GIORGIA MELONI ABBANDONA I POVERI PERCHE’ E’ CONTRARIA AL BUSINESS: Giovanna Melandri è la Roosevelt femminile

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“I figli maggiorenni valgono zero. Sia per Gil che per Gal, le due nuove “garanzie” che dal primo gennaio 2024 dovrebbero sostituire il Reddito di cittadinanza.
Gil è la Garanzia per l’inclusione destinata ai poveri non occupabili: le famiglie con minori, disabili, invalidi, over 60. Gal è la Garanzia per l’attivazione lavorativa pensata per durare solo 12 mesi a importo ridotto – 350 euro al singolo, 525 alla coppia – e destinata ai poveri occupabili, ovvero individui senza figli minori o disabili, invalidi, over 60 nel nucleo. Ebbene in entrambi i casi la presenza in famiglia di un figlio a carico over 18 non conta: né per accedere alla misura, né sull’importo dell’assegno. Una scelta restrittiva che consente al governo Meloni di tagliare almeno 1 miliardo sugli 8 miliardi di costo del vecchio Reddito…”.
Valentina Conte, “Con i nuovi sussidi tagli fino al 50% per le famiglie con figli maggiorenni” 17 aprile 2023

“I dati mostrano che il carovita è trainato più dai profitti delle imprese che dai salari. La vecchia ricetta delle banche centrali colpisce i più deboli e può causare una stretta creditizia”
Francesco Lenzi, “I rialzi dei tassi sono quasi finiti, i danni (forse) neppure iniziati”
“Il Fatto economico”

L’eziologia di Irving Stone mi provocava irritazione: perché Leonardo da Vinci ha fatto la Gioconda? E’ presuntuoso trovare una risposta: perché aveva voglia di farlo.
La sera del 1 maggio 2023 mia madre mi chiede a tavola: “Perché la Meloni non firma il Mes?”, cioè il cosiddetto Fondo Salva Stati. Cominciamo col dire che le cose accadono semplicemente perché devono accadere: non c’è il “primum movens” della ragione, individuabile con l’eziologia tanto cara a Sigmund Freud. Le cose succedono e basta: che si tratti di fondare un partito, o di sedurre una donna. E’ l’essenza della Weltanschauung tanto di Piero Ottone quanto di Alessandro De Nicola. Ma in questo caso, vorrei presuntuosamente proporre un “processo alle intenzioni” alla Iron Lady piccoloborghese Giorgia Meloni: one track mind proprio come Margaret Thatcher, cioè innamorata fanaticamente delle proprie convinzioni a costo di determinare gravi errori; il fanatismo è lo charme delle due signore di ferro, afflitte dal senso della missione. La prima signora di ferro impedì il coinvolgimento dei bilanci pubblici occidentali nella ricostruzione della Russia post-sovietica, bocciando il Piano Marshall di George Soros perché contraria al deficit spending; vedere il capitolo “Chi ha rovinato la Russia?” nel libro di Soros “La crisi del capitalismo globale”.
Orbene, Giorgia ha una idiosincrasia ideologica al business che informa la sua intera azione di governo, che affonda le sue radici nell’appartenenza prima al Movimento Sociale Italiano che era l’eredità della Repubblica Sociale Italiana (la collettivizzazione forzata dell’economia che poi Riccardo Lombardi sottrarrà al copyright di Mussolini), e adesso al “post-fascismo grigio” di cui parla l’ottimo Ezio Mauro ormai da un anno. Si, perché Giorgia è schiacciata sul “punto di equilibrio” tra fascismo e antifascismo che è la zona grigia di cui Mauro parla nella sua requisitoria “La distanza tra i due presidenti” (a proposito della ricorrenza del 25 aprile).
