Gli effetti perversi della ‘vulgata antifascista’

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Un antifascismo tanto più inutile quanto più si allontana il fascismo

L’antifascismo, ha scritto Marcello Veneziani, «fu cosa seria e nobile ai tempi del fascismo, quando c’era un regime imperante e ci voleva coraggio e onestà per sottrarti alla dittatura, ci voleva senso dell’onore per rifiutare di allinearti e giurare fedeltà. Ma questo antifascismo postumo e posticcio, usato da posizioni di potere, in assenza ormai secolare del fascismo, ormai morto e sepolto; questo antifascismo diventato un mestiere travestito da missione, una speculazione mascherata da rieducazione, è roba da vigliacchi e da mascalzoni». Sono parole che possono dispiacere, se non indignare, ma è indubitabile che oggi l’antifascismo eretto a pedagogia di Stato sembra registrare una recrudescenza tanto più paradossale quanto più si allontana nel tempo il fantasma del regime e della sua tristissima, esecranda, appendice, la Repubblica Sociale Italiana.
Si sente ripetere che la scuola, i mezzi di informazione, i giornali non fanno abbastanza per far conoscere alle nuove generazioni che cosa fu la dittatura italiana e si converte il dovere di non dimenticare in un martellamento continuo in cui i ‘giorni della memoria’ diventano, settimane, mesate se non annate. Si invitano i reduci della Resistenza o gli scampati ai Lager a entrare nelle aule, a far conoscere le loro sventure e si pensa di attivare, in tal modo, una coscienza civica, una personalità vaccinata contro ogni seduzione e tentazione ‘fascista’ (per quel che può ormai significare un termine divenuto sinonimo di violenza e di sopraffazione).
Con il profondo rispetto che si deve alla testimonianza delle vittime bisogna, però, dire forte e chiaro, che testimoniare non significa spiegare gli eventi storici ma solo raccontare le disgrazie che sono piovute addosso a loro e alle loro famiglie. Può essere molto importante e istruttivo ma la conoscenza storica è altra cosa.
Ma è poi così utile, per la formazione di una matura civic culture, sottoporre adolescenti e giovani a continue iniezioni di buonismo istituzionale? Temo che questa idea sia uno dei retaggi più ‘immarcescibili’ del fascismo. C’è una differenza abissale tra le lezioni di mistica fascista e le lezioni di mistica antifascista ma lo ‘stile’ di comunicazione è lo stesso: mostrare fulgidi esempi di dedizione al ‘bene comune’, denunciare quanti perseguono solo i loro interessi egoistici, mostrare come i valori, iscritti nel regime politico, siano i più alti e i più nobili, tener sempre accesa la fiamma dell’odio contro i ‘malvagi’, contro le mele marce della comunità politica.
Questa ‘nazionalizzazione delle masse’ – con le sue liturgie, con i suoi stanchi riti, il suo sabato fascista — non riuscì, allora, a fascistizzare le giovani generazioni – nelle quali il duce, deluso dagli italiani del suo tempo, riponeva le sue speranze; non riesce, oggi, a legare i giovani alla Repubblica, specialmente in un periodo, come l’attuale, in cui la classe dirigente dà prove così poco edificanti, il debito pubblico è alle stelle e l’economia si rimette in moto (così sembra) tra mille difficoltà, il problema della disoccupazione giovanile rimane irrisolto e tutta la società civile pare aver perso la bussola, dilaniata da esigenze materiali e spirituali irreconciliabili. Et pour cause! A una certa età, infatti, si guarda il mondo degli adulti con diffidenza e con fastidio: è un mondo che uno si ritrova già bell’e fatto, con le sue icone, con la sua retorica, con i suoi codici morali e politici. Una minoranza di Garroni – per citare il personaggio ‘positivo’ del libro Cuore- assiste alle prediche religiose o laiche con compunzione, una stragrande maggioranza assume un’aria scettica, e una minoranza di Franti è tentata di irridere e di scalpitare, qualunque sia la predica e chiunque si trovi sul pulpito.
Capitava anche durante il fascismo, dove i Garroni erano pochi e gli altri ‘ci credevano’ e non ‘ci credevano’ e spesso non rinunciavano a tradurre in scherzi pesanti la loro ‘miscredenza’ (A Genova i goliardi del GUF portarono in trionfo sulle spalle il segretario Achille Starace per poterlo punzecchiare con uno spillone: indossavano la camicia nera ma rimanevano ideologicamente atei).
In anni lontanissimi, nella mia cittadina del Basso Lazio, quando a scuola ci si voleva far commuovere per qualcosa che avesse a che vedere con la patria, ad esempio la sorte dei fratelli triestini, si otteneva solo il risultato di suscitare reazioni da ‘bastian contrario’. Se qualcuno ci avesse spiegato seriamente, alla luce della storia e della cultura di quelle terre, il dramma di Trieste e della Venezia Giulia invece di dirci solo che si trattava di popolazioni ‘italianissime’, che rischiavano di essere separate per sempre dalla madrepatria, forse avremmo considerato la questione con occhi diversi. I valori ‘santificati’ e messi sugli altari rischiano di indurre atteggiamenti scettici: calati nella loro concreta realtà socialepossono attivare sentimenti duraturi di lealtà.
