Un sano ateismo per il mondo islamico

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“Il faut être absolument moderne” diceva Arthur Rimbaud. È un imperativo che vale a ogni latitudine e per ogni tempo. Ma è sull’avverbio absolument che bisogna spendere due parole. Se su inizio, fine e senso della modernità siamo più o meno d’accordo, sull’assolutamente moderno le nostre posizioni vacillano. Non ci serve né evocare l’inizio della modernità con Cervantes (secondo Milan Kundera) né la sua fine con Vattimo né il suo senso con i corifei dell’equivalenza fra modernità e sviluppo. Troppo facile essere simplement moderni, bisogna esserlo absolument. E per essere assolutamente moderni si deve assumere, senza attenuanti, la lezione di Democrazia! di Paolo Flores d’Arcais, il cui punto esclamativo equivale, né più né meno, all’absolument rimbaudiano. Ovverossia, se vogliamo circoscrivere il campo alla politica, cioè alla democrazia, “prendere assolutamente sul serio” sia l’una che l’altra.
Absolument moderno significa, nelle condizioni attuali, fare terra bruciata di ogni pretesa di legittimazione extra omnes. E visto che il responsabile delle celebrazioni liturgiche pontificie a cui questa nota esclamazione viene assegnata non è in definitiva, in tale chiave di lettura, che il portavoce del pre-moderno, assolutamente moderno significa, in primo luogo, anti-apparato: sia questo ecclesiastico (in senso largo) sia esso più concretamente politico o statale.
Insomma, bando ai sacerdoti della verità, bando ai banditori dell’umano e del moderno in tutte le sue manifestazioni. Sia accolto, come absolument moderno, il dissidente e il ribelle.
E chi è costui se non il negatore? Chi è costui se non colui che rivendica la libertà di negare? Di quale migliore libertà si dovrebbe ammantare la modernità se non della libertà della negazione, della libertà di quel sovrano e incoercibile no! che presiede al presupposto di ogni costruzione: la decostruzione?
E chi incarna il volto disincantato della decostruzione critica e consapevole, della scienza nella sua etica popperiana della falsificabilità, della filosofia nella sua “transvalutazione di tutti i valori”, chi meglio dell’ateo?
Una democrazia “presa sul serio” è una democrazia in cui è liberamente ammesso il discorso anti-religioso, l’ateismo come pratica dell’intelligenza emancipata e il dileggio di ogni superstizione – a partire da quella canonizzata nella catechesi – come espressione di quel sense of humour che è l’eco della risata di Dio come assenza. E se ancora esistono sacche di oltranzismo magico (il Pifferaio magico diffonde la sua eco ipnotica dalle volte della Sistina) nel cosiddetto moderno Occidente, cosa dire del mondo islamico che ancora identifica il proprio “rinascimento” nella nahda oscurantista dei Fratelli musulmani? Qui dell’absolument moderne non solo si è fatto strame prima che potesse affacciarsi persino come ipotesi, ma vige ancora l’anatema al mero livello del discorso: parlare di ateismo, non solo professarsi atei, è haram (peccato, colpa, depravazione).
Ora, se vogliamo saltare a pié pari la speculazione, diciamolo nei termini che spettano al linguaggio dell’invettiva e del risentimento (o del ressentiment, per dirla con Nietzsche): nessuna democrazia può dirsi compiuta laddove non è lecito, non solo rivendicare in piena libertà il proprio ateismo, ma nemmeno comprenderlo nell’ordine delle opzioni di pensiero. Finché due tabù resteranno fuori dal dibattito culturale e politico d’un paese – il tabù dell’esercito e il tabù della fede – saremo alla perpetuazione della farsa della democrazia. Non già a una democrazia! esclamativa e indissolubile, ma a una democrazia? dubitativa e farisaica. E quindi è ora di rivendicare, a chiare lettere, che l’asse intorno al quale si costituisce la legittimazione civile e di cittadinanza di un uomo absolument moderno non è quello dell’appartenenza al credo dominante – sia esso quello prono all’autoritarismo militare o quello prostrato (letteralmente) al clero senza Clero dell’ortodossia religiosa degli ulamà – ma quello della fiera disappartenenza a qualsiasi establishment di potere.
Il dissidente: costui è, atei in testa, l’”avverbizzazione” assoluta della modernità. Non fosse, come ci insegna Michel Onfray, perché è al privilegio della ragionevolezza che costui si affida, contro ogni tentativo di sottomissione (guarda caso, in arabo… Islam) e il ripristino della status quo dell’autorità – e dell’autorismo – costituiti. E se non è della Ragione il secolo che inaugura la modernità filosofica e morale dell’Occidente, su quale capisaldo inalbera la sua bandiera il moderno delle cosiddette “democrazie” laiche post-rivoluzionarie arabe?
Scrivo queste righe non per gusto di cogitazione astratta, ma perché in Egitto lo scrittore Karam Saber è stato condannato a cinque anni di galera per aver dato alle stampe una raccolta di racconti dal titolo Ein Allah (Dov’è Dio), emblematicamente senza punto di domanda. Difensore laico della causa dei contadini del sud dell’Egitto (Said), costui ha avuto come suprema colpa quella di aver attentato al luogo comune secondo cui su Dio non ci si interroga, né tanto meno – come è accaduto in quel testo – se ne fa metafora. Cinque anni sono un oltraggio alla libertà di espressione e alla dignità sociale e intellettuale di un uomo. Negli stessi giorni è stato di nuovo oscurato il programma “anti-regime” Al Barnamig (Il Programma) dell’attore satirico Bassem Youssef (di cui abbiamo già parlato in queste pagine), è stato condannato a tre anni per aver manifestato pubblicamente il proprio pensiero di giustizia il poeta Omar Hazeq ed è stata emessa una fatwa (avviso giuridico) contro il film Nuh (Noè) con Rassel Crowe, ritenuto dagli ulamà di Al-Azhar oltraggioso dell’Islam e dei suoi profeti.
Prigione, oscuramento, oscurantismo. Finché militari e shuyukh avranno l’impudenza di mettere al bando il libero pensiero, e la società ogni forma di libera espressione di ateismo – non è il caso di Sabr, che mai ha osato professare forme nemmeno traslate di ateismo – la democrazia non avrà avuto cittadinanza né in Egitto né altrove nel mondo islamico. Sia detto con buona pace dei cultori dell’alterità à tout prix, ovvero a quanti ritengono che dalla modernità si possa espiantare il suo sacrosanto (laicamente) absolument e dalla democrazia il suo imprescindibile punto esclamativo.

Marco Alloni

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