Ma che faranno i liberali?

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Mai come questa volta i liberali italiani vanno alle elezioni così divisi, rissosi e senza peso politico.

Ultimi giorni di campagna elettorale. Se anche nelle scorse elezioni, la minoranza liberale italiana si è trovata divisa, questa volta la lacerazione è resa particolarmente grave dalle reciproche accuse di tradimento. Su una sola cosa sono tutti d’accordo: il peggior nemico è il Movimento 5 Stelle, dichiaratamente contrario al sistema liberale. Su tutto il resto, sono nemici più di prima.
In particolar modo, i liberali che ancora ufficialmente fanno parte del Pli hanno aderito alla Lega, che sotto la guida di Matteo Salvini è diventata indiscutibilmente uno dei partiti più illiberali del paese. I liberali laici sono per lo più confluiti nelle liste di +Europa e, se proprio hanno qualcosa da ridire sulla presenza di Bruno Tabacci (democristiano della prima ora), non hanno invece nulla da obiettare né sul programma ultra-europeista, né sull’alleanza organica con il Pd, né sulle ultime dichiarazioni di Emma Bonino sull’armonizzazione fiscale in Europa (dunque: contro la competizione fiscale e la libertà di movimento delle imprese). Questa parte del mondo liberale, considerando +Europa come la propria casa naturale, giudica come una bizzarria inammissibile la presenza di altri liberali, anche laici, nelle fila di Forza Italia. Viceversa, i liberali rimasti in Forza Italia, nonostante l’assenza di Antonio Martino, l’adozione di un programma assistenzialista e l’alleanza con la Russia di Putin, si sentono a casa e giudicano i liberali per +Europa come dei cripto-socialisti. Poi ci sono i liberali che sostengono Noi con l’Italia, partito di chiara impostazione democristiana e sono considerati “talebani” o “complici dei talebani” dai laici. E infine c’è anche una pattuglia liberale schierata con Fratelli d’Italia. Che, nonostante tutto, è il partito che più rappresenta la destra sociale, cioè l’applicazione politica del comunitarismo (l’opposto, a destra, dell’individualismo liberale).
Perché si è arrivati a questa frammentazione? In primo luogo c’è una causa politica ben precisa. Tutti i partiti italiani che hanno maturato un’esperienza di governo, sanno che l’Italia è giunta a un bivio. La situazione non può continuare così a lungo, con il debito pubblico che esplode, la ripresa che stenta a partire (la crescita del Pil c’è, ma è sempre inferiore alla media dell’eurozona), la previdenza in crisi, lo Stato che deve ritardare i pagamenti, i capitali che fuggono all’estero, le imprese che delocalizzano, la manifattura che sta in piedi solo grazie alle esportazioni, le infrastrutture che, fra cavalcavia che crollano e treni che deragliano, stanno cascando letteralmente a pezzi. I politici più navigati, a partire dai maggiori leader di partito sulla piazza, Matteo Renzi e Silvio Berlusconi, sanno che occorrono riforme immediate: taglio drastico della spesa pubblica, riduzione della pressione fiscale e deregulation. Sanno che queste riforme sono necessariamente dolorose, comportano perdita di posti di lavoro, taglio di servizi pubblici e minori tutele di welfare. Nessuno dei due vuole proporre una manovra “lacrime e sangue” nel suo programma, perché perderebbe le elezioni. Nessuno dei due vuole compiere le riforme, se non di nascosto e solo dopo aver subito insopportabili pressioni europee. In sintesi: nessuno dei due vuol far parlare troppo i liberali, che sono gli unici che avrebbero gli strumenti culturali necessari a promuovere le riforme. Quindi sono riusciti perfettamente a frammentarli, eliminando dalle candidature quelli più tenaci e chiudendo gli altri nella campana di vetro, ciascuno nella propria.
Infatti +Europa altro non è che uno specchietto per le allodole, utile solo ad attrarre voti liberali e moderati nel Pd renziano, cioè in un partito con un programma e una visione del mondo dichiaratamente socialista. La sproporzione di forze è troppo abissale per pensare altrimenti. La componente liberale in Forza Italia è, se possibile, ancor più schiacciata da un partito che ormai rappresenta il solo Berlusconi e la sua cerchia ristrettissima di fidati collaboratori, tutti statalisti di formazione (nel 2008 c’era Tremonti, oggi Brunetta). Peggio ancora nella Lega, che aggiunge a tutto ciò anche la promessa (fortunatamente non realizzabile) del protezionismo e di un programma economico squisitamente keynesiano, fondato cioè sull’aumento della spesa pubblica a debito.
