MARIO DRAGHI, IL KEYNESIANO REPRESSO: HA PAURA DI RINUNCIARE A REAGAN

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“La realtà è per sua natura complessa e ambigua, notava qualche anno fa l’ex segretario al
Tesoro degli Stati Uniti Robert Rubin”
Mario Draghi, La lezione “Conoscenza, coraggio, umiltà”
“Il rapporto fra pensiero e realtà è un problema che ha caratterizzato l’attenzione dei pensatori
sin dagli inizi della filosofia, ma non è stato ancora risolto adeguatamente”
George Soros, La società aperta

Di fronte alla prospettiva del cambiamento l’essere umano tende a ritirarsi nella torre gotica del suo narcisismo, respingendo il nuovo che avanza. 9 aprile 2020: nell’ipertimia galoppante della mattinata tra le 8.00 e le 9.00 connessa al superlavoro articolistico e all’assunzione consueta del caffè – con passione della toilette e delirio della hybris –, chi scrive legge che un incendio ha colpito la casa di Mario Draghi in Umbria. Per fortuna non ci sono stati né morti né feriti, ma poteva andare peggio. Infatti si apprende da “la Repubblica.it”: “Incendio nell’abitazione dell’ex governatore della Bce Mario Draghi, a Città della Pieve, in Umbria. E’ andata in fiamme una canna fumaria e il rogo è stato domato dai Vigili del fuoco. L’incendio si è esteso anche in una parte del tetto della casa. L’intervento è avvenuto poco prima delle 23 di ieri (7 aprile, ndr)…”.
Lo ha spiegato molto bene Massimo Recalcati nel suo capolavoro “Ritratti del desiderio”: la resistenza al cambiamento è molto più facile della sua accettazione passiva, a costo di lasciarci le penne. Quanto è difficile per gli esseri umani cambiare proprio quando il cambiamento si annuncia al loro orizzonte. Per chi scrive non ci sono dubbi: l’ex vice-presidente della Goldman Sachs europea ed erede – nel bene e nel male – dell’ambiguo e geniale governatore di Bankitalia Guido Carli (si veda in proposito il libro eccezionale di Giuseppe Turani ed Eugenio Scalfari “Razza padrona”), che il 2 giugno 1992 arringò una folla di investitori nel panfilo Britannia della Regina Elisabetta a Civitavecchia: “Non abbiamo una Thatcher”, ha paura di rinunciare ai dogmi della sua biografia: diventando l’esecutore della Teoria Generale dell’Occupazione di Lord Keynes. Lo chiarisce paradossalmente il suo editoriale sul Financial Times; nel bellissimo pezzo pubblicato dalla redazione di “Radio Popolare – Ascolta l’ultimo giornale radio” titolato “Mario Draghi, il keynesiano riluttante” si osserva infatti: “Mario Draghi, il debito pubblico e la “guerra” contro la pandemia COVID-19. L’ex presidente della BCE, in un articolo sul Financial Times del 25 marzo 2020, ha esposto la sua dottrina contro la crisi economica da coranavirus: gli stati – sostiene – devono intervenire subito e senza limiti. Per Draghi la risposta alla crisi “deve comportare un significativo aumento del debito pubblico”. Per commentare le parole di Mario Draghi, Memos ha ospitato due economisti: Marta Fana, ricercatrice che si occupa di mercato del lavoro; e Giovanni Dosi della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. Un interrogativo su tutti, a proposito del Draghi-pensiero: perché le guerre si possono finanziare con debito pubblico, mentre lo stato sociale no?
Dosi e Fana spiegano le ragioni di Draghi, del suo intervento pubblico, ed evidenziano le omissioni nel discorso dell’ex presidente della BCE”.
“Perché oggi per Mario Draghi è possibile finanziare con debito pubblico provvedimenti di contenimento di quella che sarà probabilmente una recessione dura in futuro?”
“Perché c’è il riconoscimento della condizione di totale eccezionalità. Il fatto che si possa usare il debito pubblico anche in condizioni normali è una questione diversa. Io non l’ho mai chiesto a Draghi e non posso rispondere per lui, ma credo che in cuor suo abbia sempre pensato che le politiche fiscali vadano usate anche in tempi normali (deficit spending, ndr). Oggi però c’è il riconoscimento dei tempi assolutamente eccezionali e le guerre sono cose troppo serie per essere lasciate al mercato. E’ sempre stato così, persino i liberisti più accaniti e feroci hanno dovuto accettare, durante le guerre, che il debito pubblico venisse innalzato”.
