FITTO: UN DILETTANTE ALLO SBARAGLIO. Melillo è l’erede di Giovanni Falcone, ma commette un errore nella sua analisi

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“E’ un governo autoritario, quello che abbiamo sulla testa? In Italia incombe il rischio dell’autoritarismo, come ha denunziato giorni fa Romano Prodi? Dipende. Se la categoria in questione coincide con quella tratteggiata da Theodor W. Adorno e dai suoi collaboratori (La personalità autoritaria, 1950), se l’autoritarismo non è che la specifica “psicologia del fascismo”, allora no, non è il caso di Giorgia Meloni. Nessuna camicia nera invade i corridoi di palazzo Chigi, anche se la fiamma tricolore continua a illuminare il logo del partito al potere. E le opposizioni hanno voce e spazio, in Parlamento e nel Paese. Ne fanno poi un pessimo uso, ma questo è un altro paio di maniche. Sta di fatto, però, che certi segnali si moltiplicano, come una pioggerella che annunzia il temporale…”
“Segnali di autoritarismo”, Michele Ainis

Nel suo editoriale tecnicamente keynesiano “Lo scettro e la spada” Ezio Mauro osserva come nel nostro Paese stiano avvenendo prove generali di fascismo, in uno scenario “weimarista” che anticipa l’ascesa al potere di Matteo Salvini che fa rima con Mussolini: due grandi comunicatori, ipomaniacali tutti e due, e dalla cultura limitata che si inseriscono nella decadenza spengleriana dell’Occidente: “La novità è che l’Italia, uno dei paesi fondatori della Ue, sotto la guida di Giorgia Meloni ha cambiato campo, diventando con Polonia e Ungheria uno dei Paesi capofila di questa operazione che mira a correggere l’Europa, così come l’abbiamo conosciuta. Il contrasto tra il governo e la Corte dei Conti sui controlli nell’impiego delle risorse del Pnrr contiene in miniatura tutti questi elementi che andranno a ingigantirsi man mano che ci avvicineremo al voto europeo. C’è un esecutivo in affanno per i tempi e i modi di esercizio dei duecento miliardi del fondo europeo di sviluppo, che vive come un’ingerenza indebita e un limite sovrano il controllo in corso d’opera della Corte dei Conti: al punto da varare due norme speciali che limitano l’intervento della magistratura contabile, aprendo così immediatamente un secondo fronte più largo, questa volta con la Ue. Che vede l’Italia avvicinarsi a quei Paesi come la Polonia e l’Ungheria – non a caso partner ideologici privilegiati di Giorgia Meloni –, dove l’insofferenza per i controlli di garanzia ha provocato forti tensioni con le magistrature, trasformando il potere legittimo dei governi in un privilegio di supremazia. Da qui il richiamo di Bruxelles, per ricordare all’Italia che i sistemi di controllo rappresentano gli “strumenti principali di protezione dell’interesse finanziario della Ue”. Infine la replica di Palazzo Chigi che denuncia questi rilievi come “polemiche strumentali”, cioè attacchi politici veri e propri, al di là del merito…”.

Qua ci vorrebbe Freud, che tuttavia aveva all’incirca ragione sbagliando: la Meloni, che nell’arroganza maturata a Palazzo Chigi, è “post-fascista” più che fascista ed è inconsapevolmente contraria al mercato indebolendo autoritariamente la “balance des pouvoirs”, è incapace di fare la spesa pubblica. Ma attenzione, era incapace di fare la spesa in disavanzo anche Mussolini. Ed è questa anomalia gigantesca – la negazione del deficit spending nel senso del rifiuto del principio di realtà – che spalancherà “weimaristicamente” le porte a Matteo Salvini, il Trump italiano. Conclude Mauro, che – temo – sta fotografando il ritorno al periodo più buio della storia d’Italia, nella fascistizzazione incipiente del Bel Paese che Salvini raccoglierà come l’“utilizzatore finale” (è molto più pericoloso della “democratica illiberale” Giorgia): “… Il Pnrr è l’occasione, la Corte dei Conti l’avversario figurato, l’Europa la scena di riferimento: ma il vero punto della contesa è il Sovrano, cioè colui che esce vincitore dalle urne, la configurazione che deve prendere, i limiti cui è sottoposto, il potere improprio che vuole conquistare, oltre alla dotazione istituzionale che gli spetta. Torna in gioco l’equilibrio tra lo scettro e la spada, che il secolo aveva superato e che la democrazia credeva di aver infine risolto. Siamo avvertiti.”

