Italiani in Jugoslavia, non brava gente

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Anche gli italiani in Jugoslavia non furono esenti da colpe durante l’occupazione, tutt’altro. Un’intervista sulle foibe e i crimini italiani in Jugoslavia

“Non si ammazza abbastanza!”. O ancora peggio: “So che siete dei buoni padri di famiglia. Questo va bene a casa, ma non qui, qui non sarete mai abbastanza ladri, assassini e stupratori”. Sono gli ordini con i quali i capi fascisti ammonivano i Corpi d’Armata italiani stanziati lunga tutta la Regione balcanica – ossia dalla Slovenia fino alla Grecia – per incitare a commettere le barbarie più selvagge e immaginabili.
Fatti che spesso sono pagine volutamente dimenticate della storia italiana. Infatti, alla fine della seconda guerra mondiale, il giudizio sui militari del Regio Esercito era diviso tra un’opinione pubblica internazionale che li considerava criminali di guerra e un’opinione pubblica interna, incline a considerarli vittime della guerra fascista e “buoni italiani”. Quali furono le cause che determinarono una percezione tanto difforme della realtà degli eventi legati alle guerre di aggressione dell’Italia fascista? È la questione che abbiamo affrontato con Davide Conti – storico ricercatore della Fondazione Basso e attualmente consulente dell’Archivio Storico del Senato della Repubblica (dove lavora al riordino delle carte di Rosario Bentivegna e di Carla Capponi) –, che ha scosso molte acque grazie alle pubblicazioni di “L’occupazione italiana dei Balcani. Tra crimini di guerra e mito della brava gente” e più recentemente i “Criminali di guerra italiani” che tratta più specificatamente delle vie politico-diplomatiche grazie alle quali venne garantita l’impunità ai militari del regio esercito responsabili di crimini contro i civili nei paesi occupati. Ecco cosa ci ha raccontato.
Qual è il percorso professionale che l’ha portata a occuparsi delle ricerche il cui frutto sono le opere “L’occupazione italiana dei Balcani” e “Criminali di guerra italiani”?
“Iniziai il lavoro per il primo volume nel 2006 a seguito di una serie di colloqui con Rosario Bentivegna, partigiano romano molto noto per essere stato uno dei membri dei Gruppi d’Azione Patriottica (GAP) che attaccarono il 23 marzo 1944 il battaglione tedesco Bozen, in via Rasella a Roma. Bentivegna, dopo la liberazione di Roma, venne inviato in Montenegro come vicecommissario politico delle Brigate Garibaldi e mi raccontò la sua particolare esperienza di partigiano italiano in Jugoslavia. I civili chiamavano gli italiani ‘palikuće’ (brucia case) e avevano nei loro confronti la stessa acredine riservata ai soldati tedeschi. Contrariamente alla rappresentazione bonaria e autoassolutoria degli ‘italiani brava gente’ i crimini di guerra, le deportazioni, le rappresaglie, le fucilazioni e i bombardamenti sugli abitati civili avevano rappresentato una prassi costante delle truppe del regio esercito nella cosiddetta ‘Provincia di Lubiana’ e nel Montenegro. Da queste riflessioni nacque l’idea di raccogliere documentazione sui crimini di guerra italiani nei Balcani comprendendo nella ricerca lo studio delle politiche di occupazione fascista anche in Albania e Grecia”.
Le conclusioni a cui è giunto nelle ricerche?
