Da dove viene il populismo

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henke
Un saggio sul risultato del referendum inglese

Oltre alla originalità – molto ricercata e talvolta eclettica e intellettualistica – poche sono state le caratteristiche decisamente positive i nei commenti che si sono succeduti all’indomani della Brexit. In molti di essi non sono mancate analisi sicuramente suggestive e in parte veritiere, come quelle che contenevano affermazioni riguardanti la cosiddetta diversità britannica. Essa sarebbe incentrata sulla adesione istintiva e lungamente sperimentata della società britannica ai presupposti del liberalismo politico, a differenza dei connotati prevalenti della statualità – o, come si sarebbe detto una volta, dello “spirito pubblico” – tedesca e francese (per non dire dell’italiana) che col liberalismo hanno poco a che fare. Quella diversità avrebbe relegato la Gran Bretagna in un angolo della costruzione europea, rendendola progressivamente più distante (e diffidente) verso le sue istituzioni e la sua legislazione.
E’ comunque mancata, in quelle analisi, la percezione di un problema che si affaccia ora sul proscenio politico e che ha senz’altro reso possibile la vittoria dei “leave”: il raggiungimento di un numero di voti – e quindi di votanti che hanno deciso di esprimersi sul quesito referendario – che ha sancito inequivocabilmente la volontà della maggioranza elettorale britannica di indirizzarsi in un senso invece che nell’ altro. Questa, se vogliamo considerare legittima l’espressione di un voto referendario sulle scelte compiute dai governi, anche essi legittimamente espressi dal voto popolare, appare una questione di indubbio rilievo giuridico e politico. E non poteva mancare anche qui lo sbraitare di molte formazioni populiste europee che indicano senz’altro nel voto referendario il principale riferimento della volontà popolare; e senza ora impaludarmi in un una discussione, che sembra troppo ampia per trovare spazio in queste poche pagine, sulla democrazia delegata e su quella diretta, voglio solo sottolineare che in questa occasione è tornata alla ribalta la tesi di uno dei più solidi e accreditati pensatori liberali dell’Ottocento, che proponeva il voto plurimo: “Le persone la cui opinione merita maggiore attenzione, devono disporre di un voto più pesante”. Per accedere a quel voto – egli chiariva – chiunque potrebbe sottoporsi “ad esami volontari accessibili a tutti” (J. Stuart Mill, Considerazioni sul governo rappresentativo, 1861). Se quella norma fosse esistita, stando agli studi demoscopici effettuati sulla distribuzione sociale e geografica del voto britannico, la vittoria della Brexit sarebbe stata impossibile.
Su un altro aspetto di quel voto e più in generale sulle consultazioni elettorali che si svolgono oggi, in questo inizio di XXI secolo, vorrei soffermarmi per offrire qualche mia riflessione.
La novità che sta emergendo è la politica intesa come una grande lotteria nazionale in cui le scelte della pubblica opinione non sono più vincolate o frenate o limitate e orientate da legittimi, opposti e concorrenti interessi. O sostenute – che sarebbe ancora più bello e nobile – da aspirazioni e da ideali contrastanti e in competizione; ma solo dalla ricerca di una occasione di vittoria collettiva a cui, se ad essa si giungerà, si vedrà successivamente come dare un seguito.
In verità il desiderio di successo e la ricerca della vittoria sembrano una costante dell’azione dell’uomo moderno (e non solo) a prescindere dai contenuti che sono dietro quel successo e quella vittoria.
La vittoria. Di che e di chi? Di inediti e improbabili schieramenti alleati solo per tentare la sorte? O per dare dimostrazione che si aveva ragione ad opporsi a qualcosa o a tutto o a proporre cose più o meno sensate o strampalate? La Brexit ne è un esempio lampante. Il fronte del “leave” era quanto mai composito. Privo di una strategia comune. E, a risultato ottenuto, i suoi vittoriosi sostenitori hanno creduto bene di darsi alle gambe.
Ci sono però due fattori coi quali si devono fare i conti quando ci si mette sulla strada della ricerca del consenso – o del dissenso -: la intuibile o percepibile o ipotizzabile direzione della Storia e il caso (sono due aspetti dello stesso problema che vanno esaminati disgiuntamente).