La sua ostilità al Mercato è evidente nelle scelte tecnicamente criminogene che ella compie, soprattutto in relazione all’immigrazione e all’abolizione della cosiddetta “protezione speciale”, in direzione opposta rispetto a quella auspicata da Paul Krugman che – sia detto di passata – Giorgia farebbe bene a leggere. Valga la “pistola fumante”. E il nuovo ’29 è dietro l’angolo, poiché il diavolo è nei dettagli. “Se davvero fosse questa la riforma del Reddito, l’Italia diventerebbe il primo Paese in Europa a non prevedere un sostegno continuativo per tutte le persone povere in Europa”. Osserva Valentina Conte che lo intervista per “la Repubblica” fondata da Eugenio Scalfari: “Cristiano Gori, docente di Politiche Sociali a Trento e coordinatore scientifico del progetto Caritas, dice che quando “abbiamo portato, come Caritas, la nostra proposta al governo abbiamo trovato ascolto e disponibilità”. Ecco la trascrizione integrale dell’intervista: “Poi però nella bozza di decreto Lavoro la strada pare un’altra.”
“Se si definiscono occupabili i poveri che non vivono in famiglie con minori, over 60, disabili, significa che possono ricevere il contributo Gal solo per 12 mesi e poi vengono abbandonati dallo Stato. In tutta Europa chi invece è in condizioni di indigenza ha diritto a un sostegno pubblico sino a che il bisogno persiste”.
“Un errore?”
“Si deve assicurare il diritto a tutti i poveri a un sostegno continuativo, indipendentemente dalla composizione della loro famiglia. E questo deve andare di pari passo con il miglioramento dei controlli e di ogni altra azione per far sì che le misure ricevute vadano a quanti effettivamente sono in povertà”.
“Non crede nell’azione del governo di attivare gli occupabili?”
“Guardiamo a quanto succede in Europa. Le persone in povertà con maggiori probabilità di trovare lavoro sono quelle destinatarie delle più robuste azioni di inserimento professionale. Ma se la definizione di occupabilità resta questa, un unicum nel panorama europeo, non c’è alcuna attinenza con le competenze di chi deve essere attivato. Anzi, i risultati in termini occupazionali non potranno che essere deludenti”.
“Un anno di sostegno è troppo poco?”
“Il rischio è quello di non migliorare nessuno dei due obiettivi del Reddito di cittadinanza: la tutela dei poveri e l’inserimento lavorativo. Diritto di tutti i paesi poveri ad un sostegno e giusta definizione di occupabilità dovrebbero essere i punti fermi della riforma”.
“Qual è invece la vostra proposta?”
“Assicurare a tutti i poveri un sostegno, con una misura di reddito minimo che esiste ovunque in Europa. E poi prevedere una seconda misura ibrida, a metà strada tra ammortizzatori e reddito minimo, temporanea e con soglia di accesso più alta, per le persone senza lavoro e senza Naspi, prima che cadano in povertà estrema. E se cadono, c’è il reddito minimo”.