“L’Italia nel dopoguerra evitò di fare i conti con la propria storia e in particolare con l’esperienza criminale della dittatura fascista. Il sostegno dato al movimento fascista dalla classe dirigente nazionale nel 1922, il consenso goduto dalla dittatura mussoliniana presso l’opinione pubblica fino alla disfatta militare, la questione dei crimini di guerra compiuti dal regio esercito durante le aggressioni coloniali in Africa e poi nei Balcani e l’impunità dei responsabili furono tutti temi completamente elusi dalla riflessione nazionale e sostanziarono quel processo di mancato rinnovamento ed epurazione che un grande storico come Claudio Pavone ha chiamato ‘continuità dello Stato’. Il risultato oggi è che nel paese si fa molta fatica a ragionare sulle questioni relative ai crimini di guerra italiani perpetrati dal regio esercito e alle responsabilità del fascismo. La cosiddetta mancata ‘Norimberga italiana’ ha inciso profondamente sia nella struttura dello Stato post-fascista, rimasto in gran parte immutato nel personale e nella mentalità, sia nella coscienza nazionale del nostro popolo che, a differenza di quello tedesco, sente molto meno il peso della responsabilità di aver scatenato la guerra a fianco di Hitler, delle leggi razziali, della persecuzione dei dissenzienti e degli oppositori politici. In questo senso la consapevolezza italiana non si avvicina nemmeno lontanamente al cosiddetto “senso di colpa tedesco”. In Germania la costruzione di un monumento a un criminale di guerra sarebbe causa di una crisi politica e di provvedimenti durissimi nei confronti degli eventuali amministratori promotori dell’iniziativa. In Italia è stato appena inaugurato un monumento a Rodolfo Graziani e allo scandalo ha gridato quasi solo la stampa anglo-sassone, francese e tedesca”.
Come hanno fatto i criminali di guerra italiani a eludere le richieste di giustizia e quali sono stati gli interessi che hanno favorito questa soluzione?
“Il principale fattore, ma non il solo, in grado di determinare l’impunità per i nostri criminali di guerra fu senz’altro il nuovo equilibrio geopolitico della Guerra Fredda. La divisione bipolare del mondo rimodulò interamente il sistema di alleanze internazionali, così gli alleati di ieri si apprestavano a divenire i nemici di domani. L’Italia si trasformava da membro dell’Asse nazifascista a componente organica della costituenda Alleanza Atlantica a guida anglo-americana mentre l’Urss, che aveva combattuto e vinto la guerra insieme agli Alleati, si trasformava in avversario militare. Processare a livello internazionale gli italiani accusati di crimini avrebbe determinato la decapitazione dei vertici del nostro esercito e una epurazione di carattere esogeno che avrebbe indebolito le Forze Armate. Gli anglo-americani al contrario puntarono a riorganizzarle rapidamente per inserirle nel nuovo dispositivo militare internazionale anticomunista. Inoltre non dobbiamo dimenticare che Usa e Gran Bretagna, avevano piena consapevolezza che la Guerra Fredda sarebbe stata combattuta anche sul piano ideologico e proprio su questo punto il personale ex-fascista dava garanzie di assoluta fedeltà anticomunista nel confronto con l’Urss. Per il motivo uguale e contrario tutti o quasi i partigiani che erano entrati nelle forze di polizia o nell’esercito ne furono progressivamente allontanati in quanto sospetti di simpatie o, nel caso dei comunisti, di organicità ad un partito direttamente collegato al nemico di Mosca. Per queste ragioni Usa, Gran Bretagna e Francia ritirarono le liste di criminali di guerra italiani che loro stessi avevano consegnato alla commissione delle Nazioni Unite. La Grecia, anch’essa inserita nel campo occidentale, siglò con Roma un accordo segreto nel 1948 che chiuse la questione non solo evitando richieste di estradizione ma avviando addirittura il rimpatrio: è il caso di Giovanni Ravalli, dei militari italiani già condannati dal Tribunale di Atene.
Per la cronaca, in tema di continuità dello Stato, Ravalli in Italia diventerà prefetto prima a Palermo e poi a Roma. Sul piano ‘tecnico’ il governo italiano istituì una commissione d’inchiesta presieduta da Luigi Gasparotto che rivendicando il diritto di processare in patria i criminali fascisti, non ne permise l’estradizione non avviando mai i procedimenti giudiziari. Fino al 1948 la Jugoslavia, soprattutto, e l’Albania continuarono ad avanzare richieste di estradizione dei vari Gastone Gambara, Mario Roatta, intanto fuggito in Spagna, Alessandro Pirzio Biroli, Temistocle Testa, Mario Robotti, Emilio Grazioli e tanti altri. Nel 1948 la rottura tra Stalin e Tito, privò Belgrado del suo alleato internazionale più importante, indebolendone il peso politico rispetto alla richiesta di consegna dei criminali italiani che, infatti, rimarrà inevasa. Per queste ragioni nessuno degli oltre mille presunti criminali di guerra italiani venne mai processato”.
