Home LibertatesTribuna Ci Scrivono ELLY SCHLEIN SFIORA SOROS, MA L’ILLUMINISMO E’ MORTO: LA REALTA’ ESISTE

ELLY SCHLEIN SFIORA SOROS, MA L’ILLUMINISMO E’ MORTO: LA REALTA’ ESISTE

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“Non è importante che tu abbia ragione o torto, ma quanti soldi fai quando hai ragione e
quanto perdi quando hai torto”
George Soros

“La morte è la più geniale invenzione della vita perché spazza via il vecchio per lasciare spazio al nuovo”, parola di Steve Jobs il “cattivo”.
L’Illuminismo è morto, e la maggior parte delle persone a livello mondiale non se ne accorge. Incominciò a morire quarant’anni fa, quando William Waldegrave, Ronald Reagan e George Bush senjor deridevano George Soros come uno stravagante “visionario”. Averlo fatto è stato un grave errore, che pagheremo non con “Rearm Europe”, ma con l’ingresso di Putin in Europa.
Valga il vero. La teoria della spesa in disavanzo non può essere portata al “punto di equilibrio”, ma nemmeno il laissez-faire è universalmente valido.
Ho letto, gustandolo, su “Affari e Finanza” del 7 luglio 2025 la domenica del 30 agosto un bellissimo articolo di Raffaele Ricciardi “Pubblico e privato, la corsa a due delle grandi opere” che Nino Galloni, ex enfant prodige di Federico Caffè, farebbe bene a leggere: non si può ideologizzare la “Teoria generale dell’occupazione”; Keynes è stato l’erede di Adam Smith, nella superiorità schiacciante dell’opera rispetto all’autore. Ragione non è realtà, caro Galloni:

“Fin dai tempi dei romani, le infrastrutture sono state dirimenti per il successo dei Paesi”. Non ha dubbi Giovanni Fiori, ordinario di Economia aziendale alla Luiss, nel tracciare il “peso economico” delle grandi opere. “Non è solo una questione di moltiplicatore keynesiano: diventano un volano per lo sviluppo dei territori e dell’intero sistema. Viceversa, se c’è un gap infrastrutturale e i costi logistici diventano insostenibili, verranno meno anche gli investimenti”.

Tradotto: dalla teoria della spesa in disavanzo non si può prescindere perché ci vuole il business, ma il privato da solo non basta. Continua Ricciardi, in un articolo che andrebbe letto nelle scuole:

“Voce fondamentale, dunque, ma come può un Paese dal debito pubblico che sfonda i 3mila miliardi farsi carico di questi investimenti e chiudere quel gap? “Bisogna evitare le mitologie”, dice Fiori. “Negli ultimi anni il ricorso abbondante al partenariato pubblico-privato (Ppp) è stato dettato più da vincoli di finanza pubblica che da un disegno strategico. Infatti, in molti casi, si pensi ad alcune tratte autostradali, il ritorno che logicamente il privato richiede è andato a pesare sui costi finali per gli utenti”, annota. “Sulle infrastrutture importanti, quando servono per sviluppare un territorio che vive un ritardo: lì i soldi lo Stato deve metterli – scandisce Fiori (Giovanni Fiori, docente di Economia aziendale, ndr).”
Tradotto: spesa in disavanzo. D’altra parte, non va “ideologizzata”:

“Laddove, invece, c’è un potenziale mercato dinamico è corretto stimolare gli operatori a intervenire”. Se l’agenda di opere necessarie al Paese, tra nuove e da portare al passo coi tempi, è tanto vasta come dimostrato nelle pagine precedenti di Affari e Finanza, fare i conti senza il finanziamento privato resta utopico. (non ci può essere deficit spending senza laissez-faire, ndr)
Quale collaborazione è possibile? Nicola Porcari, head of structured finance di Bper Banca, parte dall’esperienza dell’istituto per suggerire come si possano “attivamente supportare le imprese, attraverso una vasta gamma di strumenti finanziari per i loro investimenti infrastrutturali. Nei settori tradizionali come le concessioni autostradali, aeroportuali e idriche – esemplifica Porcari – utilizziamo spesso operazioni di project financing in partnership pubblico-privato per ottimizzare il finanziamento e mitigare i rischi. Inoltre, ci concentriamo sulle infrastrutture digitali come fibra ottica, torri di telecomunicazione, e in generale operazioni volte alla modernizzazione digitale del
Paese”.
Esempi concreti sono rappresentati dalla “partecipazione ad operazioni di sistema quali Project Optics, nell’ambito dell’Lbo Kkr Fibercop (finanziamento di 222 milioni di euro) a supporto dei costi di realizzazione e gestione dell’infrastruttura informatica per la digitalizzazione della Pubblica amministrazione con sponsor quali Tim, Leonardo, Cdp Equity, Sogei. Questi investimenti non solo potenziano la competitività, ma promuovono anche la sostenibilità ambientale e sociale, valori che integriamo nei nostri processi di valutazione e finanziamento”. Nel mezzo tra i due poli, un ruolo lo gioca un istituto nazionale di promozione come la Cassa depositi e prestiti, che nel piano strategico 2025-2027 ha postato 9 miliardi di euro di impegni (su 81 miliardi complessivi) alla voce delle infrastrutture prevedendo una leva tale da consentire di sostenere investimenti per 34 miliardi di euro su 169 complessivi. “Cdp ha assunto un ruolo sempre più rilevante nello sviluppo delle infrastrutture nazionali offrendo un supporto addizionale e complementare rispetto al sistema bancario e focalizzandosi su durate coerenti con le necessità finanziarie tipiche dei settori infrastrutturali – spiega Andrea Nuzzi, direttore business di Cassa Depositi e Prestiti. Un Dna da finanziatore e investitore paziente, concentrato sul lungo termine, pienamente in linea con l’approccio sviluppato da tutti i principali Istituti nazionali di promozione europei”… “.

CDP= Stato, ma non gosplan sovietico (sic!) nella nazionalizzazione criminogena dell’economia.
Se private equity, venture capital e deficit spending fanno sesso, il passo successivo è ammettere che c’è una connessione diretta tra l’articolo “a-ideologico”, o caratterizzato implicitamente dalla rinuncia al “punto di equilibrio”, di Raffaele Ricciardi e il ragionamento post-kantiano di George Soros nel suo instant book “Per una riforma del capitalismo globale” edito da Ponte alle Grazie, che ha buttato giù il feticcio dell’Età dei Lumi (dove Lucifero mescola le carte); se la ragione non è la realtà, la seconda supera per importanza la prima e dobbiamo diventare umili:
“… Sono pochi i teorici dell’economia che riconoscono l’esistenza della riflessività: essi cercano di stabilire le condizioni di equilibrio, mentre la riflessività è fonte di squilibrio. John Maynard Keynes era acutamente consapevole dell’esistenza di fenomeni riflessivi: paragonava infatti i mercati finanziari a un gioco in cui ciascuno deve indovinare in che modo gli altri indovinano in che modo gli altri indovinano; ma anch’egli, per renderla accettabile a livello accademico, ha presentato la propria teoria in termini di equilibrio. Uno dei mezzi più utilizzati per evitare la riflessività intrinseca nel fenomeno del credito è di concentrarsi invece sulla massa monetaria circolante. Quest’ultima si può quantificare in modo che la sua misura rispecchi presumibilmente le condizioni del credito; cioè consente di ignorare i fenomeni riflessivi legati all’espansione e alla contrazione del credito stesso. Ma una massa monetaria stabile non crea un’economia stabile, come ha dimostrato l’esperienza della parità aurea. Gli eccessi possono anche autocorreggersi, ma a che prezzo? Tutto il XIX secolo è stato disseminato di crisi di panico devastanti, seguite da depressioni economiche, e attualmente stiamo rivivendo ancora una volta quell’esperienza. Negli anni Trenta, Keynes ha screditato il monetarismo, ma dopo la sua morte egli è caduto in disgrazia, perché la sua ricetta per curare la deflazione aveva fatto emergere tendenze inflazionistiche. Se Keynes fosse vissuto ancora, probabilmente l’avrebbe modificata (resta irrisolta la questione se abbia pagato con la vita l’obiettivo di presentare la propria teoria in termini di equilibrio, e mi piacerebbe affrontare la questione con Robert Skidelsky, ma temo che non succederà, ndr). Invece, l’obiettivo prioritario è diventato la creazione e la conservazione della stabilità monetaria. Ciò ha condotto alla reinvenzione della teoria monetarista da parte di Milton Friedman. Ma la tesi di Friedman ha il difetto di trascurare l’elemento riflessivo insito nell’espansione e nella contrazione del credito… “

