Qui ci vuole una Costituente

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Dopo decenni di immobilismo e crisi strisciante, di rinvii e piccoli rimedi è venuto il momento di riformare l’Italia con una nuova Costituente

Il 2015 non nasce sotto i migliori auspici. Il sistema scricchiola. Secondo la Carta della Repubblica, “la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”: un principio fondamentale che non può essere aggirato o negato né per decreto né con leggi ordinarie, tanto più se varate da un Parlamento eletto sulla base di norme cassate dalla Corte Costituzionale con sentenza senza precedenti. Mentre ha in caldo la mutazione del corpo elettorale del Capo dello Stato (un cambio che richiede le procedure previste dall’art. 138 della Carta), fra tre settimane il Parlamento (eletto dal 60% degli aventi diritto al voto e con circa 160 membri migrati da un partito all’altro) e i rappresentanti di consigli regionali in gran parte screditati eleggeranno il nuovo Presidente, successore (va ricordato) non solo di Napolitano, ma, sia pure alla lontana, di Vittorio Emanuele II, padre della Patria, e di Luigi Einaudi, il Restauratore della dignità nazionale.
Che cosa accadrà? Come una chiromante in vestaglia e bigodini, l’abracadabra quirinalizio mescola e rimescola le carte più disparate e modella profili del presidente eligendo: sesso, appartenenza partitica, età, amicizie e protezioni interne e soprattutto internazionali, pratica di lingua e dialetti, fotogenicità, inflessione fonetica… Chiunque egli sia, il futuro Capo dello Stato non potrà risolvere da solo la crisi istituzionale in corso, che non investe questa o quella carica ma l’intero “sistema”, come del resto ha constatato Napolitano dinnanzi all’irrimediabile fallimento della “missione” assunta alla rielezione. Essa è il frutto tossico del mancato adeguamento della Costituzione ai mutamenti che si profilarono sin dagli Anni Settanta del secolo scorso. Strisciò per decenni, ora esplode. Già dall’elezione di Giovanni Leone fu chiaro che la necessità suprema (porro unum necessarium) dell’Italia erano la riforma dei vertici dello Stato (Repubblica presidenziale o, in alternativa, rafforzamento del potere del capo del governo, con elezione diretta), la revisione del bicameralismo perfetto e il riequilibrio tra ordine giudiziario e potere politico. Con la testa voltata all’indietro, anziché vedere le urgenze del Paese (disordine pubblico, inflazione,…), dal 1973 la repubblica celebrò il trentennale della guerra di liberazione: due anni di propaganda elettorale nel clima delirante dell’elezione dei Consigli scolastici, coronati con la straripante vittoria delle sinistre alle regionali del 1975, la sua avanzata alle politiche del 1976 e i governi di neo-CLN del biennio seguente. La crisi si prospettò in tutta la sua drammaticità proprio quando vennero varate le Regioni a statuto ordinario: un passo che in un Paese appena responsabile doveva coincidere con la contestuale abolizione di quelle, costosissime e voracissime, a statuto speciale, nate dall’ormai del tutto superata emergenza bellica e postbellica. L’indipendentismo siciliano (alimentato dagli USA) si era appagato con la conquista del potere reale da parte della mafia. La questione altoatesina (o sud-tirolese che dir si voglia) apparteneva al passato remoto. Col bicchiere per lei più vuoto che pieno del Trattato di Osimo, l’Italia era ormai in sicurezza anche sul fronte orientale. Per non parlare della Valle d’Aosta, antico circondario della provincia di Torino, elevata a regione addirittura autonoma sotto l’incalzare non tanto di rivendicazioni locali quanto delle arroganti e anacronistiche pretese annessionistiche da parte della Francia di De Gaulle: un’emergenza chiusa con il Trattato di pace (punitivo) del 10 febbraio 1947.