Del criminale di guerra Temistocle Testa – che come prefetto di Fiume diede ordine e diresse personalmente persecuzioni in grande stile contro gli elementi antifascisti – si parla relativamente poco. Quando le sue vittime quarnerine, e ce ne sono tantissime, avranno giustizia?
“A settant’anni di distanza dai fatti e con quasi tutti i protagonisti scomparsi per questioni anagrafiche, credo sia molto complicato parlare di giustizia dal punto di vista penale. Tuttavia a mio giudizio i processi, se venissero rintracciati i responsabili, andrebbero fatti non per portare in carcere persone di ottanta o novanta anni ma per sanzionare e condannare con un atto pubblico quelle politiche di sterminio e guerra ai civili di cui anche gli italiani si macchiarono. A questo naturalmente si aggiunge la legittima rivendicazione di giustizia avanzata da chi è stato vittima o ha avuto un parente che ha subito violenze. Tuttavia anche su questo punto deve essere rilevata la responsabilità delle istituzioni italiane. Temistocle Testa, ad esempio, non solo non venne processato a livello internazionale per le repressioni nei Balcani, ma anche sul piano della giustizia italiana la Sezione Istruttoria della Corte d’Appello di Roma decretò il ‘non luogo a procedere’ contro di lui perché amnistiati i reati di ‘organizzazioni di squadre fasciste, arresto illegale continuato e abuso d’autorità’ e perché ‘il fatto non costituisce reato’ rispetto all’accusa di ‘collaborazionismo’, infine per il reato di ‘malversazione’ Testa venne assolto per insufficienza di prove. Fu evidente, dunque, la volontà di procedere con la transizione dalla dittatura alla democrazia senza chiudere in modo giusto e trasparente i conti col fascismo. Lo stesso Testa, il 5 luglio 1948, depose come teste d’accusa contro i GAP romani durante il processo Kappler per la strage delle Fosse Ardeatine. Un’incredibile inversione del senso della storia che, nell’Italia nata dalla Resistenza, vede i partigiani accusati dai fascisti per una strage compiuta dai nazisti e da loro stessi che ne erano gli alleati-collaborazionisti”.
Nell’ultimo decennio, gli studi sui crimini legati agli eventi bellici e coloniali commessi dall’Italia, si sono moltiplicati. Secondo lei, esiste la possibilità che il governo italiano assuma la responsabilità e condanni definitivamente questi crimini?