La seconda causa della frammentazione liberale è psicologica. In questi ultimi tre anni di eventi drammatici a tinte forti, c’è chi si è giustamente spaventato per l’invasione russa dell’Ucraina e vede negli alleati italiani di Putin (Lega e Berlusconi in primis) la maggior minaccia di sovversione dell’ordine europeo. Chi si è giustamente spaventato per gli attentati islamici in Europa e si sente alla vigilia di un’era storica in cui l’Europa sarà sottomessa all’Islam. Chi ha odiato la Brexit e dunque è pronto a sacrificare le sue idee e la sua coerenza sull’altare di una Unione Europea sempre più stretta. Chi ha odiato la vittoria di Trump e non vede più di buon occhio un’alleanza con le destre di qualunque natura. E soprattutto chi è spaventato per l’ondata migratoria degli ultimi anni ed è pronto a fare qualunque cosa, anche votare un dittatore di destra, pur di fermarla. Queste bombe psicologiche hanno contribuito non poco a frantumare l’ambiente liberale e a spingerne i cocci nelle braccia di alleati che promettono di far fronte a questa o quella emergenza, senza tener troppo conto della coerenza del loro programma. Esaminate a mente fredda, tutte queste paure sono irrazionali. Putin: ha la forza di destabilizzare e invadere paesi vicini ai confini della Russia, ma non certo l’Italia. E, contrariamente all’Urss di un tempo, la Russia odierna non ha né la forza né l’interesse di instaurare, nel nostro paese, un governo fantoccio. Islam: benché i pericoli del terrorismo, e dell’ideologia jihadista che lo alimenta, non siano affatto da sottovalutare, la minaccia islamica riguarda ancora solo città e paesi ad alto tasso di immigrazione musulmana. Non l’Italia. E nessuno, al momento, rischia concretamente di finire sotto un regime islamico, se non chi ha la disgrazia di vivere nelle varie banlieues e “no go zones” dell’Europa occidentale. Brexit: il Regno Unito non è affatto diventato un incubo isolazionista e razzista, ma è sempre il solito paese democratico e aperto al mondo. E’ semmai l’Ue che dovrebbe fare autocritica, sul perché così tanti cittadini britannici abbiano preferito lo strappo alla più comoda permanenza nella sfera di Bruxelles. Trump: dopo un anno di presidenza, dovrebbe essere chiaro a tutti che non è un dittatore fascista e non intende calpestare la libertà americana, né tradire la causa della difesa delle democrazie occidentali. Infine, ma non da ultimo, l’immigrazione non è affatto una “invasione”. Non siamo in presenza di un fenomeno pianificato a tavolino da oscuri “poteri forti” e neppure stiamo fronteggiando un esodo biblico. I numeri non sono tali da far temere un ricambio demografico e culturale dell’Italia, un “genocidio per sostituzione”, come grida l’estrema destra. E la natura del fenomeno migratorio non è tale da considerarsi inarrestabile: in solo pochi mesi il governo Gentiloni ha dimostrato che è possibile fermarlo quasi completamente. Basta volerlo fare.
I liberali, dunque, si sono spaventati per gli spauracchi agitati dai partiti più illiberali d’Italia e hanno dimenticato così sia la loro identità, che i veri problemi strutturali del paese. Allo stesso tempo, si sono lasciati affascinare dalle fantasmagorie dei nemici del liberalismo. Si sono fatti trascinare, ad esempio, dall’idea che Putin rappresenti la resistenza dell’Europa “dei popoli” (solo dei popoli autoctoni, bianchi e cristiani) contro quella “dei banchieri” e così sono andati dietro ai reazionari, che non vedono l’ora di voltare le spalle all’Occidente e seppellire la società aperta. Oppure i liberali si sono convinti dell’idea che l’Ue debba diventare subito, o quanto prima, uno Stato unitario, con una sua bandiera, un suo esercito e un suo governo eletto. E in questo modo si sono accodati ai socialisti, che dagli anni 80 vedono nell’Ue il principale strumento politico per fermare la globalizzazione ai confini del Vecchio Continente.
Per questi motivi, soprattutto, i liberali si presentano divisi e in lotta fra loro. Che fare? A ciascuno la sua decisione. Di sicuro, a questo giro non votare è legittimo. Votare senza entusiasmo e senza troppe illusioni è doveroso. Trincerarsi nei governi regionali, quelli più permeabili alle idee liberali, può essere un’alternativa più attraente e pratica rispetto al tentare l’ormai impossibile carta della rappresentanza nel Parlamento nazionale. In ogni caso, comunque vada, queste elezioni le abbiamo perse. Nei prossimi cinque anni si dovrà ricostruire tutto da capo, come sempre.

di Stefano Magni

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