Leggi razziali, un raglio fascista

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Nel 80° anniversario della promulgazione delle leggi razziali: cos’è stato il razzismo in Italia?

Il 15 luglio 1938 “Il Giornale d’Italia”, quotidiano romano da tempo asservito al regime di partito unico, pubblicò il Manifesto degli scienziati sulla razza, firmato il giorno prima, anniversario della Rivoluzione francese che il 27 settembre 1791 aveva abolito ogni discriminazione degli ebrei. Poco dopo il segretario del Partito Nazionale Fascista, Achille Starace, vent’anni prima inutilmente iniziato alla loggia “La Vedetta d’Italia”, aggiunse un elenco di “studiosi fascisti, docenti nelle Università italiane” aderenti al “Manifesto” sotto l’egida di Dino Alfieri, titolare del Minculpop: abbreviazione dal suono involontariamente goliardico della Cultura Popolare. Tra i firmatari (alcuni fanatici, molti vanesi, taluni, come Sabato Visco, dal doppio tuffo carpiato nel lago profondo di contraddizioni ancestrali) Nicola Pende, studioso di vaglia, smentì di aver sottoscritto quello che, anche a chi avesse gli occhi foderati di antisemitismo, risulta un cumulo di castronerie.
Tra le molte facezie sparate a zero nel Manifesto dai “chiarissimi” docenti spiccano alcuni enunciati apparentemente ovvi e molte affermazioni sconcertanti. Spigoliamo: “Le razze umane esistono (…) ma bisogna ammettere che esistono gruppi sistematici minori (…). Il concetto di razza è puramente biologico. Se gli italiani sono differenti dai francesi, dai tedeschi, dai turchi, dai greci, ecc., non è solo perché hanno una lingua diversa e una storia diversa, ma perché la costituzione razziale di questi popoli è diversa [quindi, osserviamo noi, gli italiani avevano poco a che vedere con i germanici di Hitler, accomunati ai turchi]. E’ una leggenda l’apporto (in Italia) di masse ingenti di uomini in tempi storici. Esiste ormai una razza italiana. E’ tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti”.
Precisata la differenza tra italiani, tedeschi e scandinavi e asserito l’abisso incolmabile tra gli europei (geograficamente indefiniti) e le “razze extraeuropee”, il Manifesto aggiunse la distinzione fra i Mediterranei d’Europa, “Occidentali”, da “Orientali”e Africani. Respinta la ventilata insinuazione che gli europei fossero originariamente africani (così confondendo luogo geografico ed etnie) il Manifesto concluse: “Gli ebrei non appartengono alla razza italiana” perché erano “l’unica popolazione che non si è mai assimilata”. “I caratteri fisici e psicologici puramente europei non devono essere alterati in alcun modo. L’unione è ammissibile solo nell’ambito delle razze europee”.
Il Manifesto voleva essere squillo di tromba del razzismo all’italiana. Fu lugubre anticipazione della fase apicale della persecuzione cinque anni dopo,tra il 1943 e il 1945 attuata dai nazionalsocialisti hitleriani ai danni degli cittadini italiani ebrei, con la connivenza di molti zelanti italioti.
Per quanto imbarazzante, quel 1938 va ricordato, anche in presenza della ricorrente confusione tra ebrei, israeliti e Stato d’Israele: realtà diverse, spesso mescolate e confuse ad arte per passare dalla condanna della “politica” israeliana a quella degli ebrei. Va per altro constatato che, a stretta maggioranza, il Parlamento di Gerusalemme ha da poco vulnerato la sua identità originaria definendo Israele “Stato della nazione ebraica”: che però, ripetono giustamente gli ebrei “liberali”, comporta l’identificazione tra “popolo” e “religione”.
Che “quel” 1938 sia una data scabrosa risulta manifesto dalla circospezione che per ora ne ha circondato la rievocazione. Esso va invece ricordato con due considerazioni”.
In primo luogo, sulla scorta di opere fondamentali anche se da decenni obliate, come quella di Leon Poliakov, l’antisemitismo non è un’ “invenzione” di Adolf Hitler, Rosenberg, Himmler ecc., ma è millenario, come per altro emerge dalla lettura della Bibbia. In secondo luogo, addebitare le “leggi razziali” a chi le firmò, Vittorio Emanuele III, all’epoca capo di uno Stato ancora labilmente costituzionale, è un falso storico.
In “Preghiamo anche per i perfidi Giudei. L’antisemitismo e la Shoah” (ed. Labirinti, candidato al Premio Acqui Storia 2018) Marino Ruzzenenti, studioso documentato e niente affatto tenero nei confronti del Regime, conviene che il Manifesto e la sterzata razzistica di Mussolini, furono “una svolta, fulmine a ciel sereno, inattesa e dirompente nella sua radicalità”, varata “a freddo” e per motivi niente affatto chiariti, in tante opere, dalla famosa di Renzo De Felice a quelle di Michele Sarfatti. Perché mai il duce imboccò la china precipitosa delle “Leggi della vergogna”, passo passo documentate da Valerio Di Porto (prefazione di Francesco Margiotta Broglio, premio alla carriera Acqui Storia 2018, e Ugo Caffaz, Le Monnier, 2000)? Starace balbettò una mezza spiegazione: “prima l’azione, poi la formulazione dottrinaria”: irrazionalismo puro. Neppure lui seppe motivarla. Né chiese chiarimenti a Mussolini, passato da Angelica Balabanoff (nota per la poca dimestichezza con l’acqua) alla tersa Margherita Sarfatti. Poche motivazioni culturali e scientifiche offrì “La difesa della razza”, rivista frettolosamente allestita e diretta da Telesio Interlandi..