Ma ecco che compare dalle “realtà oggettive” la spesa in disavanzo.
E con la spesa in disavanzo che, come osserva l’originale Marco Palombi, piace ai mercati, decollerebbe il business. Ma la Meloni non la fa poiché è contraria a far decollare il business!
Siamo tuttavia nella dimensione dell’inconsapevolezza tout court.
Non è forse vero che Sigmund Freud diceva che “Non siamo padroni a casa nostra” (sic!)?

Più che il Piano Ripresa e Resilienza, sembra la resistenza a Keynes!
Come emerge dalla bellissima intervista di Filippo Santelli a Giovanna Melandri per “Affari e Finanza”, presidente del network italiano della finanza impatto che riunisce investitori, imprese sociali e altri soggetti – un embrione di Establishment? –, siamo di fronte alla più grande occasione dal dopoguerra ma anche dalla crisi del ’29: un nuovo “miracolo economico” o il New Deal domestico, ma il governo non è capace di assecondare “l’autoriforma, direi culturale, nel modo in cui in Italia spendiamo le risorse pubbliche”. “Sui dati deve splendere il sole, necessaria la trasparenza più assoluta. Meloni e Fitto si facciano aiutare da chi, da anni, è abituato a fare le valutazioni sull’output: università, istituti di ricerca, reti come la nostra”. Già, Giovanna è questo il punto! Ma dovrebbero avere il senso dell’Establishment, e non lo si acquisisce dalla mattina alla sera. Dalla cronaca di Santelli, emerge la Storia: “Il Pnrr è il nostro cigno bianco, l’occasione storica e irripetibile per portare in Italia un nuovo metodo per erogare le risorse pubbliche, legandole a impatti verificabili e misurabili: non la possiamo sprecare”. Nonostante i ritardi, le difficoltà a spendere i fondi, l’ipotesi di tagliare risorse e progetti, un governo che pare sempre più avvitato su se stesso, Giovanna Melandri è convinta che per il Pnrr italiano non sia troppo tardi.
Economista e politica, più volte ministro, Melandri oggi presiede la no profit Human Foundation e il capitolo tricolore di Sia, organizzazioni che promuovono l’impact investing, cioè investimenti sostenibili che puntano a un impatto sociale e ambientale quantificabile. Una logica che, dice, potrebbe correggere in corsa anche il Recovery: “Il governo sta commissariando il Piano, e questo
può anche andare a bene, a patto che garantisca assoluta trasparenza sui dati e che si appoggi alla rete di soggetti in grado di valutare l’impatto dei progetti”.
“Sul Pnrr la ragione invita al pessimismo. Il suo è ottimismo della volontà?”
“Parlerei prima di tutto di responsabilità. Perché il Next Generation Eu – non dimentichiamo mai che si chiama così – è il grande progetto di rilancio per l’Europa del futuro, il suo momento hamiltoniano (di Alexander Hamilton, attraverso la creazione di un debito comune, ndr). Noi italiani, in quanto destinatari di circa un quarto dei fondi, portiamo un quarto della responsabilità. E proprio per noi può essere una rivoluzione copernicana”.
“In che senso?”
“Per il metodo, disegnato dall’Europa, nell’erogare le risorse pubbliche, che va oltre la logica della spesa in quanto tale, le famose “buche” di Keynes. Il Pnrr lega le risorse alla performance, a risultati e obiettivi misurabili in termini di impatto sulla vita delle persone. Intrioettare questa logica per l’Italia sarebbe il più grande esercizio di approfondimento, perché finora la nostra grande malattia è stata definire la spesa in base agli “input”, alle risorse impiegate, e non agli “outcome”, ai risultati, ai semi e non agli alberi. Per poi magari tagliarla in modo lineare, come fa anche il governo con questo Def”.
“Gli alberi, appunto: si è scoperto che quelli che dovevamo piantare con il Pnrr in realtà sono semi in un vivaio, una bella metafora di cosa non sta funzionando. Ha davvero torto chi dice che i progetti e i fondi che abbiamo chiesto sono troppi?”
“Non so se sono troppi, ma ora ci sono, e sono l’opportunità per ricostruire un tessuto economico lacerato, con il 40% delle risorse destinate al Sud, oltre che di evitare un atterraggio brusco dell’economia, ora che il Patto di stabilità tornerà in vigore. Per questo non si possono sprecare: li dobbiamo spendere come l’Europa chiede di fare. Sento molti nella maggioranza dire con troppa fretta “riduciamo”, “restituiamo”, “non riusciamo”. Non esiste, serve un cambio di passo. Anche nell’opposizione, che deve con responsabilità mettersi a disposizione”.

In Italia non è mai esistita la cultura politica del deficit spending, perché non esiste l’Establishment, soprattutto – ma non solo – a causa della responsabilità di un democristiano cinico come Aldo Moro che in un certo senso si consegnò alle Brigate Rosse per non aver fatto la spesa in disavanzo (sic!). Anche Nino Galloni la pensa così su questo punto…

