IL PROBLEMA DELLA GIUSTIZIA ITALIANA E’ UNO SOLO: L’ART. 112 DELLA COSTITUZIONE


“La Costituzione italiana è un dirigibile splendente nell’era dei jet”
Gianpiero Cantoni, ex senatore del Pdl

“Le idee hanno conseguenze”:
Friedrich Hayek

Non è mai stata così grave la crisi d’identità della magistratura italiana, vittima della sua totale autoreferenzialità ideologica e corporativa tutelata da un dettato costituzionale – con sommo disprezzo della logica – da Homo Sovieticus, ai sensi degli art. 109 e 112.
L’autonomia della giurisdizione non può essere elevata al famigerato “punto di equilibrio”.
Sullo sfondo della riforma Cartabia, o di quel che ne resta – che non determina il lavacro generalizzato dell’“improcedibilità”, come ha detto il magistrato Otello Lupacchini spiegando giustamente che il maxiprocesso si sarebbe celebrato lo stesso – occorre storicizzare una riflessione sulla questione della Giustizia; anche alla luce del fatto che Piercamillo Davigo, Nicola Gratteri e Roberto Scarpinato hanno fatto politica alla festa del Fatto Quotidiano “La Giustizia al tempo dei Migliori” condannando il Recovery Plan a firma di Mario Draghi.
Davigo avrebbe dovuto rifiutare l’invito a partecipare alla “democrazia dell’applauso” del Fatto garantita dalla Valeria Pacelli che ha l’innocenza della giovinezza, in considerazione della sua storia, della sua intelligenza nonché del suo pedigree anglosassone. Invece anche Piercamillo Davigo in una inedita veste populista, insieme ai citati procuratori Gratteri e Scarpinato, ha contestato la credibilità e la buona fede del Piano Nazionale Ripresa e Resilienza che subordina la spesa pubblica al Mercato, avvalorando la tesi cospirativa della Procura di Palermo che Draghi e il guardasigilli Marta Cartabia siano complici dei “white collar crimes”: i crimini dei colletti bianchi.
Ci manca soltanto la riabilitazione del famigerato Sim: lo Stato Imperialista delle Multinazionali.
Orbene, si tratta di una narrazione da “fake news” che conferisce alla magistratura, che è ordine giurisdizionale dello Stato subalterno gerarchicamente al Ministero della Giustizia, il ruolo indebito di contro-potere dello Stato nella tutta italiana “tripartizione dei poteri”; in Francia esiste la divisione dei poteri, in Italia la tripartizione: non sono la stessa cosa.
Osserva con la consueta puntualità Lupacchini, già protagonista dell’inchiesta sulla Banda della Magliana, che la narrazione complottista di Gratteri è una inaccettabile deformazione della realtà: durante la notte (forse insonne), scrive alle 3.00 del mattino su Facebook il magistrato anti-mafia che ha rischiato la vita per mettere alla sbarra la potente gang di Enrico De Pedis e Massimo Carminati, e che è stato trasferito d’ufficio per aver osato criticare l’operazione “Rinascita Scott” di Gratteri dal punto di vista giuridico, sul suo profilo dei social network: “Nicola Gratteri, ancora una volta l’altro giorno, ha tuonato che Borsellino e Falcone, se fossero ancora vivi, farebbero il diavolo a quattro contro la riforma Cartabia (o quel poco che ne resta). Perché, se la Cartabia fosse stata guardasigilli, quando loro facevano il maxiprocesso alla mafia, negli anni 80, il maxiprocesso sarebbe morto per via dell’improcedibilità.
Nulla di più falso: il processo di appello, a Palermo, durò meno di tre anni. Oltretutto per molti dei reati allora contestati sono previste ampie proroghe e per tutti gli altri c’è la non prescrittibilità”. Basta con le favole del “deep State”, per favore.
La verità è che si usa il maxiprocesso a Cosa Nostra e non solo per non lavorare – negli uffici giudiziari – secondo i criteri imposti dall’Unione Europea (sic!). E tutto ciò è a dir poco inquietante, nel gattopardismo delle riforme a spezzatino (come le chiama Massimo Cacciari). Apprendo dal cronista del Fatto Vincenzio Bisbiglia un particolare decisivo delle anomalie dei magistrati di questo Paese: “… Sulla riforma voluta dalla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, Scarpinato ha parlato di “una forma di amnistia strisciante e permanente”, spiegando che “ogni anno il Parlamento, i cui componenti ridotti nel numero sono tutt’oggi nominati dall’establishment, deve stabilire la priorità nei processi, quali si devono celebrare e quali no. Un assalto finale da parte della politica”; insomma, Scarpinato contesta il principio dell’establishment da “reo confesso”.
“Il dramma di questi magistrati è che non hanno il senso dell’Establishment”: lo disse l’allora governatore della Banca d’Italia Guido Carli a Piero Ottone nel bel mezzo dello scandalo dei petroli, con un sopracciglioso terzismo da Machiavelli di Via Nazionale che però aveva toccato il nucleo dei problemi della giustizia italiana.
Un altro esempio dell’irresponsabilità tecnicamente eversiva dei magistrati che si elevano a “terzo potere” dello Stato, è offerto dall’inaccettabile posizione del giudice dell’udienza preliminare del processo trattativa Stato/Cosa Nostra Piergiorgio Morosini, in suo articolo apparso sul Fatto Quotidiano (lo stesso dove scrive Antonio Ingroia, di cui Morosini accolse le richieste di rinvio a giudizio degli imputati per il processo cosiddetto “trattativa”): “… Un primo segnale promettente si coglie da una delibera del Consiglio superiore della magistratura dello scorso 17 dicembre (2020, ndr). Riscrive la circolare sulla gestione delle procure in nome della trasparenza e della pari dignità dei magistrati che le compongono. Le modifiche sono di natura “strutturale”. Si incide su di un modello gerarchico voluto dalle riforme del 2006-2007 (Castelli-Mastella, ndr) per dare omogeneità a prassi investigative e accusatorie (ma non è compito del Csm mettere in discussione un assetto gerarchico voluto dalle riforme Castelli e Mastella: semmai il Csm lo deve attuare!, ndr). “Negli anni”, continuava Morosini, “la formula che riconosceva al “procuratore-capo” un potere organizzativo sostanzialmente incontrollato ha mostrato i suoi limiti. La facoltà di assegnare e revocare, in modo unilaterale, indagini di rilievo, deleghe e incarichi di diversa natura, può trasformare il dirigente dell’ufficio in arbitro delle aspirazioni professionali dei suoi “sostituti”…”.