In pochi mesi prese corpo un complesso di norme così assurde e inapplicabili che, come ben noto, il regime stesso “discriminò” dai loro effetti un ampio ventaglio di ebrei, dichiarati “ariani” perché benemeriti verso lo Stato (Medaglie d’Oro al Valor Militare…) e verso il regime (Sansepolcristi, Marcia su Roma, quanti si erano iscritti al partito dopo l’ “affare Matteotti” mostrandosi più fascisti dei “quartarellisti”…). Non solo “di fatto”, ma “ope legis” la normativa razziale venne scardinata sul nascere, perché era concettualmente infondata, fatua, priva di basi scientifiche, culturali e politiche: fu “propaganda”, dalle conseguenze catastrofiche, radicata nel millenario antisemitismo strisciante.
Contrariamente a quanto si pretendeva e poi si asserì, in Italia gli ebrei non costituivano problema dall’unificazione nazionale, in specie dal Regno di Sardegna dopo i Regi decreti del marzo-aprile 1848 del Luogotenente Eugenio di Savoia (chissà perché anche Ruzzenenti li attribuisce a Carlo Alberto di Sardegna?) alla annessione di Roma all’Italia, che smantellò quanto rimaneva del regime di Pio IX, l’ultimo papa-re (settembre-ottobre 1870). Anche secondo la meticolosa “schedatura” degli ebrei rapidamente effettuata dall’amministrazione pubblica in coincidenza con il censimento del 1938 per cercar di capirne l’identità risultò che almeno diecimila dei circa 47.000 ebrei italiani non erano affatto osservanti. Moltissimi altri, va aggiunto, distinguevano tra fede e costumanze. Una seria indagine sugli italiani effettivamente cattolici avrebbe dato risultati ancor più sconcertanti, perché quasi nessuno era in grado di dire che cosa siano la Trinità, lo Spirito Santo o il Corpo Mistico della Chiesa e tanti altri capisaldi della dottrina cattolica.
Imboccata la via dei regi decreti, il governo doveva proseguirla, malgrado la manifesta avversione di gerarchi come Italo Balbo (Mussolini lo bollava quale “porco democratico che faceva l’oratore nella loggia massonica Savonarola di Ferrara”) ed Emilio De Bono, tutt’altra pasta rispetto a Giuseppe Bottai, il cosiddetto “fascista critico” (ricorda Galeazzo Ciano nel suo Diario) che cavalcò l’antisemitismo di regime come fosse rivelazione suprema.
Benché noto, va ripetuto che Vittorio Emanuele III manifestò ripetutamente avversione nei confronti della normativa antiebraica. Gli venne e viene rimproverato anche da taluni “storici” di non aver rifiutato la firma, a costo di abdicare. Lo avesse fatto, avrebbe riversato la responsabilità sul figlio trentaquattrenne, Umberto di Piemonte. Se a sua volta questi avesse abdicato, i poteri della corona sarebbero passati al figlio, Vittorio Emanuele, principe di Napoli, nato un anno prima e quindi, secondo lo Statuto, con la reggenza della Regina, a sua volta chiusa nella tenaglia tra governo del duce e le variegate forze che lo sorreggevano, mentre Mussolini, auto-suggestionato dal “modello Hitler”, puntava ormai a emarginare la monarchia. Si considerava vincitore della guerra d’Etiopia, abile fiancheggiatore di Franco in Spagna e nelle trattative con Francia e Gran Bretagna per arginare Hitler (Conferenza di Monaco, settembre 1938): insomma, davvero l’ “uomo della Provvidenza”.
Così furono poste le premesse, del tutto impreviste, per la sciagura del 1943-1945 quando i nazionalsocialisti si impadronirono delle liste degli italiani ebrei e li razziarono avviandoli allo sterminio, assecondati dall’amministrazione pubblica con la connivenza di tanti cittadini zelanti.
“Chiedere scusa”, come andò di moda qualche anno addietro, non serve a nulla nella storia. Ma se mai qualcuno deve battersi il petto per quanto avvenne, a doverlo fare sono gli eredi delle correnti repubblicane del PNF (poi transitate nella RSI) e alcuni settori della chiesa cattolica, visceralmente antisemiti in Italia come nell’ex impero austro-ungarico, in tante regioni germaniche, in Polonia, in Spagna e anche in Francia, ove aveva prodotto guai vistosissimi ai tempi dell’ “affaire Dreyfuss”.

di Aldo A. Mola

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Aldo Mola
Aldo Alessandro Mola (Cuneo, 1943) dal 1967 ha pubblicato saggi e volumi sulla storia del Partito d'Azione e di Giustizia e Libertà, della massoneria e della monarchia in Italia. Direttore del Centro Giovanni Giolitti (Dronero- Cavour) ha coordinato Il Parlamento italiano, 1861-1994 ( Nuova Cei, 24 voll.). Il suo Giolitti, lo statista della Nuova Italia è nei “Classici della Storia Mondadori”. Tra le opere recenti, Italia, un paese speciale (4 voll.)

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