L’affaire Emanuela Orlandi (III): la requisitoria di Pietro Orlandi, fratello di Emanuela

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Pubblichiamo qui di seguito la testimonianza di Pietro Orlandi, apparsa su “Micromega”:
“Il fatto più importante accaduto in questi 35 anni è sicuramente la “trattativa” tra la procura di Roma e alcuni vertici vaticani, che ebbe luogo nel 2012. In quell’anno il magistrato Capaldo ebbe infatti una serie di incontri non ufficiali con un alto prelato del Vaticano – non mi ha mai detto chi fosse – all’interno di un’ala dei Musei Vaticani, probabilmente nella Biblioteca, che all’epoca non era aperta al pubblico per questioni di sicurezza perché al piano superiore c’era l’appartamento papale. Nel corso di questi incontri in sostanza fu avanzata al magistrato una duplice richiesta: che fosse la magistratura a occuparsi dell’apertura e dello spostamento della tomba di Enrico De Pedis, sepolto nella basilica di Sant’Apollinare (capo della Banda della Magliana, ndr). (Ad associare il nome di De Pedis alla scomparsa di Emanuela Orlandi, prima delle citate dichiarazioni di Sabrina Minardi, era stata la seguente telefonata anonima giunta nel luglio del 2005 alla redazione del programma televisivo Chi l’ha visto?: “Riguardo al fatto di Emanuela Orlandi, per trovare la soluzione del caso, andate a vedere chi è sepolto nella cripta della basilica di Sant’Apollinare, e del favore che Renatino fece al cardinal Poletti, all’epoca”. L’estumulazione, avvenuta nel 2012, ha accertato che i resti sono in effetti del boss della banda della Magliana. Il suo corpo, inizialmente tumulato nel cimitero del Verano, fu spostato dopo pochi mesi nella basilica. I documenti che autorizzavano lo spostamento erano firmati dal cardinal Ugo Poletti, in qualità di vicario generale della diocesi di Roma); e che si trovasse una soluzione per chiudere la vicenda di Emanuela, obiettivo per il raggiungimento del quale si dissero disposti a fornire una parziale verità circa la sua fine, consegnando un fascicolo nel quale, secondo le parole di questa persona, figuravano i nomi e le responsabilità delle persone che avevano avuto un ruolo in questa vicenda. Una verità parziale, però, perché il prelato disse che si poteva arrivare fino a un certo livello, non oltre, lasciando così intendere di essere a conoscenza di questo “oltre”, che non sarebbe mai potuto essere rivelato. Capaldo rispose che la nostra famiglia voleva, sì, conoscere i responsabili ma soprattutto sapere se Emanuela era viva o morta e in quest’ultimo caso sapere dove fossero le sue spoglie per darle una degna sepoltura. Il prelato rispose di doversi consultare e in una successiva conversazione con Capaldo acconsentì a questa richiesta. Erano disponibili a far ritrovare il corpo di Emanuela! La scena finale del film La verità sta in cielo di Roberto Faenza – che mostra l’incontro tra il magistrato e un prelato – prende spunto da questo avvenimento. Ma purtroppo quella fu l’ultima volta che questo prelato prese contatti con Capaldo. Io all’epoca, nel 2012, non sapevo nulla di questi incontri (Capaldo mi ha raccontato tutto un paio di anni fa) e quindi mi colpì molto una dichiarazione pubblica nella quale il magistrato affermava che in Vaticano ci sono personalità a conoscenza di quanto accaduto e in cui definiva non opportuna l’apertura della tomba di De Pedis. Era un modo per dire a chi aveva voluto quegli incontri segreti che non avrebbero avuto ciò che avevano chiesto senza dare a lui quanto promesso. A questo punto arriva il colpo di scena. Il nuovo capo della procura di Roma, Giuseppe Pignatone, si dissociò dalle dichiarazioni di Capaldo dicendo che non potevano ricondursi agli uffici della procura, annunciando l’apertura della tomba di De Pedis e da quel momento avocando a sé l’inchiesta: per qualsiasi richiesta relativa a quell’indagine Capaldo avrebbe dovuto fare riferimento a Pignatone. All’epoca ebbi occasione di parlare cinque minuti con Pignatone e mi accorsi che della storia sapeva ben poco. Non potei fare a meno di chiedermi perché il nuovo capo della procura volesse quel caso per sé. Il dubbio che possa essere stato contattato da quegli ambienti che avevano avvicinato Capaldo mi passò per la testa: in fondo stava facendo quello che avevano chiesto a Capaldo…
