BETTINO CRAXI CONTRO JOHN MAYNARD KEYNES: EZIO TARANTELLI VIENE ASSASSINATO DALLE BRIGATE ROSSE – In Inghilterra il successo è considerato un fatto positivo, in Italia è vero il contrario. Un’interpretazione di Guido Maria Brera

Data:


“In Italia si perdona tutto fuorché il successo tranne quando è immeritato”
Indro Montanelli

“Siamo uguali soltanto all’inferno”
Dario Fertilio

E’ di questi giorni la notizia dello scandalo di Concorsopoli all’Università di Genova, una delle realtà più tristi dell’Italia: apprendo da “Il Secolo XIX” del 17 maggio 2022, che fu diretto da Piero Ottone: “Si era dimesso otto giorni fa mentre erano in corso gli interrogatori di altri colleghi coinvolti nell’indagine. Genova – Ha parlato per circa due ore l’ex direttore del Dipartimento di Giurisprudenza Riccardo Ferrante, davanti al giudice per le indagini preliminari Claudio Siclari che lo ha interrogato nell’ambito dell’inchiesta sui presunti concorsi universitari “su misura” per favorire amici e parenti…”.
Ora, è un ritornello autistico dire: vale la “presunzione d’innocenza” sancita dal dettato costituzionale, la Magistratura faccia gli accertamenti del caso.
Se ai corsi di Giurisprudenza a Genova ma anche di Scienze Politiche e così via, c’è per caso tra gli studenti un “neuroatipico” del livello di Ettore Majorana, la sua carriera è segnata: non fa parte dei circuiti amicali, e si ritroverà disoccupato.
Ricordo che nel dicembre del 2017, al bar Massone a Recco, incontrai per l’assunzione di un caffè la figlia del neuropediatra infantile Stefano Cractovilla, la quale mi disse: “Questo è un mondo di furbi. Tu al corso di Scienze Politiche, devi amicarti i professori che contano, sennò non vai avanti nella vita e poi ti fai piazzare da tua madre che conta (la figlia di Piero Ottone: ma non siamo una famiglia borghese, ndr) da qualche parte. Altrimenti non farai niente”.
Rimasi abbastanza schifato anche se non stupito: è un ragionamento mentalmente sbagliato.
Genova è la stessa città dove il fondatore del Ponte Morandi poi crollato disgraziatamente nell’agosto 2018 con la mala gestio dei Benetton provincial-cattocomunisti, si era ucciso, dopo essere stato isolato dai colleghi: oggi si dice mobbing, e dove le Brigate Rosse iniziarono la “strategia della tensione” uccidendo il giudice Sossi.
Su “la Repubblica” è uscito un interessante articolo dell’ordoliberale Alessandro De Nicola “La lezione di Ricardo”, dove l’economista milanese fondatore di Adam Smith Society faceva capire tra le righe che se David Ricardo fosse nato in Italia (fu diseredato dal padre), sarebbe finito in miseria: nel suo paese natio, invece, l’“anaffettività” del padre che gli negò addirittura l’eredità si rovesciò in una carriera di successo come “market operator” (perché il fallimento è l’altra faccia del successo): “Ricardo proveniva da una famiglia borghese sefardita e fin dall’età di 14 anni cominciò a collaborare con il padre, un agente di Borsa. A 21 anni si sposò con una quacchera e diventò un membro della Chiesa Cristiana Unitaria. Il padre non potè accettare l’abbandono della fede degli avi e lo disconobbe e diseredò. La dolorosa rottura non impedì a Ricardo di prosperare negli affari accumulando una cospicua fortuna grazie alle sue operazioni di Borsa (7-800 mila sterline dell’epoca, pari a circa 100 milioni di oggi).

La ricchezza permise al giovane stockbroker di ritirarsi dagli affari a 41 anni per dedicarsi a tempo pieno agli studi: chimica, geologia, aritmetica e naturalmente economia, materia che lo aveva appassionato fin da quando, ventisettenne, aveva letto “La ricchezza delle Nazioni” di Adam Smith…”.

