Šostakovič o l’impossibilità di sopravvivere al destino

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Quale scelta di fronte a un potere totalitario

L’attesa sul pianerottolo, il rumore dell’ascensore che sale lentamente i piani, lo sbattere da basso di una porta, il silenzio della notte che inghiotte tutto: sono anche questi i “rumori del tempo” come li definisce Julian Barnes nel suo ultimo romanzo-biografia sul compositore russo Dmitrij Šostakovič (Il rumore del tempo, Einaudi 2016, titolo che richiama un testo in prosa del poeta Osip Mandel’stam che scriveva nel 1923: «tra me e la mia epoca si apre un abisso, un baratro riempito dal tempo che rumoreggia»).
Un racconto in tre atti, tre appuntamenti mancati con il proprio destino o, meglio, con il Potere che decide del destino degli altri. Il Potere, rigorosamente maiuscolo, è quello staliniano e dell’inizio della nuova fase, revisionista ante litteram, di Chruščёv che denuncia il periodo precedente come «culto della personalità». Come sopravvivere a questo Potere? Biologicamente o anche eticamente? Su questo auto-interrogativo di dipana il racconto che procede in modo sincopato, a frammenti di memoria seguiti da brevi considerazioni che illuminano il presente come aforismi. Ma la risposta è nella vita stessa di Dmitrij Šostakovič: un po’ per caso, un po’ per l’improbabile incrociarsi di circostanze favorevoli, l’appuntamento del compositore di San Pietroburgocon il suo destino,sul pianerottolo o negli uffici del KGB (la Grande casa a Leningrado), è sempre rimandato. Šostakovič sopravvive al Potere, ma molto meno a se stesso. Nell’ultimo atto del romanzo, siamo ormai verso la fine della vita, il compositore scopre che questa sopravvivenza è in realtà l’ultima e più terribile punizione o vendetta del Potere nei suo confronti: la condanna alla propria inadeguatezza morale, ai continui, inevitabili compromessi, perché «essere un vigliacco non è facile. Molto più facile essere un eroe. A un eroe basta mostrarsi coraggioso per un istante (…) Essere un vigliacco significa invece imbarcarsi in un’impresa che dura una vita. Mai un po’ di riposo».
E poi,dinanzi al Potere, qual è la scelta giusta? Opposizione, resistenza, mimetizzazione? Chi si era opposto aveva pagato un prezzo che non riguardava soltanto lui: «quegli eroi, quei martiri […] non morivano da soli. Molti intorno a loro sarebbero caduti in conseguenza del loro eroismo […]. D’altro canto, la logica ferrea del sistema funzionava anche in senso inverso. Salvando te stesso, potevi salvare chi ti stava intorno, le persone che amavi. E poiché avresti fatto qualsiasi cosa al mondo per salvare chi amavi, facevi qualsiasi cosa al mondo per salvare te stesso. E poiché la scelta non esisteva, non c’era neppure speranza di evitare l’abiezione morale». Conclude Barnes: «Anziché ucciderlo, gli avevano concesso di vivere e, così facendo, erano riusciti a ucciderlo. Ecco l’estrema irrefutabile ironia della sua vita: che lo avessero ucciso, permettendogli di vivere». Allora, paradossalmente, il vero eroe è chi ha la fortuna di uscire di scena al momento giusto, come il padre del compositore, Dmitrij Boleslavovič, «un uomo che non visse abbastanza a lungo per poter deludere gli altri né da lasciarsi deludere dalla vita».
Perché vivendo, è questa l’essenza tragica del totalitarismo, non si può rimanere innocenti, né sono possibili facili e illusorie auto-assoluzioni. Il male ha contaminato tutto, inquinando ogni purezza. Scrive Vasilji Grossman, lo scrittore russo contemporaneo di Šostakovič, in Tutto scorre: «molti avevano tradito, diffamato, rinnegato perché altrimenti non sopravvivevi, eri perduto; e tuttavia erano pur sempre degli uomini (…) Quegli uomini non volevano il male di nessuno, eppure avevano fatto del male durante tutta la loro vita».

di Antonio Buozzi

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