E alla fine arrivò anche la richiesta di archiviazione del caso, da parte di Pignatone e confermata poi dal gip. Capaldo si oppose a questa richiesta rifiutandosi di firmarla e a quel punto Pignatone lo esonerò definitivamente e fece firmare la richiesta di archiviazione a un altro magistrato. Ciò che trovo assurdo è che nella stessa richiesta di archiviazione Pignatone parla di elementi indiziari, che avevano avuto riscontro, circa il coinvolgimento nel sequestro di alcuni elementi della banda della Magliana. E io mi domando: possibile che invece di approfondire questi indizi per poter andare a processo si preferisca archiviare tutto? Credo che la risposta vada cercata in un fatto avvenuto a poche settimane dal rapimento di Emanuela: monsignor Giovanni Morandini disse a mio padre che tra Stato italiano, a livello di presidenza del Consiglio, e Stato vaticano c’era stato un invito a non aprire una falla che difficilmente si sarebbe potuta chiudere. Sono convinto che l’archiviazione del 2015 non sia altro che la risposta a quell’invito. Naturalmente ho cercato di contattare telefonicamente anche monsignor Morandini, tornato di recente in Italia dopo aver girato, a partire dal 1983, diverse nunziature per il mondo, ma anch’egli, in modo molto sgarbato, ha riagganciato il telefono non appena ha sentito il mio nome. Ad aumentare le perplessità c’è poi un’intercettazione di quel periodo in cui Carla Di Giovanni, vedova di De Pedis, dice a uno degli indagati – monsignor Pietro Vergari, rettore di Sant’Apollinare all’epoca della scomparsa di Emanuela – di essere convinta che Pignatone mi avrebbe fatto tacere. “Il procuratore nostro sta prosciogliendo… sta archiviando tutto”, dice a Vergari. Pignatone, commenta la vedova De Pedis, sta facendo una strage: Capaldo è stato cacciato, Rizzi – che era il capo della mobile – è stato mandato via… E aggiunge che il suo avvocato le ha detto che il procuratore gli ha assicurato che avrebbe archiviato tutto. Quel fascicolo al centro della trattativa con Capaldo torna continuamente nei miei pensieri. Dell’esistenza di questo dossier io ho la certezza perché me ne parlò anche Paolo Gabriele, il Corvo, che è un mio amico (ex maggiordomo di Joseph Ratzinger, responsabile di aver trafugato documenti riservatissimi del papa e dato avvio al primo scandalo Vatileaks, nel 2012. Processato in Vaticano e condannato a tre anni di reclusione, ridotti a un anno e 6 mesi, ha ottenuto la grazia del pontefice dopo un paio di mesi). Mi raccontò che sulla scrivania di monsignor Georg Ganswein, il segretario di Ratzinger, c’era un “Rapporto Emanuela Orlandi”. Gabriele si scusò perché non aveva potuto fotocopiarlo essendo tutto spillato. Ritengo che di quel dossier facessero parte anche i documenti pubblicati dal giornalista Emiliano Fittipaldi nel suo ultimo libro che dimostrerebbero che il Vaticano era a conoscenza, almeno fino al 1997, del luogo in cui era tenuta Emanuela (E. Fittipaldi, Gli impostori: inchiesta sul potere, Feltrinelli, Milano 2017. Il libro riproduce un documento fatto pervenire all’autore (che il Vaticano ha definito un falso). Si tratta di una lettera di cinque pagine, datata marzo 1998 e titolata “Resoconto sommario delle spese sostenute dallo Stato Città del Vaticano per le attività relative alla cittadina Emanuela Orlandi (Roma 14 gennaio 1968)” che sarebbe stata inviata dal cardinale Lorenzo Antonetti, allora capo dell’Apsa (Amministrazione