“Frediano Sessi, uno dei massimi storici italiani, interviene su “Albatros” in occasione della chiusura del padiglione italiano ad Auschwitz. Chiusura avvenuta nel silenzio di tutte le autorità interessate”.
A partire dai primi anni Novanta, con la caduta dei regimi comunisti e l’inizio della revisione storico-memoriale del sito di Auschwitz, alcuni Paesi, e non solo quelli appartenenti all’ex blocco sovietico, sollecitati dalla Direzione del Museo polacco, hanno cominciato a ripensare le esposizioni stabili dedicate alla deportazione nazionale (Francia, Olanda, Belgio, Germania, Ungheria, Slovacchia, Repubblica Cieca, Israele ecc.). Quanto al padiglione italiano (Blocco/Baracca 21 del campo base, dove ha sede la parte memoriale delle nazioni), inaugurato il 13 aprile del 1980, solo di recente si è aperto il dibattito per un eventuale cambiamento del progetto originario. Dopo che il Parlamento italiano ha approvato un finanziamento di novecentomila euro per il restauro del “Memoriale in onore degli italiani caduti nei campi di sterminio” ad Auschwitz, a partire dai primi mesi del 2008, alcuni storici (tra i quali, oltre a chi scrive, Giovanni De Luna e Michele Sarfatti) si sono chiesti se al posto dell’allestimento originario non fosse necessario un nuovo allestimento in grado di narrare e documentare in lingua italiana “perché, come e quando gli italiani finirono la loro vita in quel luogo. E che faccia ciò contestualizzando le deportazioni dall’Italia ad Auschwitz con fascismo e nazismo, guerra mondiale e sistema dei trasporti ferroviari ecc.” (Michele Sarfatti in “La Stampa”, 3 aprile 2008). Da più parti, si ritiene infatti di dovere intervenire a modificare un memoriale culturalmente invecchiato, che privilegia il dramma dei deportati politici, sottacendo la tragedia degli ebrei e che si propone al pubblico dei visitatori in modo artistico e simbolico, sollecitando sentimenti ed emozioni più che la conoscenza dei fatti. “La fine della guerra fredda ha comportato una drastica revisione della memoria pubblica europea – sostiene Giovanni De Luna – nuove ipotesi storiografiche e una diversa rappresentazione culturale della Shoah, sollecitando l’esigenza di nuovi padiglioni”. Nel memoriale italiano, prosegue De Luna, “nessuna documentazione; resta quel grande affresco, impolverato come le ipotesi storiografiche che ne influenzarono allora la realizzazione. La spirale [che rappresenta un grande filo spinato dentro cui il visitatore può camminare] racconta l’occupazione delle fabbriche, l’Ordine Nuovo, Gramsci, l’antifascismo, in un discorso reso difficile dal linguaggio simbolico e comunque arduo da capire anche sul piano storico”. Un memoriale che c’entra molto con lo spirito degli anni Settanta in cui fu pensato, ma che oggi non riesce più a parlare ai giovani e al visitatore comune (in La Stampa, 21 gennaio 2008).
Contro questa proposta (frutto di una precisa richiesta del Museo di Auschwitz), rilanciata anche in un convegno tenutosi a Torino alla fine di febbraio, si è schierata l’Aned (Associazione nazionale ex deportati) che a partire dai primi anni Settanta aveva cominciato a pensare al progetto del memoriale. Accanto all’Aned, l’Istituto bergamasco per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea e l’Accademia delle belle arti di Brera, Scuola di restauro, che si si sono proposti il restauro del Memoriale in onore degli italiani caduti nei campi di sterminio ad Auschwitz, in quanto opera d’arte, corale, unico nel suo genere e dunque insostituibile. L’Aned, accettando la proposta, ha firmato in data 8 maggio 2008 un protocollo d’intesa per l’apertura di un “Cantiere blocco 21” inteso come laboratorio di documentazione e di conservazione del memoriale degli italiani ad Auschwitz. Il progetto prevedeva non solo una ricerca documentaria sull’origine del memoriale (pubblicata in parte sul numero 69 della rivista “Studi e ricerche storiche” di Bergamo), ma altre azioni tra le quali: restauro dell’istallazione, recupero della musica di Luigi Nono e del depliant esplicativo con il testo di Primo Levi rivolto ai visitatori e accompagnato da una introduzione di Gianfranco Maris, dalla descrizione del progetto architettonico di Ludovico Belgioioso e degli affreschi di Mario Samonà.
Così, poiché il memoriale italiano ospitato nel Blocco 21 del campo base, contro ogni richiesta di aggiornamento e revisione (derivata anche dal gran numero di visitatori che da anni raggiunge il sito del Museo: 1.500.000 all’anno di cui 90.000 italiani) ha mantenuto il suo aspetto originario, la Direzione del Museo ha deciso di chiuderlo al pubblico, perché inadeguato alle finalità stesse del sito di Auschwitz-Birkenau: informare sulla storia, più che suggerire emozioni o stupore.
Alla chiusura, che risale all’inverno 2011/12, ha fatto seguito un’altra azione, senza che nessuna autorità istituzionale (Governo o Presidenza della Repubblica) o memoriale (Aned, Ucei ecc.) comprendesse l’importanza di farsi comunque carico delle richieste di “revisione” del Museo: l’eliminazione dalla facciata del Blocco 21 della targa segnaletica “Italia”.
La rigida posizione di chi difende ancora il memoriale storico, il silenzio delle istituzioni repubblicane e di gran parte dei mezzi di informazione, oltre a produrre i risultati già segnalati, rischiano di causare l’espulsione definitiva della memoria della deportazione italiana dal sito museale di Auschwitz.
Forse si rende sempre più necessario distinguere tra storia della memoria della deportazione (e allora il Memoriale del Blocco 21 troverebbe un’ottima collocazione in un museo italiano) e strumenti che consentono al visitatore di oggi di comprendere e leggere senza equivoci (necessariamente impliciti in un’opera d’arte) il passato e lo sterminio degli ebrei italiani ad Auschwitz. Forse, sarebbe necessario riprendere, prima che sia troppo tardi, il dialogo con la Direzione del Museo di Auschwitz-Birkenau, per fare in modo che non sia definitivamente cancellato il nome dell’Italia da quel luogo così importante per comprendere, oltre la storia e la memoria, il nostro presente e il nostro futuro.
Sarebbe, infine, utile ai tanti giovani italiani che raggiungono con la scuola o la famiglia Oswiecim sostenere la necessità di ricordare, anche solo con una targa alla memoria, il sito dell’ex campo di Auschwitz-Monowitz, non compreso nei luoghi museali (oggi villaggio di Monowice), che fu il luogo di deportazione di Primo Levi e di tanti italiani che vi persero la vita; considerando anche che la fabbrica (Buna-Monowitz) in cui lavorarono, pur ridotta dal tempo e dall’incuria in macerie, è ancora visibibile e visitabile. Sarebbe quest’ultima un’occasione straordinaria per dare corpo ai racconti e alle parole di Primo Levi nel suo Se questo è un uomo.
Frediano Sessi