L’Iran riformista é un inganno

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Evviva, esultano i liberal, il candidato “moderato” Hassan Rohani ha vinto le elezioni presidenziali in Iran. Evviva evviva, la società civile si è mobilitata, comprese le giovani col velo parziale e il trucco vistoso, sconvolgendo i piani degli integralisti! Subito l’amministrazione Obama e molti commentatori sia progressisti che conservatori ne hanno preso spunto per ribadire la necessità di “tendere la mano” a Bagdad. Il motivo è che, all’ombra del “regime autoritario” iraniano, si agiterebbe una società civile critica e modernizzante, in grado di sfruttare gli spazi di libertà concessi dalla Costituzione e concentrare i suoi voti sui candidati “riformisti”. Sarebbero loro i futuri interlocutori delle democrazie.
Tutti questi esercizi di realismo politico tengono conto naturalmente del peso militare – e nucleare ormai – rappresentato dalla Persia, del suo ruolo politico di potenza regionale, del petrolio che possiede e dell’influenza globale che esercita sul mondo musulmano sciita, dal Golfo Arabico alla Siria, dal Libano all’Afghanistan.
C’è solo un piccolo “ma” in questo ragionamento, una minuscola falla, capace però di affondare l’intero transatlantico del ragionamento.
Il regime iraniano non è “autoritario”, bensì “totalitario”. E’ cioè una variante dei due altri grandi totalitarismi novecenteschi, il comunista e il nazionalsocialista.
Che significa? Anzitutto questo: non è possibile una politica di “appeasement”, ovvero di trattativa amichevole, con Ali Khamenei, successore di Khomeini: non più di quanto sarebbe stato possibile attuarla con Stalin o Hitler. Infatti le società totalitarie, purtroppo, non sono “trattabili” né dall’esterno né dall’interno. Esse nascono e prosperano sotto il segno di “polemos”, della guerra: ideologica, militare, culturale, economica, anzi tutte queste cose insieme, che acquisiscono significato precisamente dalla loro natura “bellica”. Un totalitarismo non può arrestare o invertire il suo processo espansivo, soltanto di volta in volta interromperlo tatticamente, per poi riavviarlo. Nel momento in cui un totalitarismo scendesse a patti con la sua opposizione interna, o con l’avversario esterno, innescherebbe un processo di decadenza e autodistruzione. Questo, i politici al potere da Bagdad a Pechino, da Pyongyang all’Avana, lo sanno benissimo, Perciò misurano col bilancino le proprie occasionali concessioni, ben decisi a togliere con una mano quel che fingono di concedere con l’altra.
I risultati delle elezioni iraniane, pur dimostrando l’esistenza di una vasta opposizione al potere totalitario, non hanno la possibilità di scalfirlo realmente, né tanto meno di rovesciarlo: e infatti il futuro governo “moderato” di Rohani dovrà pur sempre rispondere al vero potere, quello islamista.
La lezione del nucleare iraniano – uno sberleffo tattico sotto gli occhi imbelli dell’Occidente e quelli complici della Russia – dovrebbe essere sufficiente per non cadere nella trappola della speranza, della trattativa, dell’appeasement pieno di desideri. Con i regimi totalitari si tratta solo da posizioni di forza.

Gaston Beuk

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Gaston Beuk
Gaston Beuk è lo pseudonimo di un noto giornalista e scrittore dalmata. Si definisce liberale in economia, conservatore nei valori, riformista nel metodo, democratico nei rapporti fra cittadino e politica, federalista nella concezione dello Stato e libertario dal punto di vista dei diritti individuali.

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