Parafrasando Gadda si potrebbe chiamare così la vicenda dell’Ilva.
Ilva che era non solo la più grande acciaieria d’Europa, ma anche una delle migliori.
Dopo tutta una serie di avvenimenti strani: vendita ai privati; spossessamento dei Riva che nel frattempo avevano inquinato (né più né meno di quanto aveva fatto l’Iri sino a quel momento); nuova vendita ai franco-indiani della Jindal (a cui ; sequestri da parte della magistratura; trattativa infinita con gli azeri della Baku steel (trattativa che sembrava un po’ alla Peppino e Totò con una ditta che produce 800.000 tonnellate che compra una ditta di 8 milioni di tonnellate…); richieste da parte di enti locali alla ricerca del consenso facile (no agli altoforni, no alla nave gasiera in rada) si è arrivati al dunque.
La produzione è crollata, si perdono 40/50 milioni al mese, il mercato si è rivolto ad altri fornitori, si prevedono spese faraoniche (almeno 4 miliardi) per la riduzione dell’inquinamento (spese a carico dello Stato) e, particolare significativo, nessun produttore si è fatto avanti con offerte: solo fondi speculativi o aziende interessate a farne uno spezzatino.
Lo specchio di un’azienda ormai in agonia e di una politica industriale capace solo di intervenire per elargire sussidi o cassa integrazione quando la situazione si fa drammatica.
Per decenni non c’è mai stata programmazione, interesse autentico per l’industria nazionale e questi sono i risultati.
In Germania, ad esempio, nello stesso comparto si è deciso di chiudere diverse acciaierie nella Rhur creando parchi verdi e di incentivare contemporaneamente l’acquisto della ThyssenKrupp da parte di Jindal (la stessa che ha rinunciato a Taranto).
Un’ulteriore prova di come una programmazione alungo termine e attentaagli interessi delle aziendece non agli interessi elettorali sia necessaria per no nretrocederee sempre più ndell’ambito delle grandi nazioni industriali
di Angelo Gazzaniga