Dagli Anni Settanta a regalare un altro ventennio di inerzia alla dirigenza partitica italiana fu l’URSS di Breznev, che spazzò con i carri armati la “primavera di Praga” (1968) ed esasperò la tensione est-ovest puntando i missili contro l’Occidente: una minaccia che costrinse l’Italia a pagare il prezzo di bastione avanzato della NATO. Ne convennero due presidenti della Repubblica diversissimi, quali Sandro Pertini e Francesco Cossiga, che alzarono il livello delle difese contro la minaccia della Russia di allora, pericolosa come tutti i malati in fase preagonica. Il terrorismo “rosso” (l’unico con vere coperture internazionali e quindi insidioso: quello “nero” era funzionale a infantili progetti di eversione interna) a sua volta concorse a bloccare sul nascere la Grande Riforma proposta dal social-nazionale Bettino Craxi, ultimo progetto autenticamente italiano di riorganizzazione del sistema interno prima che l’Italia si rassegnasse a poteri soprannazionali (Unione Europea, Fondo Monetario Internazionale, Banca Centrale Europea), mani e piedi legati verso l’estero e occhi bendati all’interno.
L’abdicazione dello Stato venne festeggiata all’inizio degli Anni Novanta con la mattanza di cinque dei sei partiti attivi alla Costituente: a cominciare da quelli che avevano guidato il cauto cambiamento nel trentennio dall’alba del centro-sinistra (Moro-Nenni) alla “staffetta” Craxi-De Mita. A pagare il prezzo proporzionalmente più elevato furono infatti la Democrazia cristiana e il partito socialista, drasticamente potati non solo di rappresentanti ma del diritto alla memoria di sé, infangata e cancellata dalla deflagrazione di Tangentopoli e dall’opera di Mani Pulite, plotone di esecuzione che spazzò via socialdemocratici, liberali e gli stessi repubblicani. Se ne salvò (per caso?) solo il PCI, che si proclamò “diverso” e, di mutazione in mutazione, dopo averli debitamente ripuliti e rivestiti, trasse a bordo la parte più arrendevole (o complice) dei naufraghi dei partiti che esso stesso aveva affondato.
Per uscire dall’equivoco, occorreva imboccare la via della Costituente: una pausa di riflessione rigeneratrice, tanto più urgente mentre incombeva l’adesione a trattati internazionali che ridussero sempre più la sovranità dello Stato (presidenza della repubblica, esecutivo e legislativo) e nel volgere di pochi anni condussero da Maastricht all’adozione dell’Euro, senza che i cittadini fossero in grado di capire, valutare e concorrere a decidere con un voto esplicito misure che ne avrebbero condizionato le sorti per generazioni.
Dopo il 1989, il crollo del bipolarismo alimentò la più beota che beata illusione dell’ormai conseguita pace perpetua. Eppure la prima Guerra del Golfo, l’inasprimento della tensione nel Vicino Oriente, le irrisolte turbolenze dall’America meridionale all’Afghanistan, a tacere di domande senza rispose (l’attentato a Giovanni Paolo II del maggio 1981, le perduranti anomalie di Cuba e della Corea del Nord) dicevano l’opposto. La drammatica sequenza di invenzione di Stati dai confini artificiosi (Croazia e Slovenia) e la sequenza di barbariche guerre nell’ex Jugoslavia negli Anni Novanta indussero i più a voltarsi dall’altra parte, a non vedere, come spesso fecero alcuni reparti dell’ONU che vi perdettero onore e credibilità, tanto da essere processati e condannati.
In quel contesto internazionale il dibattito politico interno in Italia si ridusse alla famelica gara per la conquista del governo centrale e regionale, come il preminente obiettivo della spartizione della torta: una successione di vins d’honneurs, banchetti, apericene, notti bianche, movide permanenti: il moto continuo della giostra, completa di contegnosi e costosissimi meetings nei quali economisti, imprenditori, banchieri e, da ultimo, persino sindacalisti si alternarono a dire la loro sulla “crisi” e sui modi per uscirne: una formula magica che in Italia è stata declinata nei modi più fantasiosi, buffi e inconcludenti.
Da decenni non più dirigente (cioè capace di progettazione di lungo periodo o almeno di manutenzione efficace: gli interventi col cacciavite promessi da Enrico Letta), la casta “politica” finse di non vedere, neppure delle indagini, dei rinvii a processo, delle sentenze che via via ne amputarono tronchi e rametti. L’insieme tenne, all’insegna del trasformismo più sfacciato e con patteggiamenti che produssero più pattume che pulizia.