A parte che la diagnosi del dottor Morosini sulla crisi della Giustizia è molto discutibile, egli non può comunque invitare il Csm a disapplicare la neo gerarchizzazione degli uffici giudiziari da parte del Procuratore capo come voluta dalle riforme dell’ordinamento Castelli prima e Mastella poi, poiché – a suo parere – “la formula che riconosceva al “procuratore-capo” un potere sostanzialmente incontrollato ha mostrato i suoi limiti (sic!): è come dire che i magistrati possono disapplicare le riforme volute dal Parlamento, se esse non sono state ben concepite (sic!). Siamo al rovesciamento surreale della divisione dei poteri, in nome e per conto della Magistratocrazia.
Ma – nell’Italia degli anni 1970 come adesso – i magistrati non hanno il senso dello Stato, grazie alla distorsione ideologica dell’art. 112 della Costituzione repubblicana: l’imbroglio dell’obbligatorietà dell’azione penale. Che è un principio criminogeno, come in maniera straordinariamente lucida aveva illustrato il docente di ordinamento giuridico Giuseppe Di Federico in una bella lettera aperta indirizzata a Lucia Annunziata il 26 novembre 2009, dove l’ex collaboratore del pool di Giovanni Falcone contestava (a suo dire) una serie di falsità al procuratore di Milano Armando Spataro.
Ecco la trascrizione integrale:

“Gentile Dott. Annunziata, prima di tutto lasci che le dica la ragione che mi spinge a scriverLe. Domenica scorsa ero andato a letto per il riposino pomeridiano.
Come oggi domenica ho aperto a casaccio la televisione perché mi conciliasse il sonno.
Di solito funziona. Questa volta no.
Purtroppo, il caso ha voluto che la prima immagine apparsa sullo schermo fosse quella di Lei che intervistava il procuratore aggiunto di Milano, Dott. Armando Spataro. Poiché di giustizia un po’ ne capisco, ho ascoltato tutto il programma. Dopo non sono più riuscito a dormire. Spero comprenda la mia irritazione. Di qui la mia decisione di scriverLe. Non posso certamente commentare tutte le cose ingannevoli e fuorvianti che Spataro ha detto e che Lei ha ascoltato senza obiettare. Accennerò solo ad alcune delle cose da Lui dette ed avanzerò qualche dubbio su altre. Spataro ha affermato (lo dico in estrema sintesi) che il pubblico ministero italiano, proprio perché è indipendente come un giudice ed è vincolato dal principio di obbligatorietà dell’azione penale, di fatto garantisce l’eguaglianza del cittadino di fronte alla legge.
Niente di meno vero. Contrariamente a quello che riteneva il nostro Costituente non è materialmente possibile perseguire tutti i reati e quindi le nostre procure ed i nostri singoli pubblici ministeri (PM) si trovano a dover scegliere loro stessi come e con che approfondimento condurre le indagini nonché i criteri da seguire nell’esercizio dell’azione penale.
Le mie ricerche evidenziano questi fenomeni da oltre 40 anni.
Seppur con notevole ritardo, ormai lo ammettono in molti.
Implicitamente ma molto chiaramente, persino le circolari e le sentenze disciplinari del CSM. Cosa vuol dire questo? Vuol dire che il principio di obbligatorietà dell’azione penale, lungi dal garantire l’eguaglianza del cittadino di fronte alla legge, impedisce invece di introdurre quella regolamentazione e responsabilizzazione delle attività del PM con cui in tutti gli altri paesi democratici si cerca, tra l’altro ma non solo, di dare attuazione concreta al valore dell’eguaglianza del cittadino di fronte alla legge. Sì, perché sul piano operativo l’accoppiata tra obbligatorietà dell’azione penale e piena indipendenza del PM, tanto cara a Spataro, non crea solo sofferenza per il valore dell’eguaglianza del cittadino di fronte alla legge. Crea grave sofferenza anche ad altri valori di grande rilievo in democrazia come quello della protezione dei diritti civili nell’ambito processuale, e della attuazione di una coerente, responsabile formulazione delle politiche criminali del Paese nelle forme che sono proprie alle democrazie.
Vengo molto sommariamente al primo aspetto. Sul piano operativo l’accoppiata obbligatorietà dell’azione penale ed indipendenza del PM consente di fatto ai nostri PM di iniziare indagini su ciascuno di noi per reati che più o meno giustificatamente ritiene siano stati commessi, di utilizzare quindi, senza limiti di spesa, tutti i mezzi di indagine che ritiene necessari per provare le sue ipotesi accusatorie. Se dopo anni di indagine e di un eventuale processo si accerta che non vi erano ragioni che giustificassero l’azione del PM, questi non sarà responsabile di alcunchè né sotto il profilo patrimoniale né sul piano della valutazione della sua professionalità: come di regola avviene, può legittimamente affermare, con immancabile successo, che non poteva non fare quanto aveva fatto perché vi era stato costretto dal dovere di dare piena attuazione al principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale. Un principio che quindi trasforma qualsiasi iniziativa del PM, per infondata e discrezionale che sia, in un “atto giuridicamente dovuto”.
Che la sua iniziativa abbia causato danni irreparabili sotto il profilo economico sociale, politico familiare, della salute al cittadino innocente non comporta per lui responsabilità alcuna, così come è assolutamente irresponsabile anche per lo spreco di pubblico denaro da lui causato. Sono entrambe cose di cui in altri paesi democratici ci si preoccupa.
Ricordo che nel progettare ruolo e funzioni del pubblico ministero inglese il riformatore di quel paese ritenne che regolare e responsabilizzare l’attività del PM fosse necessario perché altrimenti si ha un assetto giudiziario che non solo “è ingiusto per l’accusato ma genera anche inutili sprechi nelle limitate risorse del sistema penale”.
Proprio per rafforzare questa esigenza di protezione dei cittadini da processi ingiustificati, nella riforma del PM inglese del 1985 si decise che egli non dovesse fare il poliziotto (come è da noi) ma che dovesse assumere un ruolo “quasi giudiziario” col compito di vagliare le prove fornite nei singoli casi dalla polizia per accertare che esse fossero solide e tali da giustificare un processo. Questo nella convinzione che chi è emotivamente impegnato nelle indagini non sia il più adatto a distinguere indizi da prove…”.
Continua Giuseppe Di Federico, che ebbe tra l’altro il merito di suggerire a Claudio Martelli la nomina di Giovanni Falcone alla direzione del Ministero di Grazia e Giustizia (allora si chiamava così), e fa capire come l’Italia – essendo un paese ancora arretrato senza il senso delle èlite – debba imparare dagli altri paesi, nel caso di specie dalla nazione che ha dato i natali a Montesquieu: “Non meno rilevante è poi ricordare come il binomio indipendenza del PM e obbligatorietà dell’azione penale (di fatto inattuabile) sottragga una parte molto rilevante delle decisioni in materia di politica ad una regolamentazione e responsabilizzazione nell’ambito del processo democratico. Nel 1977 una commissione di riforma della giustizia francese (istituita dal presidente della Repubblica e presieduta dal presidente della Corte di Cassazione) considerò l’ipotesi di adottare il principio di obbligatorietà dell’azione penale e di rendere anche il PM francese indipendente.
Questa ipotesi fu scartata partendo dalla constatazione che in nessun paese si possono perseguire tutti i reati. Da questa constatazione venne tratta la necessaria conseguenza che nell’esercizio dell’azione penale il PM compie di necessità, e non può non compiere, scelte discrezionali sia a livello delle indagini che nell’esercizio dell’azione penale, e che tali scelte sono per loro natura scelte di politica criminale. Ritenne quindi che in un sistema democratico e parlamentare quale è quello francese le scelte di politica criminale non potessero essere delegate ad un corpo burocratico privo di legittimazione democratica, ma dovessero invece essere compiute dal governo che ne risponde in parlamento (è un orientamento che accumuna tutti i paesi democratici ad eccezione dell’Italia, anche se non in tutti i paesi democratici il vertice della struttura unitaria e gerarchica del PM è, come in Francia, il Ministro della Giustizia).
Su tutte queste cose Lei, dottoressa Annunziata, non ha fatto una sola domanda.
Per farlo le sarebbe bastato ricordare quanto detto da un magistrato con cui ho a lungo collaborato, Giovanni Falcone, certamente non meno autorevole di Spataro.
Un magistrato che aveva una solida cultura liberale, una ampia esperienza dei sistemi giudiziari di altri paesi democratici, e l’attitudine a non lasciarsi condizionare da convenienze personali ed ideologie corporative. Ciò gli consentiva di riconoscere quanto anomalo fosse l’assetto del nostro PM e le sofferenze di sistema che ne derivano. Tra le molte citazioni possibili ricordo solo come Falcone si domandasse “come fosse possibile che in un regime liberal democratico quale quello italiano non vi sia ancora una politica giudiziaria, e tutto sia riservato alle decisioni, assolutamente irresponsabili, dei vari uffici di procura e spesso dei singoli sostituti… mi sembra quindi giunto il momento di razionalizzare e coordinare l’attività del pm, finora reso praticamente irresponsabile da una visione feticistica dell’azione penale e della mancanza di efficaci controlli della sua attività” (il corsivo è di Falcone).