Ma io dico che siamo già arrivati al punto di rottura. Assistiamo a due fatti curiosi: una velocità “atlantica” per così dire, e una velocità sudamericana della politica italiana; della prima tendenza il protagonista è il Ministro del Made in Italy Adolfo Urso, della seconda Raffaele Fitto. Già protagonista – con la grazia ricevuta dell’immunità parlamentare – della Tangentopoli pugliese:

“Intervista al presidente Anci. “Se glieli dai, i Comuni i soldi li spendono e spendono bene. Il problema è che arrivano troppo lentamente: il governo deve introdurre un meccanismo automatico per gli anticipi se vuole imprimere una svolta alla spesa”. Antonio Decaro, sindaco di Bari e presidente dell’Anci, l’associazione dei Comuni, va subito al punto. E all’esecutivo chiede anche di estendere alle altre opere del Pnrr le semplificazioni che oggi valgono per l’edilizia scolastica.
“Il governo vi è venuto incontro: l’anticipo può arrivare al 30% del costo dell’opera. Non basta?”
“E’ vero che i sindaci possono arrivare a ottenere un anticipo maggiore del 10%, ma bisogna semplificare il meccanismo: ci sono troppi passaggi tra ministeri e Comuni. Se un’opera ha già un progetto esecutivo, allora l’anticipo deve essere automatico per un importo maggiore del 10%, perché le imprese chiedono subito almeno il 30%. E poi c’è la questione dei pagamenti”.
“Cioè?”
“La circolare del governo non ha prodotto significativi risultati. Servono una scadenza e tempi certi per i pagamenti delle rendicontazioni. Si dice che la spesa del Pnrr è in ritardo e poi si paga lentamente la spesa è fatta: non è possibile”.
“Le richieste al governo finiscono qui?”
“No. Bisogna estendere la norma sulle semplificazioni, che esiste solo per l’edilizia scolastica. Se si vogliono ridurre i tempi, non si capisce perché queste semplificazioni non debbano valere per tutte le altre opere: dagli alloggi popolari ai parchi, dagli impianti per i rifiuti alla rigenerazione urbana.
“Ma poi i soldi riuscite a spenderli?”
“Ne ho parlato qualche giorno fa con il ministro Fitto. Non abbiamo condiviso alcuni passaggi contenuti nella relazione semestrale, ma sono fiducioso sul fatto che verranno stralciati dal testo definitivo”.
“Cosa non avete gradito?”
“Il passaggio dove si scrive che i piccoli Comuni, fino a diecimila abitanti, potrebbero avere problemi perché dovrebbero aumentare la spesa del 60%. I dati dicono altro: questi Comuni, tra il 2017 e il 2022, hanno aumentato la propria spesa del 50% e quelli fino a mille abitanti addirittura al 90%. La verità è che i Comuni i soldi li spendono, se glieli dai”…”
(il copyright è de “la Repubblica”)