Orbene, il 12 maggio 2022 scrissi su Whatsapp un messaggio a De Nicola che qui riporto: “Professor De Nicola, ieri ho letto il suo articolo “La lezione di Ricardo”: in Italia, Ricardo sarebbe morto in miseria”, lui mi ha risposto: “I regolatori se lo sarebbero mangiati vivo.
Mangiato”.
E’ l’ovvia considerazione di un ordoliberale, che peraltro contiene elementi di verità: ma – a parere di chi scrive – non è questo il “primum movens” (cioè la soverchiante burocrazia nei suoi asfittici regolamenti) del perché David Ricardo sarebbe morto povero in Italia: da noi non si perdona il successo; ma soprattutto, non si perdona il fallimento che del successo è la “conditio sine qua non”.
Ma siamo nell’area dell’inconsapevolezza che presiede al comportamento umano, e qui divento “obtorto collo” un po’ freudiano… Non c’è il dolo della consapevolezza.
L’Italia è un paese che nel 2022 non contempla l’opzione del successo, come la vicenda di Ilaria Capua, scienziata virologa scappata negli States lasciando Lista Civica di Mario Monti dopo un’infamante inchiesta sulla diffusione di virus e l’isolamento dell’allora Presidente della Camera Laura Boldrini, del direttore dell’Espresso Bruno Manfellotto e del magistrato ora in pensione Giancarlo Capaldo (la Capua pensò al suicidio), ampiamente dimostra. Oggi la Capua dirige un istituto di eccellenza clinica a Miami.
E’ uscito con il “Corriere della Sera” un libro molto particolare (non bello, che è un’altra cosa) ma sicuramente visionario “Dimmi cosa vedi tu da lì” del geniale fondatore del gruppo Kairos, finanziere e scrittore “Un romanzo keynesiano”, dove c’è un capitolo dedicato alla tragica scomparsa del professor Ezio Tarantelli, economista keynesiano tra gli allievi prediletti di Federico Caffè (l’allievo supera il Maestro), tra le menti più brillanti della classe dirigente repubblicana assassinato dalle Brigate Rosse nel marzo del 1985 dopo aver avvicinato l’Italia alla Svezia e alla Danimarca: se non fosse morto, molto probabilmente si sarebbe fatto il deficit spending inviso ferocemente da Bettino Craxi che non ragionava molto diversamente dai terroristi (ma questo è un altro discorso)…
Scrive Guido Baria Brera nel capitolo “La solitudine del riformista”:

“L’utopia dei deboli è la paura dei forti.”
Le parole si stendono su un cippo commemorativo in via del Castro Laurenziano. E’ simile a un oblò nella pietra che si affaccia su un orizzonte fosco. Ricorda anche il foro che buca un corpo solido, integro nonostante la ferita.
In basso, quattordici lettere chiariscono la paternità della frase.
Quattordici lettere che compongono il nome di “Ezio Tarantelli”, economista, keynesiano convinto, pupillo di Federico Caffè, esponente del Castro Laurenziano, figura di spicco del cenacolo di allievi del Professore.
Resto immobile a fissare il monumento alla memoria, mentre il vento che ha cominciato a imperversare nasconde il sole che illuminava la città e i miei passi. Mulinelli d’aria ruotano sull’asfalto come chi non accetta una perdita e si ostina a tornare dove non c’è più nulla.
Sono prossimo al cuore della città universitaria, posso sentire i battiti che scandiscono le attività della Sapienza, l’università più grande d’Europa, dove il 17 febbraio 1977 il segretario della Confederazione generale del lavoro, Luciano Lama, venne contestato senza alcun riguardo e fu costretto a scappare.
Eccomi, allora, nel luogo dei miei studi, trent’anni dopo. In un silenzio inconsueto, circondato da un vuoto assurdo che solo l’èra del contagio rende verosimile. Mi aggiro come fossi in un plastico a grandezza naturale, tra pareti e pavimenti che servono solo a far immaginare qualcosa che oggi non esiste. Invece esiste, questo presente che ho attorno, mentre indugio.
Indugio davanti al monumento, davanti alla cicatrice di un passato che sanguina ancora.
Indugio, immobile, mentre il vento caldo d’estate mi corre lungo la schiena. La memoria, invece, corre veloce a una giornata di primavera di trentasei anni fa.