In realtà, santificazione e demonizzazione stanno sullo stesso piano. Se si dice in classe che il fascismo non ha fatto nulla di buono, che è stato una dittatura bieca e persecutoria, fondata sulla violenza, e finita naturaliter nel razzismo, ci potranno essere alunni disposti a recepire il messaggio e a fremere di indignazione alla vista dei tanti segni lasciati nelle nostre città, dalle camicie nere, ma molti altri assisteranno alla predica con l’aria dei precettati, non vedranno l’ora che finisca la messa laica e, nel giro di qualche giorno (ad essere ottimisti), se ne saranno dimenticati.
Il guaio, però, sta nella minoranza alla quale ho fatto cenno: si può scommettere che durante le prediche buoniste della democrazia si costituirà un gruppo di balordi che, per insofferenza alle verità ufficiali, per spirito di contraddizione, per mancanza di autentica cultura, per quell’istinto distruttivo che alberga nel fondo di ogni essere umano e che in alcuni non è contenuto dall’educazione familiare o dalle buone maniere, sarà portato a costruire la propria identità sul rifiuto dell’esistente ovvero di quelle istituzioni che vorrebbero irreggimentarlo e modellarlo sullo stampo repubblicano.
Non è escluso che i pochi componenti di quel gruppo si associno ad altri, affittino qualche locale in qualche squallida periferia e lo tappezzino di simboli, di emblemi, di ritratti di uomini ormai defunti da settant’anni, di cui ignorano quasi tutto ma che fanno, nondimeno, oggetto di venerazione in quanto ritenuti dalla Repubblica antifascista le espressioni del Male del Secolo. Ma non si fermano qua. Prima o poi, i balordi organizzano cortei, bruciano in effigie eroi e patrioti della democrazia, piazzano qualche ordigno esplosivo davanti alla sede dei partiti più detestati. E la reazione non tarderà: con le sfilate dell’Anpi, la denuncia del fascismo (?) che avanza, la richiesta di pene severissime contro chi fa apologia di reato, le solidarietà espresse da quasi tutto lo schieramento politico a quanti hanno subito dei danni fisici e morali a causa dei tafferugli scoppiati tra i sovversivi e le forze dell’ordine.
La retorica buonista e ossessiva genera i (presunti) fascisti e i fascisti diventano la riprova che non siamo ancora ‘guariti’ dalla ferita che sanguina dal 1922, che occorrono altre dosi massicce di antifascismo e di resistenzialismo, che occorre incrementare corsi di lezioni sulle leggi razziali, sull’asse Roma/Berlino, dare più fondi agli Istituti Storici della Resistenza, e, perché no?, fare dell’ANPI il censore istituzionale della vita pubblica, incaricandola, semmai, di organizzare il sabato antifascista: è il circolo vizioso di quella che è stata chiamata l’«l’ideologia italiana», fondata sul presupposto che il miglior governo è il governo-setaccio, quello che s’incarica di separare il grano dal loglio, ogni giorno, ogni ora, anche la domenica.
Ma allora cosa deve fare una democrazia matura? si dirà. E’ relativamente semplice: tornare seriamente alla storia: mettere da parte il catechismo—anche quando trasmette esempi di bontà—e insegnare, invece della cantilena catechistica, che cos’è stato il cristianesimo, la sua genesi, la sua natura la sua funzione civile.
Quando all’Università tenevo corsi sull’ideologia fascista, feci un’esperienza che mi ha in qualche modo segnato. Esponendo ai miei allievi le ragioni e i torti delle parti in conflitto nell’Italia del primo dopoguerra, riuscii a demolire le certezze sia degli antifascisti che dei ‘fascisti’. Alla fine tutti (o quasi) convergevano sulla famosa frase di Churchill—che la democrazia è la peggior forma di governo ad eccezione di tutte le altre—ma ‘i dannati della Costituzione’ erano come sollevati dal riconoscimento delle ragioni che avevano indotto i loro eroi a marciare su Roma e gli altri mi erano grati per averli fatti riflettere sui madornali errori commessi dai loro nonni democratici, progressisti, socialisti. Sui sentieri della conoscenza—nutrita dalla grande storiografia revisionistica dei Renzo De Felice, dei François Furet, dei Domenico Settembrini—sbollivano le passioni ideologiche e ne usciva rafforzata la democrazia liberale. Non mi erano certo grati i ‘seminatori di odio’, quelli del «finché c’è guerra (civile), c’è speranza (di riconoscimenti e di gratificazioni)», per i quali ero un fascista sotto mentite spoglie liberali ma non era certo la loro opinione a non farmi dormire sonni tranquilli.

di Dino Cofrancesco

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Dino Cofrencesco
Dino Cofrancesco è uno dei più importanti intellettuali italiani nel campo della storia delle dottrine politiche e della filosofia. E' autore di innumerevoli saggi e tra i fondatori dei Comitati per le Libertà. Allergico all'ideologia dell'impegno, agli "intellettuali militanti", ai profeti e ai salvatori del mondo, ai mistici dell'antifascismo e dell'anticomunismo, ha sempre visto nel "lavoro intellettuale" una professione come un'altra, da esercitarsi con umiltà e, nella misura del possibile, "senza prendere partito". Per questo continua, oggi più che mai, a ritenere Raymond Aron, Isaiah Berlin e Max Weber gli autori più formativi del '900; per questo, al tempo dell'Intervista sul fascismo di Renzo De Felice, si schierò, senza esitazione, dalla parte della storiografia revisionista, senza timore di venir accusato di filofascismo.

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