Il volto vero di chi aveva condotto la danza dal 1981 (l’anno dello “scandalo della P2”, utile solo a chi lo alimentò per mettere alla gogna i partiti “occidentali” e le frange meno provinciali della DC e dello stesso PCI), dai tempi di Tangentopoli e di quanto seguì, si palesò nel 2006, quando, vinte le elezioni politiche per circa 20.000 voti, la Sinistra volle tutto: Napolitano al Quirinale, Marini al Senato, Bertinotti alla Camera, con lo sciame dei rispettivi caudatari. La monarchia statutaria aveva sempre bilanciato maggioranza e opposizione e propiziato cambi non traumatici. Piaccia o meno, i frutti migliori ne furono Quintino Sella, Francesco Crispi, Giovanni Giolitti e, dopo il caos postbellico, il governo di unità nazionale del 31 ottobre 1922: tutt’altra altra cosa dal regime monopartitico del 1925. Dal 2006 fu ancora più manifesta l’urgenza di garantire gli equilibri dei poteri per evitare il regime. Il varo di una fase Costituente fu nuovamente l’urgenza dell’Italia odierna. Dopo parecchi tentennamenti, ne convennero anche costituzionalisti come Michele Ainis: prima la Costituzione, poi le leggi elettorali. L’affossamento di Berlusconi nel novembre 2011 e l’invenzione extraparlamentare e antipartitica del governo Monti (il “podestà forestiero”) da parte di Napolitano allungarono i tempi della crisi ma non la risolsero. Essa peggiorò con il siluramento del governo di Enrico Letta per decisione interna del “Gran Consiglio” del partito Democratico.
Nel 2014 vennero inflitti due gravi vulnus al sistema costituzionale: l’abolizione dell’elezione diretta del Senato e quella dei consigli provinciali, gli unici enti funzionamenti in Italia senza troppa gloria ma anche senza infamia. Nel Piemonte dell’Otto-Primo Novecento i Consigli provinciali vennero presieduti da Sella, Saracco, Rattazzi, Boselli, Giolitti… All’opposto di quanto suggerito dal senso comune, questo Parlamento ha invece privilegiato i Consigli Regionali, benché quasi tutti indagati per corruzione e noti, del resto, per la loro irrilevanza nelle scelte strategiche di rilievo nazionale, dinnanzi alle quali anche il governo centrale è sempre più evanescente.
Oggi la sovranità del cittadino risulta impoverita, sia per scelte personali sia in forza delle leggi. Forse questo è l’unico disegno perseguito e raggiunto dai governi degli ultimi anni e dal loro principale mandante partitico: disgustare i cittadini (anche con la vessazione fiscale), allontanarli dalle istituzioni, privarli di rappresentanza eletta con scelta diretta e spingerli quindi in massa sulla arida spiaggia dell’astensione dal voto anche per l’unica Camera destinata a sopravvivere alla demolizione del sistema. Come nel Tre-Quattrocento, Signori, Podestà, Vescovi-Principi non hanno affatto bisogno di cittadini. Preferiscono le compagnie di ventura.
Nella primavera 2013 la rielezione di Napolitano a capo dello Stato a sua volta rinviò la resa dei conti, che ora incombe. Passato Natale, s’annuncia, luminosissima, la Cometa Lovejoy. Quale luce recherà all’Italia? Giusto cent’anni orsono ne passò un’altra. Annunciò la Grande Guerra. Secondo Sidney Sonnino, ministro degli esteri dal 1914 al 1919, essa “avvelenò la terra”: “Siamo diventati tutti pazzi. La follia sola, sterminata, è padrona degli uomini. Allora, come pretendere di guidare il destino?”. Vedremo quale sarà la scia di questa nuova Cometa.
In definitiva dipenderà anche dai cittadini, che se vogliono rimanere sovrani debbono chiederlo ad alta voce. Devono esigere una fase costituente. Diversamente abdicheranno ai loro diritti, per decenni o forse per molte generazioni, come già accadde nei secoli andati. Dante insegnò “quanto sa di sale lo scendere e il salir per l’altrui scale”. Ma aveva palato fino, diverso da quelli oggi inspessiti da decenni di cibi guasti ammanniti a cittadini tenuti in stato di cattività.

Aldo Mola

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Aldo Mola
Aldo Alessandro Mola (Cuneo, 1943) dal 1967 ha pubblicato saggi e volumi sulla storia del Partito d'Azione e di Giustizia e Libertà, della massoneria e della monarchia in Italia. Direttore del Centro Giovanni Giolitti (Dronero- Cavour) ha coordinato Il Parlamento italiano, 1861-1994 ( Nuova Cei, 24 voll.). Il suo Giolitti, lo statista della Nuova Italia è nei “Classici della Storia Mondadori”. Tra le opere recenti, Italia, un paese speciale (4 voll.)

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