“Perché una guerra può essere finanziata in debito e non si può finanziare in debito il sistema del welfare state?”
Giovanni Dosi. “Questo è un bel paradosso. Io penso che anche il welfare state e le misure normali e universali di protezione debbano essere finanziate in debito. Questo però non è parte della visione dominante della politica europea. A me sembra già tanto che una figura autorevole come Draghi abbia riconosciuto che il capitalismo da solo non è auto-regolatore, specialmente in casi come le guerre. La mia opinione è che bisognerebbe finanziare anche welfare state in debito se necessario. “Draghi nell’articolo dice che in questo contesto è necessario che lo Stato predisponga un bilancio pubblico per proteggere i cittadini e l’economia dagli shock di cui il settore privato non è responsabile. Cosa significa questo riferimento alla irresponsabilità del settore privato?”
Giovanni Dosi – “Secondo me faceva riferimento al fatto che tipicamente nell’ideologia standard se uno perde sono fatti suoi. Questo è uno shock generalizzato, è come se fosse caduta una bomba atomica sul sistema produttivo. Se i privati non riescono a pagare i debiti e non riescono a servire i clienti non è colpa loro. “Draghi sostiene che ci voglia un intervento massiccio dello Stato, finanziato anche con debito pubblico, senza preoccuparsi. Bisogna farlo in fretta, prima che tutto il sistema si blocchi. Dosi ci ricorda che forse bisogna andare anche oltre questo tipo di intervento e cominciare a dire che cosa bisogna fare e che cosa bisogna produrre”. Marta Fana. “Il professor Dosi aggiunge un pezzo che Draghi non è riuscito a dire: lo Stato non è soltanto un meccanismo che regola i grandi fallimenti del mercato, ma dev’essere un soggettivo attivo. Draghi ammette due cose. Da un lato ammette che il debito è una variabile politica da usare non soltanto in tempo di guerra. Dall’altro ammette l’incapacità del mercato di aggiustarsi da solo quando esistono questi shock. Quello che manca nelle parole di Draghi è quello che avviene dopo, cioè cosa fa lo Stato. Come ha detto il professor Dosi, noi ci siamo ritrovati un’economia che non è in grado neanche di far fronte produttivamente alle proprie necessità più urgenti come le mascherine o i ventilatori. Draghi continua però a mantenere la centralità dell’impresa nella capacità di ricostruire subito dopo l’emergenza. Per l’emergenza c’è lo Stato, che salva le imprese e queste saranno poi il soggetto centrale attraverso il quale potrà ripartire l’economia. Il discorso di Draghi appare un po’ particolare quando continua a dire che serve liquidità su tutti i fronti per le imprese, senza però entrare nel merito: dobbiamo garantire la liquidità per le spese correnti e questa perdita di reddito attuale o se dobbiamo andare a garantire anche i profitti. La domanda che farei a Draghi è: dobbiamo salvare la struttura produttiva italiana così com’è o dobbiamo trasformarla in qualcosa di più solido?” (l’intervista è interamente tratta da “Radio Popolare”, ndr).
Ps – Mario Draghi è a un bivio: stare con Reagan a dispetto della “dittatura del presente” (Zagrebelsky) dettata dal Covid-19 come sempre ha fatto, o diventare keynesiano per la prima volta in vita sua rinunciando alle passate posizioni. A lui l’onere della scelta. Senz’altro non deve attraversare un momento facile, perché “non siamo padroni a casa nostra” (Sigmund Freud).

di Alexander Bush

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Alexander Bush
Alexander Bush, classe '88, nutre da sempre una passione per la politica e l’economia legata al giornalismo d’inchiesta. Ha realizzato diversi documentari presentati a Palazzo Cubani, tra questi “Monte Draghi di Siena” e “L’utilizzatore finale del Ponte dei Frati Neri”, riscuotendo grande interesse di pubblico. Si definisce un liberale arrabbiato e appassionato in economia prima ancora che in politica. Bush ha pubblicato un atto d’accusa contro la Procura di Palermo che ha fatto processare Marcello Dell’Utri e sul quale è tuttora aperta la possibilità del processo di revisione: “Romanzo criminale contro Marcello Dell’Utri. Più perseguitato di Enzo Tortora”.

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