“L’opposizione fa l’opposizione, ma il governo, che a giorni alterni dà la colpa a chi lo ha preceduto, le pare responsabile? Ormai è in carica da ottobre, ha perso mesi per ridisegnare la governance del Piano e ancora non è pronta la revisione da proporre all’Europa.”
“Certo che il governo non deve scaricare la responsabilità. Ma ora la premier Meloni e il ministro Fitto stanno accentrando, di fatto stanno commissariando il Pnrr. Non sono contraria, a patto che poi il governo si faccia aiutare da chi, fuori, è abituato da anni a fare le valutazioni di impatto: università, istituti di ricerca, reti come la nostra. Abbiamo bisogno di fare un censimento dei 50 progetti più importanti del Pnrr per capirne gli impatti sociali e generativi”.
“Non è tardi per questa valutazione? Abbiamo speso la metà di quanto previsto, siamo in enorme ritardo…”
“L’affanno lo sento anche io, la spinta del Pnrr sulla crescita ancora non si vede. Possiamo dire che siamo sul ciglio del burrone, ma non voglio iscrivermi al partito di chi pensa che l’unica soluzione sia ridimensionare e restituire parte delle risorse. E’ ancora possibile una correzione di metodo in corsa. La valutazione di impatto è un cruscotto di gestione che serve proprio a questo, e va applicata il più possibile, dalle grandi infrastrutture agli asili nido. Non serve costruire tanti asili al Sud, se poi non ci sono le risorse per farli funzionare. Allora meglio qualcuno di meno, ma usare gli altri fondi per formare educatori”.
“Fin dall’inizio i dati del Pnrr sono un grande buco nero. Come si valutano gli impatti senza numeri?”
“E’ una strada, ma non basta. Non basta la logica classica per cui lo Stato appalta e l’appaltatore esegue. Dobbiamo creare una triangolazione tra pubblico, imprese private e imprese sociali, uno schema che all’estero è normale ma in Italia ancora non decolla”.
“A proposito di appalti, il presidente dell’Anac Busia ha criticato il nuovo Codice, dicendo che fare in fretta – il mantra del ministro Salvini – rischia di penalizzare legalità, concorrenza e qualità, di farci fare male. Che ne pensa?”.
“Un po’ di velocizzazione era necessaria. Posso comprendere l’esigenza di semplificare i meccanismi di appalto, ma a maggior ragione questo impone di prevedere degli strumenti per verificare con maggiore precisione i risultati e gli impatti, se non a monte almeno a valle. Da questo passa l’autoriforma, direi culturale, nel modo in cui in Italia spendiamo le risorse pubbliche”.

C’è una frase che merita di essere sottolineata nell’analisi della rooseveltiana Giovanna Melandri: “possiamo dire che siamo sul ciglio del burrone, ma non voglio iscrivermi al partito di chi pensa che l’unica soluzione sia ridimensionare e restituire parte delle risorse. E’ ancora possibile una correzione del metodo in corsa…”.
Il successo è l’altra faccia del fallimento.
Ma in verità c’è un’altra osservazione da fare: Giovanna Melandri afferma che “erogare le risorse pubbliche va oltre la logica della spesa in quanto tale, le famose “buche” di Keynes”; lo dico da studioso ancorchè privo del background di un economista: il deficit spending va oltre Keynes, è nelle “realtà oggettive”; ma la mia osservazione ha uno spessore “a-scientifico”. Eppure la realtà esiste!
Intendo affrontare la questione senza risolverla, venendo incontro all’auspicio del raffinato Robert Skidelsky nella sua opera “John Maynard Keynes. Speranze tradite”: “… Mi sono riferito allo “studio della vita di Keynes”, in quanto distinto dallo studio dell’economia keynesiana o di Keynes quale economista, argomenti su cui esiste una letteratura vasta e in continua crescita. Vi sono state notevoli interpretazioni, reinterpretazioni e critiche della teoria di Keynes ed esiste una voluminosa letteratura di esegesi o pseudoesegesi: che cosa ha detto Keynes? che cosa intendeva dire? Che cosa avrebbe dovuto dire? Che cosa direbbe ora?…”. Open virdict.
John Maynard Keynes non tenne conto del fatto che le “realtà oggettive” sono superiori per importanza alle “realtà soggettive”; a unirle è il “punto di equilibrio”; tuttavia la teoria della riflessività gode di statuto a-scientifico, e senza George Soros la mia vita sarebbe stata più noiosa.