La direzione o il senso della Storia è un concetto che durante l’Ottocento e buona parte del Novecento ha dato, alla fine, una relativa tranquillità ai popoli. Per quanto male andassero, in certi momenti, le cose, si sperava – e ragionevolmente si aspettava – che esse si sarebbero aggiustate, perché la Storia e la sua direzione si sarebbero rimesse nel verso giusto. Croce, ai giovani antifascisti che andarono a chiedergli, durante la Resistenza , che cosa dovessero fare e come dovessero comportarsi, rispondeva: “studiate, studiate”. In Croce l’idea che la Provvidenza – come lui la chiamava in ossequio a Vico – avrebbe, alla fine, rimesso ordine, era spesso presente e anche in quei frangenti egli riteneva che la libertà, ed anche la moralità pubblica, sarebbero tornate a trionfare nonostante lo scenario europeo, in preda al nazismo e al fascismo, non desse segnali molto entusiasmanti e incoraggianti. Il suo ottimismo poteva attingere alla antica lezione vichiana che aveva interpretato come astuzia della ragione il succedersi di eventi che sembravano guidare le passioni degli uomini e i loro destini sospingendoli verso “gli ordini civili per li quali vivono in umana società” (G.B. Vico, La Scienza Nuova, 1725)
L’ottimismo crociano poteva collegarsi, oltre che a Vico, (che Croce a sua volta, collegava ad Hegel sospettando che ”l’animo dell’italiano e cattolico filosofo fosse trasmigrata nel tedesco”) alla corrente idealistica tedesca. Hegel, almeno inizialmente, aveva celebrato la Rivoluzione francese come l’ incipit dell’idea del diritto quando “il mondo fu percorso e agitato da un entusiasmo dello spirito, come se allora fosse finalmente avvenuta la vera conciliazione del divino col mondo” (G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, 1837).
Certamente in Hegel prevalse la avversione verso l’atomismo kantiano ed anche, di conseguenza, verso la concezione liberale dello Stato che proprio in Kant ed anche in Humboldt aveva i suoi più illustri interpreti. La sua avversione verso lo Stato minimo, difensore della proprietà privata e della sicurezza personale, cozzava con la constatazione che gli interessi proprietari singoli e le volontà particolari erano stati liberati proprio dalla Rivoluzione francese. Il contrasto tra il principio individualistico della società borghese moderna e l’universalismo politico lo aveva condotto ad una contraddizione difficilmente componibile che tuttavia tentò di superare col suo “organicismo”, più volte esaltato o criticato, a destra e a sinistra dello schieramento politico, incentrato nello Stato. In esso l’individuo avrebbe trovato una sua esatta collocazione e il luogo ove poteva realizzarsi la sua libertà e addirittura l’elemento divino “com’è presente sulla terra” (G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della Storia, 1837).
C’è di più. Hegel , per alcuni aspetti della sua opera, fu considerato un precursore del materialismo storico, almeno sul piano logico. La sua metodologia di indagine si basa sulla convinzione che nella successione logico-metodologica delle categorie e “il loro dialettico scaturire l’una dall’altra e l’evoluzione storica dell’umanità, sussiste una profonda connessione interna” (G.Luckacs, Il giovane Hegel e i problemi della società capitalistica,1926). Hegel cioè, vedeva i fatti storici come tappe dello sviluppo dialettico della coscienza e in essa “la molteplicità della vita e della storia si riduce ad un vario atteggiarsi della coscienza verso l’oggetto” (C. Marx, Manoscritti economico-filosofici, 1844). Era stato fin troppo facile per Marx penetrare nel metodo logico di Hegel e rilevare la sua interpretazione della storia come la realizzazione del “regno animale” dello spirito. E, in tal senso, poteva affermare che la fenomenologia di Hegel, “dà in molti punti gli elementi per una reale caratterizzazione dei rapporti umani” (Marx-Engels, La sacra famiglia, 1845). In questo aveva individuato un segno, importante, della forza trainante della lotta di classe nell’affermazione della società socialista. Hegel, inconsapevolmente e involontariamente, aveva tracciato la strada di quel percorso logico-filosofico.
Ma tutto ciò significa che Hegel fosse un ottimista e la sua lezione filosofica ispirasse – anche a Marx – un atteggiamento di intima fiducia per una direzione della Storia? Croce, che ammetteva di aver, per parecchi anni della sua vita, sentito “ripugnanza pel sistema di Hegel”, lo interpreta diversamente. Egli riteneva che in fondo alla asserzione del preteso ottimismo di Hegel, ci fosse in realtà la constatazione “che la ragione domini il mondo e che perciò anche nella storia del mondo ci sia un andamento razionale”. Alla luce di ciò quei due termini – pessimismo ed ottimismo – perdono di significato ed Hegel “li nega entrambi e li osserva dall’alto dell’Olimpo filosofico in cui non si piange e non si ride, perché e riso e pianto son diventati oggetti innanzi allo spirito, e la loro agitazione è superata nella serenità del pensiero” (B. Croce, Ciò che è vivo e ciò che è morto nella filosofia di Hegel, 1907).
