Regeni e Zaki e la verità di massa

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Diciamolo con velata ironia: l’Italia può vantare sull’Egitto, a cui da anni non perde occasione di impartire lezioni di buona governance, una superiorità civica indiscutibile: laddove in Egitto gli esponenti dei cosiddetti movimenti eversivi vengono trattati con giustizialismo persino estremo, lo Stato italiano ci fa viceversa affari. E laddove una mafia egiziana propriamente intesa non esiste, l’Italia ne può annoverare ben tre: mafia siciliana, camorra napoletana e ‘ndrangheta calabrese. Mafie a cui l’irrepresensibile Stato italiano – come ci ricordano tra gli altri La repubblica delle stragi impunite di Ferdinando Imposimato – ha sempre saputo fare da sponda con istituzioni più che rilevanti.
Quello italiano di saper convivere con l’espressione più radicale dell’eversione, la mafia – un emblematico titolo di Tahar Ben Jelloun recita Dove lo Stato non c’è – è un merito che nel mondo gli ha valso una reputazione contesa solo dalla fama di Pavarotti e della pizza. E nondimeno pare consentirgli di impartire lezioni di buona governance e diritti umani all’Egitto.
Ora, se l’ironia delle cose sollecita ben pochi a osservare lo specchio prima di osservare l’Egitto, i suoi abusi e le sue repressioni, due domande si impongono naturalmente. Quale meccanismo, quale determinazione mediatico-culturale, produce questo assordante paradosso per cui il meno titolato dei paesi a parlare di trasparenza lo fa a pié sospinto ogni volta che si tratta di Egitto? E laddove il principio della cosiddetta sovranità degli Stati è espressione del più limpido pensiero illuministico e democratico – diremmo occidentale – perché tale assunto di non ingerenza post-coloniale non viene quasi mai impugnato quando si tratta di Egitto?
L’impressione suscitata dalle due vicende di Giulio Regeni e Patrick Zaki – del tutto incomparabili eppure sistematicamente associate – è che una certa «cultura» mediatica si sia ormai specializzata nelle sentenze anticipate: trattandosi di Egitto, la verità è nella sua colpa. Un singolare idem sentire di massa che sancisce due assiomi altrettanto apodittici: che Regeni sia stato vittima di un assassinio di Stato e che Zaki vada protetto da quello stesso Stato.
Singolare, già. Perché nel primo caso la sentenza anticipata cancella di fatto dalle inquietudini di massa la cosiddetta «pista britannica», al punto che tutti sanno quanto sia cattivo Al Sisi ma nessuno o quasi che l’agenzia Oxford Analytica per cui lavorava Regeni annoverava tra i suoi quadri addestratori degli squadroni della morte in Sudamerica quali John Negroponte, implicato tra le altre cose nell’organizzazione del Watergate. E singolare perché l’assiomatica responsabilità della presidenza egiziana nell’omicidio di Regeni non appare passibile di discussione nemmeno in chi crede nella leggenda dell’autolesionismo del presidente egiziano: il quale in vista di affati miliardari con l’Eni avrebbe dato ordine (sic) di massacrare un inoffensivo ricercatore italiano.
Eppure questo sappiamo essere il pensiero dominante e a questo si accordano ormai anche i sassi.
Lo stesso pensiero dominante che incombe adesso intorno alla vicenda Zaki, il cui mandato d’arresto risale a settembre 2019 ma pare non sia stato reso noto al medesimo con la dovuta chiarezza (sic). Anche in questo caso è singolare osservare come un dichiarato militante e oppositore del regime egiziano possa avere facoltà di non sapere che, essendo l’Egitto nazione sensibilmente diversa dalla Svezia, non si può trascorrere le vacanze a Mansoura dopo aver inneggiato pubblicamente alla caduta di Al Sisi.
Unica risposta a questo dilemma è evidentemente che la cosiddetta «cultura» mediatica sta deliberando per farci credere alla propaganda anti-egiziana scambiandola per verità. E in questo modo lavora sul fronte delle anime docili per persuaderci che credere alla fuffa non sia tragicomico ma espressione di spirito civile. Al fine, evidentemente – come diversi avvertiti studiosi ripetono da anni – di screditare l’Egitto sul piano internazionale seguendo l’onda lunga della balcanizzazione del Medioriente suggerita dai piani di destabilizzazione indicati da Washington. Piano di balcanizzazione nel cui calderone, guarda caso, manca a oggi appunto solo l’Egitto.
Quanto al dilemma sulla sovranità degli Stati, inutile nascondersi dietro un dito: stando al verbo mediatico la sovranità che conta è quella occidentale. Il resto è – diciamo pure, razzisticamente – irrilevante.

Marco Alloni

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