La ragione nel senso kantiano invita al pessimismo: non ratificare il Mes significa esporre l’Italia al baratro, neanche dopo l’elegante monito della Christine Lagarde a Stoccolma il 28 aprile 2023: “Sarebbe buono avere un backstop bancario in difficoltà per tutti i paesi membri che l’hanno ratificato”. La spesa pubblica ha un “inside” liberista, e il Paese potrebbe avvicinarsi alle nazioni anglosassoni invece che sprofondare. La parola al “keynesiano” Carlo Cottarelli nella sua stupenda requisitoria su “la Repubblica” del 22 marzo “Otto buone ragioni per riformare il Mes”:

“Vorrei spiegare, in otto semplici punti, perché i problemi che si stanno manifestando nel settore finanziario globale rendono ancora più urgente la ratifica della riforma del Mes (il Meccanismo Europeo di Stabilità), bloccata dal governo italiano. Naturalmente, c’è da augurarsi che i citati problemi non si sviluppino ulteriormente, ma non si può sapere.
1. La riforma del Mes consente l’uso delle ampie risorse di questa istituzione per finanziare prestiti al fondo (il Single Resolution Fund, Srf) creato dalle banche europee per intervenire a sostegno del sistema bancario in caso di crisi. 2. Attenzione, l’Srf non interviene a salvare i banchieri (cioè i proprietari delle banche), ma a salvare i depositanti e altri creditori delle banche. 3. Le risorse dell’Srf vengono dalle stesse banche europee e dovrebbero attualmente ammontare a circa 65 miliardi. Dopo la riforma, il Mes potrebbe prestare altri 68 miliardi all’Srf, raddoppiando quindi le risorse disponibili per interventi. 4. Il Mes presterebbe queste risorse all’Srf e sarebbero restituite entro 3-5 anni attraverso contributi delle banche stesse. Questo meccanismo consente di aumentare le risorse potenzialmente disponibili per interventi senza coinvolgere permanentemente
il debito pubblico. Le risorse pubbliche del Mes sarebbero ripagate dalle banche stesse.”
Se questo non è il deficit spending, di che cos’altro si tratta?
“5. Senza la riforma del Mes, le risorse a disposizione di interventi in caso di crisi bancaria sarebbero molto più ridotte e il peso di ulteriori interventi ricadrebbe sulle finanze pubbliche dei vari Paesi, alcuni dei quali potrebbero avere problemi a reperirle, se molto indebitati (se pensate all’Italia, non siete i soli). Dire, come è stato sostenuto, che sarebbe la Germania a beneficiare della maggiore capacità di risposta dell’Srm (perché le banche tedesche sono nei guai) significa dimenticare che: se c’è una crisi nelle banche europee sarebbero certamente coinvolte anche quelle dei Paesi a spread più alto (come l’Italia); e lo Stato tedesco non ha certo difficoltà (e lo ha fatto in passato) a intervenire a sostegno delle proprie banche. Casomai, sono i Paesi a spread alto che hanno difficoltà a intervenire.” (Cottarelli allude allo scostamento di bilancio da 200 miliardi del Cancelliere Scholz, ndr)
6. Il governo italiano sta ritardando la ratifica della riforma del Mes, bloccandone di fatto il completamento. Nel question time alla Camera, la settimana scorsa, Giorgia Meloni ha reiterato che finchè lei è Presidente del Consiglio l’Italia non prenderà mai a prestito risorse del Mes.
Ratificare la riforma, non significa certo richiedere un prestito dal Mes…”.
(il copyright è di Carlo Cottarelli)

Ps – Giorgia Meloni ignora nel senso tecnico del termine il principio della spesa in disavanzo che informa in quanto tale il dispositivo del Mes (sic!).
Il risultato di questo tragico autogol sarà consegnare l’Italia a Salvini, l’“utilizzatore finale” dell’Hotel Metropol. Spero di sbagliarmi, ma secondo me Salvini è pericoloso quanto Mussolini un secolo dopo la Marcia su Roma.

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Alexander Bush
Alexander Bush, classe '88, nutre da sempre una passione per la politica e l’economia legata al giornalismo d’inchiesta. Ha realizzato diversi documentari presentati a Palazzo Cubani, tra questi “Monte Draghi di Siena” e “L’utilizzatore finale del Ponte dei Frati Neri”, riscuotendo grande interesse di pubblico. Si definisce un liberale arrabbiato e appassionato in economia prima ancora che in politica. Bush ha pubblicato un atto d’accusa contro la Procura di Palermo che ha fatto processare Marcello Dell’Utri e sul quale è tuttora aperta la possibilità del processo di revisione: “Romanzo criminale contro Marcello Dell’Utri. Più perseguitato di Enzo Tortora”.

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