I cinque anni della rivoluzione egiziana

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Cosa rimane della rivoluzione egiziana dopo cinque anni? Poco o niente

Cosa resta oggi, allo scoccare del suo quinto anniversario, della rivoluzione egiziana del 25 gennaio 2011? Quali lasciti, quale eredità?
A giudicare dallo scenario politico attuale, si direbbe che quei giorni gloriosi non abbiano lasciato traccia: che la controrivoluzione abbia vinto e le speranze di democratizzazione siano rimaste lettera morta. A parte quella nutrita frangia di popolazione che ancora si riconosce nella rivoluzione, la politica è infatti sotto il pieno controllo dei militari e dei residuati dell’antico regime di Mubarak. E a poco vale l’hashtag – divenuto virale – che esorta a non dimenticare il 2011 con un perentorio “Ho-partecipato-alla-rivoluzione-del-25-gennaio”. I giovani laici di Tahrir, di fatto, sono estromessi da ogni partecipazione politica ai destini dell’Egitto e il paese è fermamente nelle mani del regime militare.
Le recenti elezioni parlamentari hanno confermato che la configurazione essenziale del potere legislativo non comprende d’altronde nessuna delle forze democratiche sorte dalla sollevazione del 2011. A costoro rimane parte irrilevante delle piattaforme telematiche – come Bawabat Yanair, El-Bidaia o Masr El Arabia – e nessuno spazio d’espressione nemmeno all’interno della stampa più progressista. La censura ha paralizzato ogni azione critica contro il governo e decine di case editrici e istituzioni culturali sono state chiuse con il pretesto che non disponevano dei permessi legali per operare.
Emblematico di questo clima di intimidazione è la permanenza del cosiddetto Qanun el-tadhahur, la Legge sulle Manifestazioni, attraverso la quale centinaia di giovani rivoluzionari sono stati in questi anni consegnati alla patrie galere – primo fra tutti il leader del movimento 6 Aprile, Ahmad Maher – per evitare ogni possibile spinta insurrezionale. E ancor più eloquente il gesto che il noto parlamentare Murtada Mansour ha compiuto in occasione del giuramento d’inaugurazione del Parlamento: si è rifiutato di pronunciare le parole che ricordavano il dovere della neo-eletta camera di operare “nel nome del popolo che ha compiuto la rivoluzione del 2011”. Ennesima prova che una vasta schiera di politici arriva a negare che i moti di cinque anni fa possano assumere il nome di “rivoluzione”.
La più drammatica espressione dello spirito controrivoluzionario è però nel totale allineamento dei media pubblici e privati alle politiche di El-Sisi. Epurazioni silenziose vengono compiute nei confronti di chiunque sollevi obiezioni o critiche verso il regime e il suo Presidente. E e non è raro che illustri ospiti vengano tacitati o cacciati da trasmissioni televisive solo per aver contestato il dogma dell’intoccabilità del raìs.
In questo quadro è chiaro che – malgrado la maggior parte della popolazione riconosca in El-Sisi azioni di governo di alto tenore – il paese che celebra oggi la rivoluzione è profondamente tradito nelle sue aspettative. E se è vero che l’interregno di Mohammad Morsi ha chiarito una volta per tutte che una governance islamista, in Egitto, non può essere tollerata, è anche vero che la stabilità garantita da El-Sisi non equivale in nessun modo né alla democratizzazione né tantomeno all’accoglimento della istanze rivoluzionarie espresse nel 2011.
Ci troviamo dunque di fronte a un paese pervaso da una profonda contraddizione: da una parte un’idolatria verso il Presidente che non ha precedenti dai tempi di Nasser, dall’altra un popolo rivoluzionario che quello stesso Presidente richiama giorno dopo giorno al silenzio con manovre di strisciante antidemocraticità.
Significa questo che l’Egitto ha rinunciato al suo afflato rivoluzionario? O peggio, che in questo anniversario celebri involontariamente la propria morte? È più verosimile il contrario: che il 25 gennaio continuerà a rimanere un appello irrefragabile, e che la mutazione antropologica che ha investito gli egiziani cinque anni fa possa portare i propri frutti fra qualche anno o decennio anche se l’attualità sembra non presentare che ombre. Laddove infatti El-Sisi dovesse tradire troppole istanze della rivoluzione, qualcuno è pronto a scommettere che questa si presenterà in una nuova forma, con una nuova ondata di massa, appena le condizioni lo permetteranno. Quanto questo “troppo” sia troppo per il popolo è difficile da calcolare. Ma dopo il 25 gennaio 2011 passare il segno – El-Sisi lo sa perfettamente – è assai pericoloso.

Marco Alloni

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