà ancora vent’anni. Le chiedo come si chiama – Iryna. E perché vai là se è così rischioso. – Perché là c’è il mio ragazzo, e da due ore non mi risponde al cellulare. Devo trovarlo. – Ci salutiamo. La situazione è molto simile a quella sulla via Hrushevs’ki, ma è chiaramente molto più grave. Gli spari si sentono da molto più vicino, le fiamme delle barricate di pneumatici sono molto più alte, il fumo nero copre tutto il quartiere governativo. L’odore dei lacrimogeni copre persino la puzza dei pneumatici bruciati. La maggior parte delle persone porta le maschere anti-gas. Vedo le donne che spaccano la pavimentazione della strada per costruire una barricata. – Per che cosa? – Corrono le voci che le forze di “Berkut” abbiamo ricevuto l’ordine di attaccare. – Altre donne scandiscono il ritmo della battaglia, battendo pezzi delle pavimentazione strappata contro il palo di un lampione. Mi fermo davanti al fuoco: è a una ventina di metri da me, dall’altro lato della strada. Ogni tanto i gruppi di 20-30 ragazzini tutti insieme si avvicinano alla barricata infuocata e lanciano i pezzi di pavimentazione (mi rendo conto che nella mia mente, senza volerlo, ho cominciato a recitare la poesia Victor Hugo “Sur une barricade, au milieu des pavés. Souillés d’un sang coupable et d’un sang pur lavés. Un enfant de douze ans est pris avec des hommes …” I ragazzi che vedo davanti a me avranno tra i 15 e i 18 anni. Chiedo agli uomini accanto a me: “Ma perché lo fanno? Vale la pena rischiare cosi tanto? E poi sembra quasi una provocazione, visto che dietro la barricata sembra che non ci sia nessuno”. – “Guardi bene attraverso la cortina di fumo”. Infatti comincio a intravedere una fila di scudi metallici. L’uomo continua a spiegare: “ il “Berkut”, ma loro stanno più dietro, avanti mandano i soldatini novelli dell’esercito. Gente di 18 anni, carne da macello”. Gli rispondo: “Ma anche questi che lanciano i pezzi di pavimentazione, possono essere ammazzati. Sono cosi giovani” – “Ma anche noi, più vecchi, siamo qui e anche noi possono ammazzarci. Possono ammazzarci tutti qui, ma non ce la faranno ad ammazzare tutti gli Ucraini. Loro hanno le armi – (in effetti, da lì a qualche ora sulle vie centrali di Kiev cominceranno a sferragliare i carri blindati) – ma noi vinceremo grazie al numero. Anche se questa volta sarà sparso molto sangue, noi vinceremo. La gente non ne può più di questo regime, di questa banda di corrotti e avidi che hanno già rubato tutto quello che potevano, e adesso vogliono massacrarci. Guardi che cosa stanno facendo (spari-fiamme-lacrimogeni continuano)” – Gli chiedo da ultimo: “Che cosa succede laggiù ancora più avanti? – “A 100 metri da qui c’e il combattimento vero e proprio”. – “Lo voglio vedere”. – “Vada pure. Che Dio la protegga!”
Mi rendo perfettamente conto del pericolo, ma qualcosa di più forte della paura mi spinge ad andare, sempre più avanti. Anch’io voglio, almeno per un attimo, restare in prima linea del combattimento; provare quello che provano questi ragazzi mascherati e le loro ragazze, gli uomini e le donne più maturi, le persone anziane che non possono correre per sfuggire al pericolo, ma egualmente rimangono. Finalmente arrivo in un posto dove, davanti a me, non c’e’ più nessuno. Vedo un grande veicolo incendiato e due combattenti di Maidan vicino a esso. Faccio appena in tempo a scattare una foto, quando tutti intorno a me cominciano a correre indietro. Un uomo grida forte: “Scappate tutti, i poliziotti (si esprime con un spregiativo ‘мусора’ che letteralmente significa ‘spazzatura’) hanno aperto un varco e massacrano tutti con manganellate e fucilate!”. Mi metto a correre insieme agli altri, è una cosa istintiva. Ma nessuno spinge uno con l’altro, nessuno grida di paura. Mentre scappiamo via dalla prima linea, vedo persone che continuano a strappare la pavimentazione e costruire barricate.
Esco dalla folla e mi dirigo a Maidan, che ancora, per pochissimo tempo, resterà l’”isola della democrazia” e un luogo sicuro. Quando sono a Maidan, vedo la gente scappare da tutti lati delle colline da dove sono appena tornata, e dietro di loro apparire gli scudi metallici dei “Berkut”. Dentro di me qualcosa mi dice di andare via: dalla posizione panoramica dove sono piazzata percepisco perfettamente l’intenzione e la tattica delle forze speciali: spingere tutti i dimostranti verso Maidan. Ho la netta sensazione che fra poco Maidan sarà accerchiato. Non ho paura, ma decido ad andare via – sono donna, non ho armi, e non potrò neanche difendermi. Morire o subire gravi ferite (secondo altre testimonianze ancora più “dirette” della mia, gli agenti Berkut mirano di solito al cuore, ai polmoni e agli occhi delle persone) mi sembra un rischio inutile. Alle quattro del pomeriggio l’assalto a Maidan è in corso. Io vado via, ma subito mi rendo conto che tornare a casa sarà un’impresa non delle più facili. Le autorità hanno completamente bloccato il traffico al centro della citta’ e, cosa che non è mai successo prima, hanno fermato tutte le linee della metropolitana. Per una città con cinque milioni, tra abitanti e pendolari, è una paralisi totale.
Verso le 20 – proprio per miracolo – riesco a tornare a casa e dalla trasmissione in diretta vedo come le forze speciali ‘ripuliscono’ Maidan. Tutto è in fiamme, i “Berkut” hanno incendiato le tende dei dimostranti e la sede dei sindacati, diventata negli ultimi tre mesi il quartier generale di Maidan. Si parla di decine di morti e centinaia di feriti. All’improvviso le trasmissioni del Canale 5 (ucraino) si interrompono, il segnale è bloccato su tutto il territorio dell’Ucraina.
In questo modo Maidan, come movimento di protesta pacifica, è finito. La lotta diventa armata e molto violenta. Da tutto il Paese decine di migliaia di persone cercano di arrivare a Maidan, anche se tutte strade principali che portano a Kiev sono state bloccate dal decreto speciale del Ministero dell’Interno. La città intera è paralizzata, e al centro brucia e sanguina suo il cuore – Maidan. E’ la guerra, non proprio una guerra civile, ma la guerra del regime contro il Popolo. Sicuramente ci sarà ancora molto sangue ed è impossibile esprimere a parole l’immane dolore di veder morire i tuoi connazionali – cercavano soltanto di difendere la propria dignità, ottenere giustizia e libertà e assicurare un futuro migliore ai loro figli. Ma questa volta a tutti costi e con tutti mezzi possibili.
E se questo è un peccato, è stato già lavato con il loro sangue innocente. Dopo aver visto persone insorte per difendere i propri diritti civili e morali, il loro comportamento coraggioso, composto, dignitoso e generoso, mi sono convinta definitivamente (come se ce ne fosse ancora bisogno!) che l’Ucraina prima o poi diventerà un Paese realmente indipendente e democratico. Ma quanto alto potrà essere ancora il prezzo!

Olena Ponomareva

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Olena Ponomareva
Olena Ponomareva, docente di ucrainistica presso il Dipartimento di Studi Europei, Americani e Interculturali, Università “La Sapienza” di Roma. Studia le problematiche di trasformazioni politiche e socioculturali delle società posttotalitarie dell’Est Europa.

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