“In ambito accademico e di ricerca scientifica ormai da tempo si dibatte apertamente di questi temi senza alcuna censura e i volumi e gli studi sono ormai molti e molto importanti. I problemi sono stati sempre, fin dal dopoguerra, di natura politica e hanno messo, tra l’altro, l’Italia nella condizione di non poter celebrare i processi per le stragi naziste che, infatti, solo in epoca contemporanea alcuni procuratori militari come Antonino Intelisano, Marco De Paolis e Sergio Dini hanno riaperto dopo la cosiddetta scoperta dell’armadio della vergogna. Dalle carte diplomatiche e politiche emerge chiaramente che il silenzio sui crimini di guerra tedeschi contro civili italiani venne scambiato con quello sui crimini del regio esercito. Rivelatori di questa logica sono i documenti redatti dall’ambasciatore a Mosca, Piero Quaroni, e il pro-memoria del febbraio 1948 del Segretario Generale del Ministero degli Esteri, Vittorio Zoppi, che avvertivano esplicitamente il governo di Roma che una volta avanzata la richiesta di processare i criminali tedeschi l’Italia avrebbe dovuto far fronte ad analoghe richieste dei paesi dell’Africa e dei Balcani occupati dalle nostre truppe. Dal punto di vista istituzionale recente, parliamo del 2000-01, fu incredibile il silenzio nel nostro paese sui lavori di una commissione bilaterale composta da storici qualificatissimi italiani e sloveni che dopo anni di lavoro stese una relazione di ricostruzione complessiva di tutti gli eventi occorsi sul confine orientale italo-jugoslavo. Si documentavano le tensioni del periodo liberale, le politiche aggressive del ‘fascismo di frontiera’ degli anni ‘20, i crimini di guerra italiani, le foibe e le violenze jugoslave verificatesi nel settembre ‘43 e nel maggio ‘45. Insomma, si ricostruiva l’interno quadro indicando anche le reciproche responsabilità. Il governo sloveno ha pubblicato ufficialmente i risultati storici di quella commissione, peraltro costituita e pagata con finanziamenti pubblici. Il governo italiano non lo fece e la relazione è stata pubblicata solo da qualche casa editrice attenta alla questione. Devo dire che dopo anni di silenzi e memorie omissive alcuni timidi passi sono comunque stati fatti. L’incontro di Trieste tra i tre presidenti italiano, sloveno e croato e la visita di Napolitano al Narodni Dom, incendiato dai fascisti nel ‘20, hanno segnato quantomeno una discontinuità nella nostra rappresentazione pubblica nazionale. Nel 2009 per la prima volta l’ambasciatore italiano ad Atene, Giampaolo Scarante, ha reso ufficialmente omaggio alle vittime della strage di Domenikon, un eccidio di oltre 150 civili greci eseguito dalla divisione Pinerolo per rappresaglia dopo la morte di 9 militari italiani per un attacco partigiano”.
Lei smonta completamente l’immagine autoassolutoria degli italiani brava gente. Cosa prova nel contrastare la narrazione storica oggi dominante in Italia? Ha subito delle intimidazioni?
“Non ho mai subito minacce. A me interessa lo studio di quei fatti poiché li ritengo particolarmente importanti non solo in funzione della comprensione delle vicende della seconda guerra mondiale, ma anche per il successivo peso che l’impunità dei criminali ha avuto nel vissuto dell’Italia repubblicana e democratica. Francamente, contrastare la narrazione storica dominante non è il mio principale obiettivo anche perché rispetto all’impatto presso l’opinione pubblica i lavori storici scontano un gap sostanziale di diffusione e accesso all’informazione rispetto ai mass-media”.
Secondo lei il mito del bravo italiano persiste ancora oggi?
“Il mito del bravo italiano non solo esiste ancora oggi ma viene continuamente alimentato dalla rappresentazione che si fa dei militari italiani impegnati nei numerosissimi fronti di guerra aperti in tutto il mondo. I nostri soldati non sono mai rappresentati come militari facenti funzioni e rispondenti a precise e determinate regole d’ingaggio bellico. La loro attività è presentata dai mass-media e dalla larga maggioranza della classe politica come una missione di pace promossa per aiutare le popolazioni dei paesi dove si svolge l’intervento militare e non per sviluppare attività bellica. Durante la guerra in Kosovo e i bombardamenti sulla Jugoslavia, tanto per rimanere nei Balcani, il governo D’Alema denominò l’azione ‘Missione Arcobaleno’”.
Cosa prova nelle celebrazioni in occasione del “Giorno del ricordo”?
