Il piano di pace italiano pare essere naufragato alla prima prova della realtà

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Nella telefonata fra il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e il premier Mario Draghi, il primo ha detto al secondo, in estrema sintesi, che non è il momento giusto per parlare di pace. In compenso ha chiesto tre cose molto più concrete: armi, sanzioni alla Russia e impegno italiano per far entrare l’Ucraina nella Ue. E sono, obiettivamente, le uniche cose che l’Italia dovrebbe fare, se vogliamo arrivare alla pace.
E’ anche inutile entrare nel merito del piano di pace italiano. Perché il problema è a monte. Quando un Paese ne invade un altro, la guerra può concludersi solo in due modi: con la vittoria dell’invasore o con la sua sconfitta. I piani di pace subentrano dopo, quando l’aggressore decide di essere soddisfatto (e allora i termini li impone lui) oppure quando viene sconfitto (e allora i termini li impone l’aggredito). Non ci sono altre vie realistiche per concludere un conflitto. Se, ad aggressione ancora in corso, ad esito ancora incerto, l’Italia propone un piano di pace al Paese aggredito, sta solo suggerendo a quest’ultimo di arrendersi. Ed è chiaro che Zelensky, che sta ancora lottando per la sopravvivenza del suo Paese, si è dovuto opporre. Non potrebbe fare altrimenti.
C’è da chiedersi, piuttosto, perché l’Italia stia chiedendo una resa (per quanto onorevole, nei termini di pace) all’Ucraina, dopo aver mostrato per tre mesi la piena solidarietà. Tre sono le spiegazioni possibili.
La prima è che consideriamo ancora la causa ucraina come una causa persa. Vista l’immensa sproporzione di forze fra la Russia e l’Ucraina, la seconda non ha la possibilità fisica di resistere all’aggressione. Già un miracolo che abbia retto per tre mesi, non potrebbe durare oltre. Un piano di pace (cioè una proposta di resa) ha quindi uno scopo umanitario: risparmiare altre inutili sofferenze agli ucraini. Questa tesi dà però per scontate troppe cose. Anche le previsioni di rapida vittoria russa, nel febbraio scorso, si sono rivelate del tutto infondate. Gli ucraini stanno resistendo da tre mesi e i russi hanno conquistato solo due obiettivi strategici (Kherson e Mariupol) rispetto alla presa di tutta l’Ucraina. Nei prossimi giorni, settimane e mesi, è possibile che gli ucraini ci sorprendano ancora? Dipende anche da noi, da quante armi possiamo fornire loro e da quante sanzioni siamo in grado di imporre alla Russia, per minare il suo sforzo bellico. L’altro aspetto che diamo per scontato, ma che scontato non è, riguarda la Russia: si accontenterebbe di una vittoria di Pirro? Se l’Ucraina accettasse di cedere a Mosca anche tutto il Donbass e rinunciasse alla Crimea, poi Putin si fermerebbe veramente? Francamente non è possibile nemmeno pensarlo. Come minimo la Russia punta anche al controllo di Odessa e della costa sud-occidentale, ma è ancora possibile che ritenti l’impresa a Kharkiv e a Kiev stessa. Più la lama del coltello affonda, più l’aggressore è tentato di spingere ancora. Come è naturale che sia.
La seconda spiegazione è la malcelata volontà di tornare a fare affari con la Russia. Infatti, non si tratta solo di una “voglia di pace”, a cui tutti anelano, se non altro per non affrontare la crisi alimentare ed energetica che il conflitto sta causando. Qui si vede proprio una spinta politica a favore di una vittoria russa, magari non totale, ma abbastanza chiara per tornare a trattare il Cremlino come un interlocutore privilegiato. Questo nessuno lo dice, a guerra in corso, ma considerando il volume d’affari delle aziende italiane, soprattutto pubbliche, che hanno partnership strategiche con i russi e gli interessi dei partiti pro-Cremlino (spinti da una base elettorale filo-russa, condizionata da un ventennio di propaganda putiniana), non è difficile indovinare dove vogliano andare a parare queste proposte di pace premature.
La terza spiegazione è la paura della guerra nucleare. Se la Russia non avesse circa 3500 testate nucleari, di cui 1500 strategiche, oggi staremmo discutendo già su un intervento armato della Nato in difesa dell’Ucraina. Se invece tutti, a partire dagli Usa, escludono un intervento armato e si limitano alle sanzioni e all’invio di armi (e mai troppo pesanti) è solo per la paura dell’atomica russa. Che in questo caso verrebbe usata per proteggere … un’aggressione militare. Questi tre mesi ci hanno dimostrato che l’atteggiamento di Nato e Ue è stato sufficientemente prudente per scongiurare lo scenario peggiore, quello di una reazione militare russa contro chi sta aiutando gli aggrediti. Ma ora si fa strada un’altra tesi, ancora più sporca: se i russi non vincono abbastanza, non come vorrebbero, non nei tempi previsti e con troppe perdite, se gli ucraini azzardassero (addirittura!) una controffensiva, allora Putin sarebbe tentato di usare l’arma atomica per risolvere il conflitto in un colpo solo. Si tratta di un’ipotesi concreta, non è in discussione. Putin ha dimostrato di essere un attore irrazionale e può andare fino in fondo nella sua irrazionalità, anche se, obiettivamente, non ci sono ancora i segni che voglia arrivare ad un’escalation nucleare. Ma anche questo ragionamento, da parte nostra, ha un vizio di fondo. Non riusciamo, infatti, a comprendere quali sarebbero le alternative. In caso di vittoria russa in Ucraina, la guerra nucleare sarebbe più probabile. Il rischio sarebbe maggiore. Infatti sarebbe la dimostrazione palese del fallimento della deterrenza degli Usa e della Nato in Europa. Putin, dopo aver appreso le amare lezioni della guerra ucraina e aver rattoppato o riformato l’esercito, partirebbe lancia in resta per la prossima impresa, che ha già chiaramente annunciato: i Paesi Baltici. In quel caso, che si fa? Glieli regaliamo per evitare una guerra nucleare? Interverremmo, considerando che a quel punto sarebbe un conflitto diretto fra le due maggiori potenze nucleari del mondo? Sarebbe un dilemma praticamente irrisolvibile, è sfiancante anche solo pensarci.
Quindi meglio procedere, con tutta la prudenza del caso, ad armare e sostenere l’Ucraina, a logorare i russi, ad attendere che sia l’aggressore a gettare la spugna e a capire che un’invasione non paga.

di Stefano Magni

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