Erano le 12.30 del 27 marzo 1985, una mattina piena di luce al Castro Laurenziano.
C’erano un viavai di studenti nelle aule, nei corridoi e sui prati fuori dalla facoltà di Economia.
Ezio Tarantelli aveva appena finito la sua lezione ed era uscito a prendere l’auto nel parcheggio dell’università. Sedeva al posto di guida quando si sentì chiamare: “Professor Tarantelli!”. I colpi arrivarono secchi, da una mitraglietta Skorpion imbracciata da uno sconosciuto.
Sui prati nel sole, tutti si voltarono di scatto.
Qualcuno gridò, qualcuno indicò la strada che portava al parcheggio dei docenti. Tarantelli, intanto, una maschera di sangue, era accasciato sul sedile del passeggero.
Le ragioni dell’omicidio – ed è un ossimoro, perché non esistono ragioni per un omicidio – erano contenute nel documento di rivendicazione, che i killer avevano lasciato sull’auto dell’economista e su cui campeggiava la stella a cinque punte delle Brigate rosse per la costruzione del Partito comunista combattente.
Nella retorica brigatista, Tarantelli era “un nemico del salario operaio”.
L’accusa: secondo le BR-PCC, l’economista aveva contribuito a colpire la scala mobile.
Ovvero, il meccanismo che adeguava con scatti automatici (calcolati in “punti di contingenza”) i salari all’aumento dei prezzi e del costo della vita.
Il dispositivo era stato istituito nell’immediato dopoguerra per difendere il potere d’acquisto mediante la restituzione in busta paga di buona parte di quel che l’inflazione aveva eroso. La scala mobile si attivava quattro volte l’anno, con cadenza trimestrale, in rapporto alle oscillazioni dei prezzi calcolate sulla base di un “paniere” di prodotti e servizi. La storia della scala mobile trascende quella delle relazioni industriali, coincide di fatto con quella della Prima Repubblica e finisce per arricchirsi di implicazioni che trasformeranno il meccanismo in un vero e proprio simbolo. Uno di quei simboli in nome dei quali si arriva a uccidere.
Nel 1975 l’accordo tra sindacati e Confindustria (esattamente tra Luciano Lama e Gianni Agnelli, ndr) estese il “punto unico di contingenza” superando le differenze geografiche, di inquadramento professionale e qualifica. Lo scatto veniva calcolato sulla base della categoria più elevata e applicato a tutti i lavoratori. La scala mobile a punto unico era improntata a un forte egalitarismo salariale, che – secondo i suoi critici – disincentivava la produttività e tendeva a penalizzare il merito. Contro l’iper-indicizzazione aveva preso posizione anche Franco Modigliani, premio Nobel per l’Economia e padre nobile della scuola neokeynesiana del Massachussetts Institute of Technology, il leggendario MIT. Proprio Modigliani aveva tenuto a battesimo la “meglio gioventù” degli economisti italiani, tra cui Ezio Tarantelli. Le Brigate rosse definiranno il MIT un “covo internazionale di politiche antiproletarie e di oppressione imperialista”.

Ma siamo uguali soltanto all’Inferno (per citare Dario Fertilio).
Le Brigate Rosse non volevano il New Deal di John Maynard Keynes in Italia, non volevano il merito. E uccidevano per conservare lo status quo. Ma una comunità che uccide chi vuole affermare il merito non è destinata a sopravvivere; era contrario al DEFICIT SPENDING anche l’arci-italiano Bettino Craxi, che non voleva che decollasse il business: la costante preoccupazione del Ghino di Tacco era quella di impedire che il business avesse successo.
Continuava Guido Maria Brera:

“Il 14 febbraio 1984 il governo Craxi interviene proprio sulla scala mobile con un provvedimento ribattezzato “decreto di san Valentino”. Ispirato alle proposte che Tarantelli portava avanti fin dal 1981, il provvedimento prevedeva il taglio di tre punti di contingenza della scala mobile – corrispondenti più o meno a duecentomila lire annue – offrendo come contropartita un limite del 10 per cento all’aumento di prezzi e tariffe controllati dallo Stato, insieme ad altri interventi compensativi.
I critici della scala mobile addebitavano a questo meccanismo la responsabilità dell’inflazione, che nel 1980 aveva toccato la punta record del 21 per cento e alla metà degli anni Ottanta si assestava intorno al 15, continuando a erodere il potere d’acquisto di una fascia eterogenea e nutrita della popolazione: piccoli imprenditori, piccoli proprietari immobiliari, piccoli commercianti, ma anche lavoratori autonomi e disoccupati. L’avvitamento assomigliava a una spirale perfetta, un circolo vizioso in virtù del quale all’aumento dei salari corrispondeva un aumento dei prezzi, che faceva scattare il dispositivo dell’indicizzazione che causava un aumento dei salari che corrispondeva a un aumento dei prezzi… Il loop sembrava non finire mai.
Mentre la febbre dei prezzi tornava a salire, il rapporto debito-PIL era schizzato al 75 per cento.
Secondo le ricette classiche, l’inflazione sarebbe scesa solo dopo un drastico calo dell’occupazione a botte di licenziamenti (la marcia dei quarantamila a Torino del 1980 con l’occupazione dei cancelli della FIAT capitanata dall’affannoso Enrico Berlinguer avviene su questo fondo, ndr).
Ezio Tarantelli, però, aveva avuto un’idea: non applicare più la scala mobile all’inflazione passata ma agganciarla all’inflazione futura e coinvolgere i sindacati nella definizione del valore previsto per il nuovo trimestre. In questo modo le parti sociali avrebbero dovuto convergere su un terreno comune: da un lato, le organizzazioni dei lavoratori avrebbero operato un avanzamento in termini di pianificazione, scartando dalla semplice lotta per il salario, dall’altro gli imprenditori avrebbero commisurato gli aumenti dei prezzi all’inflazione prevista. Nel caso in cui i prezzi fossero aumentati di più, i lavoratori avrebbero beneficiato di un indennizzo in busta paga.
Nella prospettiva di Tarantelli giocavano un ruolo fondamentale le pratiche della concertazione sul modello di Paesi come la Germania e la Svezia.
L’unica via praticabile per ridurre l’inflazione senza intaccare pesantemente i livelli occupazionali era il superamento della fase di conflittualità tra le parti e l’inizio di una triangolazione tra governo, imprese e organizzazioni dei lavoratori all’insegna dello scambio politico. Uno scambio articolato, che avrebbe dovuto spostare l’accento dall’esclusività della lotta per il salario, ormai considerato una variabile indipendente, al terreno complessivo dello stato sociale e della difesa dei diritti.
Uno scambio politico che le BR bollavano con lo stigma dell’aggettivo “rivoltante”.
In precedenza, Modigliani aveva avanzato l’ipotesi di una rinuncia salariale che fosse bilanciata dai miglioramenti delle condizioni di vita in termini di servizi e tutele”.
Ecco a voi il deficit spending! L’Italia finalmente al livello dell’Inghilterra!

“Per Tarantelli era diventato impellente formulare una ricetta alternativa. Lui, uomo di sinistra, cresciuto alla scuola di Federico Caffè, specializzatosi al MIT, consulente di punta della CISL di Pierre Carniti, aveva una grande sensibilità sociale. La scommessa di Tarantelli era quella di un neokeynesiano di ferro.
Ed era una scommessa coraggiosa.
Ma col decreto di san Valentino l’Italia si era divisa. La battaglia era stata feroce. Il PCI aveva chiamato alla mobilitazione contro il provvedimento governativo. Era stato indetto un referendum abrogativo per il giugno del 1985. Tarantelli si era speso a sostegno del comitato del NO, e proprio al comitato del NO si stava recando la mattina del 27 marzo 1985.
(Bettino Craxi da presidente del Consiglio non voleva accompagnare il referendum abrogativo della scala mobile ad un’azione di rooseveltismo domestico: plus ca change, plus ce la meme chose, ndr).
Non aveva fatto in tempo a votare, l’avevano ammazzato prima…”.