“La Giornata del ricordo, che devo dire non è la sola, rappresenta a mio giudizio un tipico esempio di uso politico e strumentale della storia. Con la sua istituzione non ci si è proposti una rivisitazione critica della storia nazionale, né una lettura complessiva dei rapporti e dei conflitti intercorsi sul confine orientale tra Italia e Jugoslavia. Si è al contrario rappresentata una memoria selettiva che fotografando con un’istantanea un solo momento dell’intera vicenda, ha escluso dall’immaginario collettivo tutto ciò che era stato prima (i crimini fascisti) e tutto ciò che fu dopo (l’impunità dei criminali), decontestualizzando il carattere di quel fenomeno di violenza che, lo sottolineo, non deve essere ‘giustificato’ ma chiarito nei suoi termini storici. Inoltre se si fosse voluta una giornata del ricordo dedicata alle vittime delle foibe se ne sarebbe dovuta indicare una in settembre o in maggio, cioè quando si verificarono le violenze. In realtà, la data del 10 febbraio mi sembra porre una contestazione di legittimità al Trattato di Pace di Parigi del 1947, il cui anniversario ricorre proprio il 10 febbraio. Sembra quasi che la narrazione dei ‘vinti di Salò’, che consideravano quel trattato un ‘diktat’ e la definizione dei confini con la Jugoslavia una mutilazione del territorio italiano, sia emerso dalla marginalità memorialistica e si sia trasformato, vista la convergenza ‘bipartisan’ dei partiti politici, in una rappresentazione nazionale ‘condivisa’”.
Un suo commento sulla pulizia etnica e sulle foibe a danno della popolazione italiana autoctona?
“Le foibe, le violenze sul confine orientale gli arresti e le deportazioni sono il pesante prezzo che venne pagato a causa dell’eredità fascista. Purtroppo la strumentalizzazione che la destra italiana e la parte maggioritaria della sinistra ne hanno fatto, ha impedito di guardare a quei tragici fatti con la consapevolezza e la coscienza che avrebbero meritato. La propaganda sulle “centinaia di migliaia” di vittime (quando gli studi più accorti stimano in tutto 5 mila morti circa dovuti alle violenze jugoslave) e l’uso improprio e mass-mediatico del termine ‘infoibati’ (in realtà le persone uccise e gettate fisicamente nelle gole carsiche furono alcune centinaia) con il quale si comprendono a forza tutte le altre numerose vittime scomparse, uccise o deportate, non hanno certamente agevolato né il compito degli storici né la formazione di una seria coscienza nazionale su questi drammatici fatti. Non ritengo che le foibe e le violenze jugoslave siano state espressioni di pulizia etnica, tanto che nella stessa Jugoslavia operarono intere divisioni partigiane italiane a fianco dell’esercito di liberazione di Tito. A mio giudizio il problema principale è inquadrare, senza cercare inutili e false negazioni dei fatti, i fenomeni di violenza contro gli italiani in una lettura non strumentale. La prima ondata di violenza del settembre 1943 si caratterizzò come una rivalsa o, se preferiamo, una ‘jacquerie’ contadina. Non ci fu alcun disegno politico dietro quelle uccisioni, oggi stimate dagli studi più accurati e seri intorno alle 500-600 vittime, ma l’incontrollato fenomeno di rivalsa sociale, nazionale e personale delle popolazioni che si erano viste represse e oppresse durante gli anni della dittatura fascista e prima ancora durante lo squadrismo degli anni ‘20. Le uccisioni del 1945, numericamente superiori a quelle del 1943, seguono, invece, una logica politica ma devono essere collocate, anche qui senza negarle, nel quadro della lotta di liberazione jugoslava. L’Armata Popolare di Liberazione Jugoslavo di Tito risalendo il territorio nazionale realizzò una generale liquidazione violenta dei collaborazionisti filo nazisti e filo fascisti. In questa logica furono uccisi ad esempio gli ustascia croati o i cetnici serbi, a conferma che non era la pulizia etnica il criterio di soppressione del nemico ma la sua vera o presunta appartenenza allo schieramento nazi-fascista. Su quella epurazione violenta e sulla esperienza della Resistenza dell’APLJ, la più forte e organizzata di tutta l’Europa occupata, venne ricostruita l’unità nazionale jugoslava ed edificato il nuovo Stato. In questo contesto, durante la risalita delle divisioni di Tito dal sud verso il nord del paese, vengono coinvolti anche gli italiani considerati fascisti e si apre la questione dei territori e di Trieste che infatti risponde, a differenza del 1943, ad una logica tutta politica”..

Gianfranco Miksa

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