Orbene, chi scrive non ha la razionalità omnicomprensiva di Soros, ma non è questo il punto e “la consapevolezza dei propri limiti rischia di essere auto-invalidante”, per citare lo stesso Soros.
Nell’intervista di Concetto Vecchio su “la Repubblica”, Elly Schlein sfiora Soros, ma lo rimuove dal quadro: la realtà esiste. Vediamo subito come, e commettiamo uno sforzo di umiltà: se
l’Illuminismo è morto, non possiamo farlo risorgere. Il ragionamento di Elly Schlein ha un’omissione importante: il programma della Open Society. Eppure, la stessa Schlein lo sfiora come Pierre Janet sfiorava l’inconscio… Lo statuto dei Comitati per le Libertà fondati da Dario Fertilio e Vladimir Bukovsky prevede di contrastare il comodo auto-condizionamento dell’ideologia:

“Elly Schlein, a Rimini Giorgia Meloni ha descritto un’Italia col vento in poppa.”
“Sono stupita. Da tempo la premier comunica con monologhi senza contraddittorio. Discorsi autocelebrativi che negano la realtà”.
“Ha detto che l’Italia non è la più malata d’Europa.”
“Ma le pare possibile che non abbia mai citato la sanità pubblica, i dazi, dimenticato la scuola pubblica? Che non abbia detto una parola su salari e precarietà, quando questa estate un gran numero di italiani non è riuscito nemmeno a partire per le vacanze. Niente, tutto rimosso”.
“Non è un fatto che c’è più lavoro di prima?”
“Ma lei dimentica che ciò è dovuto agli investimenti del Pnrr e su cui rivendica primati inesistenti, perché usa i numeri assoluti e ovviamente siamo i maggiori beneficiari in Ue. Dentro quei dati sull’occupazione c’è troppo lavoro povero e precario. Poi se uno va a vedere nel dettaglio scopre che l’occupazione è aumentata tra gli over 50, mentre i giovani fanno fatica come prima, il 31,5% delle donne occupate lavora in part-time contro l’8 degli uomini, e la metà con meno di ottomila lordi l’anno? Part time forzato, perché non trovano di meglio”.
“Quindi il lavoro c’è, ma è più povero?”
“Spesso da fame proprio, al punto che si fatica ad arrivare a fine mese considerato l’aumento del costo della vita. Ma per Meloni se una cosa va bene è merito suo, se no al contrario è colpa degli altri”.
“L’aumento dell’occupazione è propaganda?”
“Sceglie i dati che convengono e nega gli altri. L’economia frena, i dazi peggioreranno le cose e ancora non ci ha detto come intende aiutare imprese e lavoro. L’occupazione cresce più del Pil, e non aumentano le ore lavorate: sono dati eloquenti”.
“Meloni però ha promesso una cura per il ceto medio.”
“Sembra sempre che sia arrivata al potere ieri, mentre governa da tre anni”.
“La convince il piano casa?”
“Anche qui. Noi sono tre anni che diciamo che c’è un’emergenza abitativa e facciamo proposte, Salvini ha annunciato almeno trenta volte un suo piano casa, ma l’unica cosa che hanno fatto è stato togliere il fondo per l’affitto, 330 milioni per chi rischiava lo sfratto”.
“Qual è la vostra proposta?”
“Il fondo va ripristinato e triplicato e occorre recuperare le case popolari sfitte. Quando ero vicepresidente in Emilia Romagna con un investimento di dieci milioni abbiamo recuperato 730 alloggi in sette mesi. Pensi agli studenti fuorisede: con gli affitti alle stelle si mina il diritto allo studio. E’ un tema enorme. Ma fin qui la destra ha fatto solo condoni”… “

Se il fondo per l’affitto va triplicato, abbiamo il deficit spending. Ma non compare questa parola nel ragionamento della segretaria Schlein senza Soros.

“Cosa farebbe se fosse al governo?”
“Due cose, per cominciare. Introdurre il salario minimo, che c’è in ventidue paesi (e che Draghi ha bocciato a fortiori con quella cocciutaggine monomaniaca che almeno, in Ugo La Malfa, aveva uno sfondo più positivo, nda)… E in secondo luogo intervenire sul costo dell’energia. Disallinearlo da quello del gas, ed impedire così di avere le bollette più care d’Europa. E’ una delle principali ragioni di perdita della competitività delle imprese… “. Ma Elly Schlein ignora che il vulnus dell’ideologia non condiziona soltanto Giorgia Meloni, ma oscura anche il contributo di Carlo Cottarelli; è “l’eterno ritorno dell’uguale” dal Novecento ad oggi. Non ci rimane che la Fallibilità come carta di riserva,
nella fine dell’ordine mondiale sorto dall’89.
E’ importante l’intervista di Miriam Di Peri a Michele Guerra, sindaco di Parma, in guerra contro la povertà.