Ma Raffaele Fitto non dà i soldi ai Comuni perché è contrario alla spesa in disavanzo.
Orbene, questo è l’andamento sudamericano della politica italiana da Repubblica dei fichi d’India; poi ci sono prove tecniche di New Deal ma la cui direzione di marcia non è sistematizzata e tuttavia ha fatto un’opera socialmente utile Tito Boeri che, come ha osservato l’ottimo Giovanni Pons, ha chiuso in grande stile il Festival internazionale di Torino, di cui è direttore scientifico insieme alla casa editrice Laterza: fondamentale è stato il contributo – in quattro giorni con 116 dibattiti cui hanno partecipato 278 ospiti, 4 premi Nobel, storici, analisti e rappresentanti delle istituzioni – di Paul Krugman, che ha osservato: “Chip prodotti solo in alcuni posti del mondo, vaccini che dipendono da tecnologie sviluppate in pochi Paesi, intelligenza artificiale in mano a poche grandi compagnie: non si va più verso la globalizzazione. Occorre consapevolezza per impostare una realpolitik che non può prescindere dall’impegno diretto degli Stati”.
Tuttavia si può discutere di questa versione estremistica del keynesismo, che contrasta con la stessa analisi di Giovanni Pons che pure ha dato visibilità a Paul Krugman, uno degli alfieri della Great Society: “Il governo Meloni fa fatica a “mettere a terra” il Pnrr, in Europa c’è forte preoccupazione per questo fatto, ma al momento non vi è alcuna reazione né sui mercati finanziari né nei giudizi delle agenzie di rating internazionali.
Come si spiega questo fatto? Tutti gli economisti spiegano che esiste una correlazione diretta tra i 190 miliardi che l’Italia può spendere entro il 2026 e la crescita economica futura, incorporata nelle stime di crescita del Prodotto interno lordo (Pil). Senza questa maggiore spesa, però, le previsioni di crescita peggiorerebbero istantaneamente e quindi i mercati volgerebbero al peggio. Ciò non sta succedendo perché, per vari motivi diversi, l’economia italiana sta andando meglio del previsto, molto meglio della Germania…”.

Vedete, il deficit spending è il Mercato al contrario del “sovranismo fiscale” di Krugman.
Continua Giovanni Pons: “… Ma allora, nel caso prevalesse l’incapacità del governo italiano a spendere i soldi del Pnrr, cosa succederebbe? Le risorse in gioco sono talmente grandi che, anche se non pienamente utilizzate, daranno comunque una spinta positiva alla crescita. L’importante è prendere almeno le sovvenzioni a fondo perduto, per accedere alle quali occorre fare tutte le riforme richieste e attuarle in modo appropriato. (il caso della Tunisia non vi dice qualcosa?, ndr).
“Non prenderle sarebbe un delitto – ammette Codogno – “mentre se anche non si spendessero tutti i soldi dei finanziamenti agevolati, il problema non sarebbe drammatico. L’importante è spenderli bene per avere crescita duratura, altrimenti è meglio non spenderli perché incrementerebbero solo il debito pubblico…”.
Ecco che Keynes è il business: egli è stato l’erede di Adam Smith, e questo è stato il grande dramma della sua vita (sic!). La bellezza dell’eterogenesi dei fini, non fa sconti a nessuno…