Ogni volta che tento di afferrare il deficit spending, mi scappa.
Federico Caffè ci lasciò la pelle, nell’illusione che ragione e realtà siano categorie distinte e separate – mentre la ragione fa parte della realtà, come ha già osservato George Soros.
La spesa in disavanzo è parte della realtà, che ingloba il cogito ergo sum, anche se è difficile accettarlo.
Limitandosi alla superficie, resta il fatto che il deficit spending è etiologicamente collegato al business, nella ripulsa del collettivismo e nell’inedita affermazione versus il catto-comunismo del principio della meritocrazia: su questo punto ci sarà l’allontanamento dello stesso Federico Caffè, poi misteriosamente scomparso nel 1987, da Ezio Tarantelli.
Il professor Tarantelli, che non risparmiava se stesso e si nutriva di una Weltanschauung più anglosassone che italiana, osservava nell’“intervista testamento” di Andrea Valentini sullo sfondo del cosiddetto “decreto san Valentino” “Il neocorporativismo decentrato” quanto segue, nel 1984.
E’ morto per questo manifesto: “… Io credo che noi abbiamo bisogno da un lato di predeterminare l’inflazione in un modello neocorporativo nel quale le parti sociali acquistino via via più peso e più rilevanza e in cui lo Stato intervenga sia come imprenditore sia a livello di scambio politico. Modello che naturalmente non implica la conclusione attraverso “diktat” dell’esecutivo a patto che si realizzino certe condizioni ambientali e che la politica dei redditi sia intesa nel senso corretto. Insisto in proposito che il governatore della Banca d’Italia ha indicato anche l’esigenza di un aumento della pressione fiscale, ma attraverso la lotta all’evasione e all’erosione, non tramite l’inasprimento dei tributi per coloro che già pagano.
Ma tutta la parte centralizzata del modello, il confronto relativo alla predeterminazione dell’inflazione, non può essere considerato sufficiente, così come la discesa dell’inflazione non è sufficiente al ripristino di condizioni di efficienza e di equità sociale. Occorre dare spazio a una trattativa decentrata, fondata sul ruolo dei consigli di fabbrica, in aeree di problemi che sono di diretta pertinenza del sindacato di azienda; perché NON E’ PENSABILE CHE SIA COMPITO DI QUEST’ULTIMO ANDARE A PALAZZO CHIGI A DISCUTERE IL TASSO DI INFLAZIONE PROGRAMMATO, COSì COME NON E’ PENSABILE CHE SIA FISSATO DALL’UOMO DELLA STRADA IL CONTROLLO DELLA MANOVRA SUL TASSO DI CAMBIO (non siamo tutti uguali diversamente da come riteneva Mario Moretti, ndr).

Viceversa, però, non si può sottrarre alle rappresentanze aziendali il compito di discutere di temi importanti come i ritmi di lavoro, la qualità della vita in fabbrica, la mobilità del lavoro, la struttura salariale, le gerarchie e i sentieri di mobilità all’interno dell’azienda, le assunzioni e i licenziamenti; ma anche, per riallacciarci ai temi precedenti, la riorganizzazione del lavoro necessaria per ottenere gli spazi di flessibilità ritenuti ottimali. E, naturalmente, per tutti questi argomenti, quando parlo di sindacato a livello di azienda, è implicito che mi riferisca anche all’azienda stessa come interlocutore contrattuale indispensabile.

“Ultimamente, anche in relazione agli sviluppi concreti del negoziato sindacale, sono state sollevate obiezioni di un certo peso in riferimento alla capacità di tutti i partecipanti di tenere presenti gli obiettivi di carattere generale, come appunto il contenimento dell’inflazione e della spesa pubblica. E’ stato rilevato, cioè, il pericolo che alcune disfunzioni del negoziato stesso siano state “pagate” attraverso un appesantimento dei conti dello Stato o, per usare un’espressione tra il serio e il faceto, attraverso una “fiscalizzazione degli oneri contrattuali”.
Lei ritiene che evitare distorsioni di questo tipo dipenda solo dalla responsabilità delle parti (naturalmente governo compreso) o che ci sia qualcosa da modificare anche nella dinamica e nell’assetto del negoziato? E qual è la sua opinione circa il pericolo di “espropriazione” delle prerogative del Parlamento, pure segnalato?”

Premetto che non voglio entrare nell’aspetto strettamente giuridico della questione, ma credo che una soluzione potrebbe essere prefigurata in questi termini: il Parlamento, al momento di varare la legge finanziaria e di bilancio, dovrebbe prevedere un “intervallo di confidenza”, uno spazio all’interno del quale il governo potrebbe essere autorizzato a portare denaro pubblico sul tavolo della trattativa per ottenere determinati obiettivi.
Il sistema potrebbe valere per più aspetti, ad esempio non solo per la spesa, ma anche per le entrate fiscali, e dovrebbe essere tale da garantire spazi di flessibilità ma con limiti categorici, nel senso di proibire tassativamente l’oscillazione al di là dei tetti fissati. Credo che il Parlamento recupererebbe così la sua autorità e le sue prerogative, che sono state effettivamente intaccate, ma da molto tempo prima del decreto.

“Tornerei al tema dei rapporti fra le parti per sottolineare un aspetto molto importante dell’analisi
che lei compie relativamente alla possibile evoluzione del tempo e dell’organizzazione del lavoro.

