Perché i Repubblicani Usa sono diventati “pacifisti”?

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Il nuovo Congresso degli Stati Uniti si è appena insediato e gli ucraini possono tirare un respiro di sollievo. Ma solo a metà. Il Senato, che legifera in materia di politica estera, è ancora a maggioranza democratica, quindi gli aiuti possono proseguire. In compenso la Camera è passata sotto il controllo dei Repubblicani e darà filo da torcere sul finanziamento di ogni ulteriore pacchetto di sostegno. Aiutare l’Ucraina nella sua guerra di sopravvivenza contro l’aggressione russa, per gli Usa, sarà sempre più difficile. Lo stesso Joe Biden, che ha appena approvato un piano da 2 miliardi e mezzo di dollari destinati a Kiev, sa di non avere credito infinito, che l’opinione pubblica scalpita, che l’opposizione repubblicana è sempre più assertiva.
Il lettore italiano può rimanere sorpreso dal fatto che, ad opporsi alla guerra, siano i Repubblicani che la nostra stampa ha sempre dipinto come i “guerrafondai”, contro un Partito Democratico più pacifista, o quantomeno più prudente. Queste erano le categorie con cui i due partiti venivano dipinti, fino alla fine dell’amministrazione Bush, dunque fino a tutto il 2008. L’uomo del “reset” dei rapporti con la Russia era Obama. Nel 2012, sfidandolo, Mitt Romney gli rimproverava di non aver compreso il pericolo che arrivava dal Cremlino, “la più grande sfida geopolitica per gli Usa”. E l’allora presidente democratico lo prendeva in giro, considerandolo “fermo agli anni 80”. A maggior ragione, l’opposizione dei Repubblicani appare incomprensibile alla luce della dottrina Reagan, che fu quella che permise di vincere la guerra fredda contro l’Urss, contro quella stessa Unione Sovietica che ora Putin vorrebbe rifondare.
Perché i Repubblicani sono diventati il partito della pace? Prima di tutto perché non ci sono più i conservatori di una volta. La vittoria di Trump alle primarie del 2016 è stata il frutto di una rivolta interna contro l’establishment del Grand Old Party. Romney, Bush, Cheney, il compianto McCain, sono ora biasimati dalla nuova base repubblicana come se fossero appartenenti ad un partito nemico, spesso con gli stessi argomenti usati dall’estrema sinistra, fra cui l’accusa di “imperialismo” in politica estera. I sospetti che la campagna di Trump fosse un prodotto delle operazioni attive russe non è mai stato dimostrato. Ma è anche innegabile che sia cambiata la percezione della Russia da parte dei deputati e senatori trumpiani, più ancora che Trump in persona (che fu spesso molto duro con Putin).
Definire “isolazionista” o direttamente “putiniana” la politica estera del nuovo Partito Repubblicano sarebbe però riduttivo. Il Gop, ancora oggi, non è isolazionista. Trump vanta di aver raggiunto accordi prima apparentemente impossibili, come quelli di Abramo, nel Medio Oriente, che denotano un forte attivismo diplomatico. Non ha combattuto guerre, ma ha usato la forza all’estero, quando era necessario, soprattutto in Siria e in Iraq. La base repubblicana, sondata dal gruppo Vandenberg Coalition, dimostra di essere più interventista dei Democratici contro l’Iran (per prevenire la sua eventuale acquisizione di armi nucleari) e contro la Cina (per difendere Taiwan). Ma è drasticamente meno interventista quando si tratta di aiutare chi combatte in Europa contro la Russia. Questo è il punto. Quindi parrebbe più una base putiniana che “isolazionista” in senso classico? Non proprio, perché quando si tratta di sondare le simpatie o antipatie per i vari leader del mondo, Putin è considerato ostile o apertamente nemico dalla stragrande maggioranza dei Repubblicani.
La vera differenza della base conservatrice rispetto a quella liberal è nella percezione della minaccia. Per i conservatori americani la minaccia viene dalla Cina e dall’Islam radicale. Mentre per i liberal la minaccia viene soprattutto dalla Russia. Alla base di questa differenza contano la religione e la cultura politica. La Cina è materialista e costituisce una sfida economica oltre che militare, dunque è vista come il nemico principale da un elettorato di destra prevalentemente cristiano e sempre più protezionista in economia. L’Islam jihadista è ancora un arci-nemico, perché perseguita i cristiani ed è l’unico cha ha causato migliaia di morti in territorio americano. I Democratici, soprattutto i liberal, sono invece sconvolti dall’invasione russa dell’Ucraina, perché mina le basi stesse dell’ordine internazionale. Aspetto su cui i conservatori sono molto meno sensibili: in cuor loro c’è sempre un parere di minoranza che vorrebbe anche uscire dall’Onu, se potesse.
Putin, anche prima della guerra, era fumo negli occhi per i progressisti americani, perché scettico sul riscaldamento globale, ultra-ortodosso cristiano (almeno nell’atteggiamento), nemico dichiarato dei movimenti gay, anti-femminista, orgogliosamente imperialista (quindi un nazionalismo al cubo). I conservatori, anche quando non lo ammirano, per lo meno non ritengono che lo stile di vita americano sia minacciato da questa ideologia. Anzi: associazioni evangeliche pro-family e pro-life hanno, negli anni, intessuto floridi rapporti con gli ortodossi russi. Che sono un’emanazione diretta del Cremlino, come si è visto chiaramente in questa guerra. Anche i conservatori meno religiosi, non vedono il putinismo come una sfida esistenziale e nemmeno come un attacco ai loro valori.
Perché infine, ogni guerra si riduce a questo: un confronto fra valori. E quindi si riflette direttamente nella politica interna. Che i Democratici siano con Zelensky e i Repubblicani non vogliano combattere contro Putin non dovrebbe stupire più nessuno. Domandiamoci, però, da europei, direttamente esposti alla minaccia militare russa, chi ci convenga appoggiare in questo nuovo periodo storico.

di Stefano Magni

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