Per aver detto queste cose, per aver detto che la scarsa professionalità di molti magistrati era causa di inefficienza della nostra giustizia, per aver scritto – quando era direttore generale del Ministero della Giustizia – il testo di un decreto legge in cui si faceva un tentativo di dare un più efficiente e responsabile assetto al PM nel settore della criminalità organizzata, Giovanni Falcone pagò un alto prezzo. Dovette subire la diffusa ostilità della magistratura organizzata e dei suoi rappresentanti nel CSM, che per ben due volte bocciarono le sue richieste a dispetto dei suoi evidenti meriti professionali, prima negandogli la funzione di capo dell’ufficio istruzione di Palermo e poi quella di direttore nazionale antimafia (la commissione incarichi direttivi propose un altro magistrato, proposta che non venne mai deliberata dal CSM perché nel frattempo Falcone fu assassinato dalla mafia). Lei, Dottoressa Annunziata, si starà certo domandando: ma che c’entra questo con la Sua intervista a Spataro? Purtroppo c’entra. Forse Lei non l’avrà notato, ma quasi alla fine della Sua intervista Spataro ha sollevato il dubbio che vi siano magistrati che contribuiscono a scrivere le riforme volute dalla maggioranza. Alla luce di quanto capitato a Falcone e anche ad altri magistrati che non sono stati ligi alle aspettative della corporazione, quella frase di Spataro mi è apparsa come un chiaro avvertimento di stampo… , diciamo intimidatorio.
A Lei no?… Era impreparata? Stava poco bene? Lo ha fatto volutamente per scopi politici?”.

La lettera aperta del professor Di Federico a Lucia Annunziata, rimasta senza risposta, rivela plasticamente come i principi informati dall’ideologia – com’era evidente nel togliattismo militante dei nostri Padri Costituenti, condizionati dall’estremismo di sinistra – abbiano ricadute rovinose sulla “costituzione materiale”. Fare la separazione delle carriere con la contestuale abrogazione del totemico art. 112 della Costituzione, è ormai uno stato di necessità. Ripartendo dal lavoro interrotto della Commissione per le Riforme Bicamerali, tra gli stop and go di Massimo D’Alema risucchiato dal dark inside di Botteghe Oscure.
La Opening Society di George Soros deve costituire l’orizzonte della politica italiana.
Ma l’intervista piccoloborghese e intimidatoria di Giuseppe D’Avanzo per il “Corriere della Sera”,
nel 1998, a Gherardo Colombo fece saltare il tavolo della Bicamerale.
Addio riforma della Giustizia.

di Alexander Bush

Sull'Autore

Alexander Bush, classe '88, nutre da sempre una passione per la politica e l’economia legata al giornalismo d’inchiesta. Ha realizzato diversi documentari presentati a Palazzo Cubani, tra questi “Monte Draghi di Siena” e “L’utilizzatore finale del Ponte dei Frati Neri”, riscuotendo grande interesse di pubblico. Si definisce un liberale arrabbiato e appassionato in economia prima ancora che in politica. Bush ha pubblicato un atto d’accusa contro la Procura di Palermo che ha fatto processare Marcello Dell’Utri e sul quale è tuttora aperta la possibilità del processo di revisione: “Romanzo criminale contro Marcello Dell’Utri. Più perseguitato di Enzo Tortora”.

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