del patrimonio della Sede apostolica), ai monsignori Giovanni Battista Re e Jean-Louis Tauran (il primo all’epoca sostituto per gli Affari generali della segreteria di Stato della Santa Sede; l’altro il numero uno dei Rapporti con gli Stati). La lettera sembra, o vuole sembrare, un documento di accompagnamento a una serie di fatture e materiali allegati di quasi 200 pagine che comproverebbero alla segreteria di Stato le spese sostenute per Emanuela Orlandi in un arco di tempo che va dal 1983 al 1997 (l’anno dell’uscita di scenda di Marcinkus dal Vaticano, ndr). Che quei documenti pubblicati da Fittipaldi siano usciti dal Vaticano – da una cassaforte in cui c’erano altri documenti riservati, legati a SINDONA, a CALVI, a SOLIDARNOSC… – mi è stato inoltre assicurato da persone che avevano accesso a certi ambienti. Che siano stati realmente redatti all’epoca e raccontino fatti reali (perché magari era stata richiesta una ricapitolazione delle spese sostenute) o siano stati scritti dopo per altri motivi non lo so. Parlo di possibili “altri motivi” perché io penso che Emanuela sia stata un tassello all’interno di un mosaico di ricatti: quei documenti potevano essere un messaggio che si voleva arrivasse a qualcuno. In quei cinque fogli si fa riferimento a diversi allegati come a voler dire a chi di dovere: “Io ho altri documenti che ti metterebbero in difficoltà”. Credo infatti che, nonostante siano passati quasi 35 anni, sia ancora in piedi un ricatto legato alla sparizione di mia sorella.
A ulteriore conferma della provenienza di quei fogli, c’è il fatto che circa un anno fa sono venuto a sapere che all’epoca del secondo Vatileaks circolavano anche dei documenti che riguardavano Emanuela e, nonostante non li abbia mai avuti in mano personalmente, da quanto alcune persone mi hanno raccontato posso dire che i contenuti corrispondono con quanto Fittipaldi ha poi pubblicato. E in ogni caso mi pare proprio che il Vaticano troppo frettolosamente abbia detto che si trattava di documenti falsi e ridicoli. Prima che Fittipaldi li pubblicasse io ne discussi con il cardinal Parolin, chiedendogli di poterne parlare con Francesco (Papa Francesco, ndr) perché, gli dissi, sapevo che quei fogli erano stati mostrati al papa da una persona molto in confidenza con lui in quel periodo, e che il papa gli aveva risposto “Lascia stare”, nel senso di fatti i fatti tuoi. Quando dopo qualche mese ricontrai il cardinal Parolin mi disse che su questa questione da parte del papa c’era chiusura totale. Al che gli chiesi se la pensasse come me, se cioè anche lui ritenesse che il papa fosse a conoscenza dei fatti e che se la verità sulla scomparsa di Emanuela fosse emersa avrebbe pesato enormemente sull’immagine della Chiesa. Lui alzò le spalle e non mi rispose. Si limitò a dirmi che riteneva la situazione molto complicata”.
Ps – Situazione molto complicata? No, è semplicissima: basta che Papa Francesco ne parli, o sarà complice della distruzione definitiva della Chiesa. Come pare che sia. A lui la scelta. O con Ponzio Pilato o con Gesù Cristo.

di Alexander Bush

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Alexander Bush
Alexander Bush, classe '88, nutre da sempre una passione per la politica e l’economia legata al giornalismo d’inchiesta. Ha realizzato diversi documentari presentati a Palazzo Cubani, tra questi “Monte Draghi di Siena” e “L’utilizzatore finale del Ponte dei Frati Neri”, riscuotendo grande interesse di pubblico. Si definisce un liberale arrabbiato e appassionato in economia prima ancora che in politica. Bush ha pubblicato un atto d’accusa contro la Procura di Palermo che ha fatto processare Marcello Dell’Utri e sul quale è tuttora aperta la possibilità del processo di revisione: “Romanzo criminale contro Marcello Dell’Utri. Più perseguitato di Enzo Tortora”.

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