Un suo scritto dedicato a questi temi si concludeva con una frase alla quale forse non è stata prestata la dovuta attenzione: “la deregolazione dell’organizzazione del lavoro implica una generalizzazione del part-time senza aumenti di costo per le imprese; una generalizzazione che è destinata a ridurre nel tempo la divisione storica fra lavoro dipendente e lavoro indipendente”. Lei crede che nel sindacato e nell’impresa ci sia una consapevolezza sufficiente di questa tendenza, che è connessa anche a profonde modificazioni sociali? (Tarantelli aveva previsto lo “smart working”, che oggi è la frontiera del XXI secolo nel mondo ridisegnato dalla pandemia, ndr)”

“Mi fa piacere tornare su questo aspetto perché esso è stato effettivamente sottovalutato e io credo che continuare a farlo potrebbe produrre delle sorprese amare sia per il sindacato sia per gli imprenditori. Qui l’asse del ragionamento va spostato sul medio periodo e forse il ragionamento stesso va condotto anche con qualche osservazione che può sembrare provocatoria; ma è una provocazione intellettuale che secondo me non può che essere utile.
Noi stiamo andando verso un tipo di forza-lavoro che si comporterà sempre più in base a criteri di duttilità e di mobilità; non è scritto da nessuna parte, o meglio non è certamente una legge di natura che gli operati e gli impiegati debbano lavorare otto ore al giorno per cinque giorni la settimana, per quattro settimane al mese e per undici mesi l’anno, e sempre nello stesso posto.
Noi dobbiamo al contrario prevedere un panorama in cui quello che oggi consideriamo il lavoratore dipendente standard lavorerà per tre ore, ad esempio alla Olivetti per altre tre ore presso un’altra azienda della stessa città e poi magari avrà (se è un impiegato) del lavoro di consulenza o simile da svolgere a casa per una altra azienda ancora; ed è chiaro che anche lo sviluppo delle nuove tecnologie faciliterà questo tipo di evoluzione. Magari la moglie di questo lavoratore si comporterà allo stesso modo, e finiranno con l’assomigliare (altra provocazione!) ad un dentista, nel senso che passeranno da un lavoro all’altro con la facilità con cui il dentista cambia i pazienti.
Un’evoluzione di questo tipo pone dei problemi formidabili al sindacato, che dovrà rappresentare e organizzare una forza-lavoro per la quale non esiste più il cosiddetto mercato del lavoro interno, il “posto” di lavoro immutabile, dal quale si esce soltanto per andare in pensione; ma pone anche problemi enormi di riorganizzazione interna alle imprese, molti dei cui dipendenti – come già oggi siamo largamente in grado di prevedere – non si recheranno nemmeno più fisicamente sul posto di lavoro, essendo in grado di svolgere agevolmente da casa la propria attività.

E aggiungo ancora che certo tipo di innovazione tecnologica privilegia decisamente la piccola dimensione, lo small is beautiful, ed è quindi destinata a mettere in crisi una certa egemonia della grande impresa anche da questo punto di vista.

Ma il problema di fondo, più in generale, è esattamente quello di cui parlavo all’inizio, cioè lo sgretolamento progressivo della distinzione storica fra lavoro dipendente e lavoro indipendente. Coloro che oggi consideriamo così diversi, anche socialmente, perché rientrano nell’una o nell’altra di tali categorie, avvicineranno in realtà i propri modelli di vita, di organizzazione del tempo nell’arco della giornata e di periodi più lunghi.”

“Questo processo influirà anche su un altro punto di riferimento tradizionale delle relazioni industriali e cioè sul sistema di sicurezza sociale, su questa forma tutta particolare di Welfare che si è realizzata in Italia?”

“Inevitabilmente penso che andremo verso la recisione del cordone ombelicale, se è consentita questa similitudine, che ha tenuto sempre stretto il “pargolo” lavoratore italiano al governo; il quale, a sua volta, ha alimentato questo rapporto spendendo anche quando non avrebbe avuto più nulla
da spendere”.

“Ora occorre puntare a un sistema che garantisca uno zoccolo di prestazioni minime decenti a tutti, sul piano sanitario e previdenziale; chi vorrà più della decenza dovrà pagarlo privatamente. E con lui c’è un altro interesse comune di imprenditori e sindacati nello scambio politico, in cui essi debbono chiedere allo Stato non di spendere di più, ma di spendere meglio, di razionalizzare per spendere meno.