E’ molto istruttiva l’intervista al ministro del Made in Italy Adolfo Urso di Paolo Mastrolilli:
“Il confronto con la Commissione europea sul Pnrr è tutto qui: vorremmo utilizzare al meglio le risorse, per avere effetti immediati sullo sviluppo economico e sociale del paese”. Quindi puntare su progetti per “la sostenibilità energetica, la transizione 5.0, la tecnologia verde e digitale”.
Lo dice il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso, facendo con Repubblica il bilancio della visita a Washington.
“Gli americani temono che perdiamo questa occasione?”
“Non c’è stato un confronto, ma il grande interesse per l’Italia da parte dell’amministrazione e le imprese americane è segno della fiducia nella nostra capacità di utilizzare queste risorse”.
“Quali aspettative ha percepito?”
“Il confronto che il ministro Fitto sta gestendo su mandato del governo con la Commissione vuole sviluppare il nostro interesse nazionale all’interno del nostro mondo, Europa e Occidente. Puntiamo sulla capacità di produrre crescita e ripagare il debito pubblico. Perciò progetti chiaramente realizzabili. Alcuni, come gli stadi di Firenze e Venezia, sono stati bocciati perché non c’entravano nulla col Pnrr. Alcuni sono utili, ma non fattibili nei tempi dovuti, perché la rendicontazione andrebbe fatta entro il giugno del 2026, e quindi l’investimento l’anno prima. Così rischieremmo di doverne pagare il costo. Perciò ci concentriamo su progetti realizzabili entro l’arco ristretto e le modalità date”.
“Quali?”
“Progetti che garantiscano la sostenibilità energetica. Mi riferisco alle grandi imprese a controllo pubblico, nel campo di approvvigionamento e produzione energetica, reti di distribuzione, gasdotti e reti elettriche. Poi Transizione 5.0, ossia le imprese che acquistano macchinari per processi e formazione nel campo della sostenibilità. Quindi tecnologia green e digitale, per aumentare la possibilità di intervento a sostegno di aziende private italiane, ma anche estere, che investono.
Dobbiamo essere competitivi per attirarle. Questa è la nostra direzione di marcia e qui in America, paese concreto, lo hanno capito”…”.

Infine, vorrei concentrare l’attenzione sull’intervista strategicamente importante a Giovanni Melillo, neocapo della Procura nazionale antimafia e antiterrorismo, di Donatella Stasio per Il Secolo XIX (che è fatto benissimo); Melillo è un galantuomo dal tratto visionario, ed è senza dubbio l’erede di Giovanni Falcone. Sono ingenui tutti e due. La sua è una lettura opposta al giustizialismo alla Edgar Hoover di Nicola Gratteri:

“… Restiamo ai controlli sul Pnrr, alcuni cruciali. Ha senso chiederne un allentamento, in generale, per poter spendere quei fondi?”
“Per quanto comprenda tutta la serietà della preoccupazione di non rallentare l’impiego di quelle enormi risorse finanziarie, faccio fatica ad accettare una radicale contrapposizione fra la rapidità dei processi decisionali della pubblica amministrazione e la stessa idea di controlli efficaci, poiché i controlli sono parte essenziale dei processi di spesa pubblica. Il Paese ha certo il dovere di impiegare al più presto quelle risorse, ma anche di farlo bene, evitando che esse si disperdano nei mille rivoli degli abusi e della corruzione ovvero finiscano nelle mani della criminalità mafiosa. Se si riflettesse sul fatto che il 70% delle opere pubbliche incompiute si trova nelle regioni meridionali – evidente riflesso, da un lato, di una storica, maggiore debolezza in quelle aree del Paese delle funzioni pubbliche e, dall’altro, della maggiore gravità dei fenomeni criminali – forse si attenuerebbe la contrapposizione polemica fra la necessità di spendere presto e il dovere di farlo anche bene. Diverrebbe magari possibile anche ragionare intorno a un’idea condivisa di controlli non paralizzanti ma sempre rigorosi ed efficienti. E lo dico da magistrato preoccupato anche dal rischio che all’indebolimento dei controlli preventivi segua la drammatizzazione dell’impatto di quelli affidati al giudice penale, con tutto il carico di contrapposizione polemica fra istituzioni della Repubblica che puntualmente ne seguirebbe”…
“A proposito di coesione istituzionale, le bombe del 1993 a Roma, Firenze e Milano reclamano ancora verità e giustizia, perché dietro quegli attentati non c’era solo la mafia, come peraltro intuirono subito gli inquirenti, che si misero a disposizione della Commissione antimafia, all’epoca guidata da Forza Italia con una maggioranza di centrodestra, per un accertamento storico-politico. Lei ha ricordato che “quell’ideale passaggio di testimone non si realizzò mai” e che lo sviluppo dell’indagine su un altro piano fu lasciato cadere “silenziosamente”.
Oggi ci sono le condizioni per raccogliere quel testimone e per una leale collaborazione istituzionale?”
“Nel mio intervento a Firenze ho indicato le ragioni che, a mio parere, impongono di riconoscere che la campagna stragista del 1993 non possa ricondursi soltanto alle strategie criminali tipiche di un’organizzazione mafiosa, sia pure raffinata come Cosa Nostra, inserendosi invece in un più ampio contesto di destabilizzazione politica e istituzionale. Lo riconobbero immediatamente importanti figure politiche del tempo, come Carlo Azeglio Ciampi e Bettino Craxi, indicando in modi diversi, ma ugualmente chiari, la strada della responsabilità delle istituzioni politiche nel comprendere e contrastare quei terribili rischi per la nostra democrazia.
Strada e responsabilità chiare anche a quei magistrati, come Gabriele Chelazzi e Piero Vigna, consapevoli della necessità che alle indagini della magistratura si affiancassero le ricostruzioni storiche e politiche nelle quali la magistratura non può avventurarsi. Oggi la situazione è notevolmente diversa rispetto al 2002, ma resta intatta l’esigenza di non affidare soltanto alle indagini e ai processi la ricerca della verità. Ciò, tuttavia, esige, ora come allora, una corretta e reciprocamente rispettosa collaborazione fra magistratura e istituzioni politiche, necessaria per evitare interferenze e sovrapposizioni reciproche. Un problema molto serio, la cui soluzione dipende dalla condivisione di un comune dovere di collaborazione istituzionale, essenziale perché indagini e attività con finalità diverse in campi così delicati e controversi possano costantemente raccordarsi”…”.