“Un piano casa che guardi soltanto alle famiglie?”
“A Parma il 40% dei nuclei è composto da una sola persona, qui affrontiamo la questione da almeno tre anni, ma lo Stato è il grande assente” (non c’è un New Deal, in altre parole, ndr).
Il sindaco di Parma, Michele Guerra, a inizio mandato ha varato un piano per ammodernare 600 alloggi popolari sfitti o abbandonati, riuscendo ad abbattere i costi e dare una risposta all’emergenza abitativa in fretta.”
“Sindaco, ha ascoltato l’annuncio della premier sul piano casa?”
“Spero segni un’inversione di tendenza rispetto al passato. Parma si è affidata a fondi comunali, regionali ed europei. E accanto a questi abbiamo potuto contare su finanziamenti importanti da parte della fondazione Cariparma. Purtroppo il grande assente è lo Stato, che ha tagliato il fondo affitti, così come i tagli ai Comuni stanno incidendo, mettendo a rischio i servizi ai cittadini”.
… “Per questo davanti alle parole della premier auspico che ci sia davvero un’inversione di tendenza rispetto al passato. Fino ad oggi abbiamo visto solo molti tagli, la Regione per fortuna non ha tagliato, ma possiamo dire che il nostro piano casa sia sostanzialmente un progetto made in Emilia Romagna. E adesso stiamo lavorando a una fondazione”.
“Perché?”
“Si chiamerà Parma housing centre e vedrà tra i soci il Comune, l’università, l’azienda sanitaria. Ognuno di questi soci ha difficoltà a garantire il diritto all’abitare agli studenti o ai lavoratori”.
“E la fondazione come potrà intervenire?”
“Come elemento di mediazione tra chi cerca casa e i proprietari di appartamenti sfitti che hanno paura di insolvenze o danneggiamenti. La fondazione tutelerà i privati in caso di danni o insoluti. In cambio, i privati metteranno a disposizione gli immobili a canoni accessibili”… “.
Attenzione, perché “il Diavolo è nei dettagli” (Victor Hugo e Friedrich Hegel, ndr). Fanfani, un po’ fetente, era contrario al partenariato tra pubblico e privato guardando all’Inghilterra con un “complesso semi-coloniale” (avrebbe detto Gianni Agnelli). Fu una grande occasione sprecata: i “cavalli di razza” della Balena Bianca non avevano l’impostazione su Keynes che ha Robert Skidelsky. Se Keynes è stato l’erede di Adam Smith – la grande tragedia della sua vita –, bisogna rinunziare all’opzione dell’ideologia. E infatti… abbiamo un problema.
Non è ideologica soltanto la lettura di Giorgia Meloni, ma lo è anche quella di Carlo Cottarelli, ordo-liberale fino alla morte e probabile prossimo presidente del Consiglio in caso di crisi finanziaria, nell’intervista di Tagadà:
“Il Piano Fanfani mi sembra abbia creato oltre 350.000 case, nuove abitazioni, in un periodo in generale in cui la presenza dello Stato era importante in quest’area; l’edilizia popolare è andata avanti poi per decenni; si è praticamente esaurita negli anni Novanta, fondamentalmente perché non c’erano più soldi. Il debito pubblico era aumentato comunque; si sono usate le risorse dello Stato per altre cose, e quando il debito è cresciuto molto c’erano pochi soldi rimasti per fare altre cose, anche perché la spesa per gli interessi sul debito è aumentata; da lì si è provata un’altra strada, lasciata molto spesso alle Regioni. Ma è chiaro che c’è un problema molto serio di produzione di case a prezzi che siano (accessibili, ndr); bisogna trovare i soldi, e i soldi non è che siano tantissimi… “

Herbert Hoover lasciava morire di fame la gente, pur di non far intervenire lo Stato nel 1930 nella sua fede ideologica nel laissez-faire; se Cottarelli fosse oggi al governo, lascerebbe morire di fame la gente in perfetta buona fede.
Capite perché dobbiamo diventare Fallibili?
Ma il Fascismo è già iniziato, autobiografia della Nazione.

di Alexander Bush