Ma vorrei dire che c’è anche un altro aspetto importante sul quale occorre riflettere. Noi abbiamo avuto, nel corso degli anni ’60, a partire dalla protesta di Berkeley, un movimento giovanile che protestava sì contro le clientele della spesa pubblica, ma anche contro un certo tipo di gerarchia in fabbrica, contro il mantenimento di torri d’avorio ingiustificate. La protesta di intere generazioni di giovani è stata in un certo senso imbavagliata dallo spettro della disoccupazione, che aumenta progressivamente da quegli anni, ma che ha subito vere impennate in particolare con gli shocks petroliferi. Non credo, tuttavia, che ci si possa illudere: quella protesta è solo sopita, ma quando la disoccupazione allenterà la sua morsa essa tornerà prepotentemente alla ribalta, di pari passo con il passaggio dalla cultura del posto di lavoro a quella del lavoro tout court.
Se noi non manterremo una valvola di sicurezza, in azienda e nei luoghi di lavoro, tutta la conflittualità sociale si ripresenterà con effetti dirompenti sul sistema. Ecco un altro passaggio cruciale per le relazioni industriali nel futuro”.

Parole nostradamusiane, quelle del professor Tarantelli.
Ha scritto Marco Boleo nel saggio “Il pensiero” di Ezio Tarantelli a vent’anni dalla scomparsa”, e il diavolo è nei dettagli:

“Gli economisti di oggi direbbero che l’inflazione italiana tra gli anni ’70 ed ’80 del secolo scorso aveva una caratteristica inerziale, ovvero, tendeva ad autogenerarsi a causa del particolare meccanismo di scala mobile adottato nel nostro Paese. E per questo Tarantelli escogitò di predeterminare gli scatti di scala mobile. Le autorità di politica economica dovevano fissare un certo tasso d’inflazione e in base a questo calcolare i punti che sarebbero scattati. Se a fine anno l’inflazione effettiva sarebbe risultata maggiore i lavoratori avrebbero avuto un conguaglio. In questo modo si evitava che il tasso d’inflazione passato condizionasse quello presente e futuro. Il governo Craxi recepì in parte la proposta Tarantelli proponendo un accordo sulla scala mobile (taglio di quattro punti e predeterminazione) e controllo di prezzi e tariffe, trasformato in decreto il 14 febbraio 1984 con un taglio di due punti. La CISL, LA UIL e la componente socialista della CGIL furono d’accordo; invece, la parte comunista di quest’ultima promosse un referendum per abrogare il decreto, ma venne sconfitta nel referendum del giugno 1985.

Ezio Tarantelli pagò con la vita l’aver fornito la matrice teorica ai ricordati accordi di San Valentino. Ma le sue idee sono sopravvissute alla sua morte ed hanno contribuito a far ottenere all’economia italiana una riduzione dell’inflazione e della disoccupazione. Mi sarebbe piaciuto oggi ascoltare e leggere le considerazioni che Ezio Tarantelli avrebbe fatto sui problemi dell’economia italiana, ma qualcuno ci ha privati della sua curiosità e della sua intelligenza.”

Bettino Craxi uccise il New Deal italiano e le Brigate Rosse hanno ucciso Ezio Tarantelli.
Faccio un’osservazione lapalissiana: senza il business, una comunità sociale non progredisce, i suoi membri non possono autoemanciparsi con successo.
La vera scommessa è di capire se in futuro l’Italia si avvicinerà al modello anglosassone, o se sprofonderà nel Terzo Mondo.
In Inghilterra il successo è considerato un fatto positivo, in Italia no.
Tuttavia perché si verifichi un cambiamento reale dello status quo occorre il senso delle èlite, e tra
le pareti domestiche l’establishment non esiste. No, esiste il clan Bisignani, la P2, la P3, la P4 che è la negazione dell’autos nomos.
Il successo è il deficit spending, anche se Mario Draghi non lo capisce.

di Alexander Bush

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Alexander Bush
Alexander Bush, classe '88, nutre da sempre una passione per la politica e l’economia legata al giornalismo d’inchiesta. Ha realizzato diversi documentari presentati a Palazzo Cubani, tra questi “Monte Draghi di Siena” e “L’utilizzatore finale del Ponte dei Frati Neri”, riscuotendo grande interesse di pubblico. Si definisce un liberale arrabbiato e appassionato in economia prima ancora che in politica. Bush ha pubblicato un atto d’accusa contro la Procura di Palermo che ha fatto processare Marcello Dell’Utri e sul quale è tuttora aperta la possibilità del processo di revisione: “Romanzo criminale contro Marcello Dell’Utri. Più perseguitato di Enzo Tortora”.

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