Sull’ ottimismo hegeliano e il suo storicismo aprioristico, che meglio sarebbe definire “panrazionalismo storico” , si erge la critica e il pensiero di K. R. Popper: “Con la proclamazione del successo storico come unico giudice dei fatti riguardanti stati o nazioni e con il tentativo di liquidare certe distinzioni morali come quelle fra attacco e difesa, diventa necessario argomentare contro la moralità di coscienza”. Che significa indicare, come fa Hegel, la “vera moralità” di contro alla “falsa moralità” e cioè capire che “la Storia del Mondo si pone a un livello più alto di quello della moralità di carattere personale” . Di conseguenza la Storia del Mondo “può, in via di principio, ignorare del tutto la sfera entro cui la moralità risiede “(G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, 1821). Ma, sottolinea Popper, “quando si accetta una visuale del genere, evidentemente deve venir meno ogni esitazione in merito alla menzogna propagandistica e alla distorsione della verità” (K. R. Popper , La società aperta e i suoi nemici, 1974).
Veniamo ora al “caso”, alla casualità, al destino, o alla predestinazione che è la negazione del caso ed anzi il suo contrario, che individua una direzionalità non della Storia ma addirittura di noi singoli e delle nostre esperienze vitali.
Possiamo interrogarci all’infinito sulle cause che hanno portato ad un evento, anche tragico come la morte. E possiamo fornire molte risposte che in qualche caso possono avere anche una rilevanza penale o civile. Spinoza diceva che se una tegola cade in testa ad un uomo, i teologi cercheranno di dimostrare che sicuramente, per volontà di Dio, “essa è caduta per uccidere quell’uomo” (Spinoza, Ehtica, 1677). Ad un livello più basso, nella teologia popolare del parroco che predica ai suoi fedeli, ciò si traduce nel “non si muove foglia che Dio non voglia”. Le religioni, tutte, e quella cattolica in primis, tentano di tracciare un filo che leghi tra loro i fatti e dia una spiegazione ultraterrena al loro svolgimento. Ciò corrisponde ad una intima esigenza umana che vuole scorgere nel suo percorso vitale una guida divina che regola il mondo. Quella guida si trasforma, nel sistema di pensiero hegeliano, nell’idea di ragione che pervade il mondo reale arrivando a giustificare anche l’invenzione della polvere da sparo: “L’umanità aveva bisogno di essa ed essa fece la sua comparsa al momento giusto” (G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, 1821). E, in conseguenza, i seguaci di Hegel vollero dedurre che non c’era alcun bisogno di una comunità di uomini liberi, ma l’individuo soggiace alle forze che trascinano il suo destino ben oltre il caso o la progettazione razionale della sua esistenza ed egli “può conseguire un più alto destino e adempimento soltanto nella misura in cui è afferrato dalle potenze superiori del fato” ( E. Krieck, Educazione politico-nazionale, 1932).
Quindi il caso, la casualità e la accidentalità degli eventi, non esistono?
Sulla autenticità e la genuinità del caso possono intervenire fattori che indubbiamente sembrano limitarlo. Ad esempio la teoria della probabilità non è, oggettivamente, una prova della limitazione della pura casualità? Una delle sei facce del dado lanciato sul tappeto verde dal giocatore d’azzardo potrebbe apparire, alla fine del suo percorso, una serie illimitata di volte o comunque un numero altissimo di volte o, viceversa, non comparire mai, per altrettante volte che si esegue la prova. E invece quella teoria ci dice che, se ripetiamo l’ esperimento un numero molto consistente di volte, essa apparirà con una frequenza sempre più vicina al calcolo della probabilità classica che – secondo la formula p=P(E)=1/6 – in questo caso è 0,1666 (cioè circa il 16,6%). L’evento – la comparsa di una delle sei facce del dado, poniamo quella col 6 – è definito aleatorio al contrario della comparsa del 7 che è un evento impossibile non esistendo in nessuna faccia del dado. Ma la comparsa del 6 potrebbe verificarsi dopo un altissimo numero di volte, tante che il giocatore d’azzardo potrebbe ritenere anche questo un evento non aleatorio ma impossibile. La casualità pura – se esistesse – sarebbe insondabile e imprevedibile e darebbe in molti casi qualche risultato francamente sconcertante come, nelle rilevazioni demoscopiche, una totalità di consensi verso una tesi o verso il suo opposto; e invece no, assistiamo a percentuali di gradimento che si distribuiscono, con oscillazioni variabili, ma significative tra due o più tesi contrapposte e che non rivelano mai orientamenti di un gruppo in favore o contro, nella sua totalità. Ciò ovviamente rende possibile sondare i popoli, i gruppi, le società locali o nazionali e prevedere, con buona approssimazione, i loro comportamenti , le loro scelte, le loro preferenze, i loro gusti.