Orbene, non è ammissibile che Carlo Azeglio Ciampi e Bettino Craxi siano messi sullo stesso piano. Non è accettabile, ed è oltremodo offensivo che a dirlo sia un personaggio dello spessore di Melillo.
Ciampi era l’espressione dei quadri apicali di Bankitalia che subì un tentativo di colpo di Stato nel luglio del 1993, Craxi era il proprietario occulto dell’80% della Standa com’è stato detto da Salvatore Biondino all’Autorità Giudiziaria di Palermo, uno degli autisti di Totò Riina; tutto ciò emerge (anche, ma non solo) dall’interrogatorio al collaboratore Maurizio Avola che rivela l’ “affectio societatis” dell’allora segretario del Psi con il giro dei Corleonesi:
“AVOLA: ’92 era… l’unica cosa eclatante che avevamo per le mani, era il favore che dovevamo fare a delle persone, l’uccisione del dottore DI PIETRO, all’epoca il PM di “mani pulite”, che doveva morire, perché stava facendo troppe indagini, stava scoprendo troppi altarini e troppe cose. Parte il D’AGATA con altre persone, si fanno questa riunione all’hotel Excelsior, la zona era su Bergamo, che dovevamo colpire al D’AGATA chiedo a chi dovevamo fare questo favore, mi fa il nome di BETTINO CRAXI.”

Come fa il procuratore Melillo a ignorare tutto ciò?
La statura di Ciampi è superiore a quella di Craxi Ghino di Tacco. Uno ha fatto l’euro, l’altro ha distrutto l’Italia con Mani Pulite.

di Alexander Bush

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Alexander Bush
Alexander Bush, classe '88, nutre da sempre una passione per la politica e l’economia legata al giornalismo d’inchiesta. Ha realizzato diversi documentari presentati a Palazzo Cubani, tra questi “Monte Draghi di Siena” e “L’utilizzatore finale del Ponte dei Frati Neri”, riscuotendo grande interesse di pubblico. Si definisce un liberale arrabbiato e appassionato in economia prima ancora che in politica. Bush ha pubblicato un atto d’accusa contro la Procura di Palermo che ha fatto processare Marcello Dell’Utri e sul quale è tuttora aperta la possibilità del processo di revisione: “Romanzo criminale contro Marcello Dell’Utri. Più perseguitato di Enzo Tortora”.

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