E allora se il mio comportamento, anche quello elettorale, rientra in uno schema di distribuzione delle volontà, sono io realmente libero di esprimermi o viceversa non soggiaccio, inconsapevolmente, alle regole che governano quei comportamenti e che mi assegnano ad uno o ad un altro schieramento?
Se tali leggi matematiche e statistiche funzionano – come effettivamente e incontrovertibilmente funzionano – si potrebbe individuare proprio in esse un meccanismo che presiede alla determinazione di una direzione della Storia in un senso o in un altro. Dunque, coloro che giocano con la Storia e vogliono captare il consenso per vincere una prova elettorale, potrebbero essere considerati uno strumento della Provvidenza o una prova della astuzia della ragione, come l’avrebbe definita Hegel – reincarnazione di Vico -. O, più semplicemente e più realisticamente, potrebbero essere i protagonisti di una fase storica in cui c’è chi riesce a captare i meccanismi di formazione del consenso , arrivando a vincere una competizione elettorale anche se poi della vittoria non saprà cosa farsene. Ma quella vittoria – questo è il dato preoccupante – si potrebbe comunque appaltare o vendere a qualcuno più interessato a promuoversi come leader o a qualcun altro che potrebbe utilizzarla per procacciarsi affari a buon mercato. Il pericolo dei movimenti populisti, che in Occidente sorgono oggi un po’ dappertutto, come i funghi, è proprio questo. I leaders o gli aspiranti tali hanno intuito che le cose oggi vanno in questo modo e perciò si adeguano e seguono l’onda. Ma possiamo stare tranquilli sugli esiti di questi processi di captazione del consenso senza una base programmatica, senza un background ideale, senza una griglia di riferimenti politici ed economici, che non siano le risultanze evanescenti dei sondaggi di opinione e un generico disprezzo per le autorità politiche, economiche e finanziarie?
Più che un pericolo di direzionalità della storia di tipo hegeliano io intravedo in questo un pericolo di canalizzazione del consenso o del dissenso, che facendo leva su sentimenti di stanchezza e di frustrazione di intere classi sociali approdi indifferentemente sia ad obiettivi di mobilitazione anti-sistema contro i simboli del potere finanziario e politico sia alla riedizione di nazionalismi esasperati evocati dalla destra populista.
Corriamo per questo seri rischi di arretramento nel livello di civiltà giuridica e di dispersione del patrimonio di garanzie democratiche che abbiamo faticosamente costruito negli ultimi due secoli. Non è quindi la direzione della storia che deve oggi incoraggiarci o preoccuparci quanto invece la constatazione che la sua totale assenza ci ha sempre trovati soli, di fronte ai rischi della quotidiana esistenza, fin dagli albori della umanità. Una umanità , è bene ricordarlo, che è stata più volte sull’orlo dell’estinzione, a partire dalla eruzione del vulcano Toba in Indonesia circa 74.000 anni fa. A dimostrazione che non c’è alcuna guida che sovraintende al processo di avanzamento storico della razza umana o che possa sbrogliare gli intrecci della nostre precarie relazioni ambientali e sociali, proteggendo la nostra sopravvivenza o i nostri livelli di civiltà giuridica.
Per questo temo che gli scenari cui assistiamo, frutto di inediti meccanismi di formazione del consenso o, peggio, della sua manipolazione, non ci possono portare vantaggiosamente e utilmente lontano. E temo anche che se lo “spirito pubblico” non si attrezzerà per far fronte a queste anomalie, rischiamo di soggiacere nuovamente – come è successo più volte nel corso dell’ultimo secolo – a crisi di indubitabile gravità fino a punti di non ritorno.

Maurizio Hanke

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