IL DIVO NON ERA GIULIO ANDREOTTI

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“Chi non vuol far sapere una cosa, in fondo non deve neanche
confessarla a se stesso, perché non bisogna mai lasciare tracce”
Giulio Andreotti

Siamo già entrati nella III guerra, senza accorgercene. “Dall’interno è tutto normale”, è la frase meglio riuscita di Maurizio Raggio. Raccolgo l’appello di Concita De Gregorio su “la Repubblica” dell’11 agosto 2025: “… State a casa e leggete un libro bellissimo… “. “E’ un’estate anche questa”, conclude amaramente l’ex direttrice de “L’Unità”. Oppure, in alternativa, guardate un film. Mentre, però, la democrazia repubblicana sta venendo giù ad una velocità impressionante. La hybris senza talento di Giorgia La Superba ci presenterà il conto nell’ora più buia.

Ho rivisto per l’ennesima volta Il Divo di Paolo Sorrentino. Il diniego ha interamente caratterizzato la vita di Giulio Andreotti, come quella di Sorrentino, l’erede di Federico Fellini nel bene e nel male, sceneggiatura al merito di Giuseppe D’Avanzo con la collaborazione di Paolo Cirino Pomicino, master piece. O la mediocrità del master piece. Ma come ha ben detto lo stesso Sorrentino in un’intervista di un anno fa, “meno si sa su se stessi meglio è”.
Sante parole. L’illuminazione freudiana del buio non è Bene in quanto tale, ed espone al rischio che “se guardi l’abisso, l’abisso ti guarda” per parafrasare Friedrich Nietzsche. “Troppa luce rischia di accecare”, come dirà lo stesso Andreotti a Gianluigi Pellegrino, presidente della Commissione Stragi. Persona e personaggio: questo assetto dicotomico era presente in Andreotti, che si mise letteralmente la maschera del Divo (senza saperlo, per fortuna). Salvato o protetto da Alcide De Gasperi, – “i perseguitati diventano persecutori”, vedi Bruno Orsini, come dimostra il film “Segreti di Stato” di Francesco Benvenuti – si laureò con 110 e lode con la tesi “Personalità di un delinquente nel diritto della Chiesa”: il trucco della “proiezione”, ancorchè a sua insaputa.
Ma delinquenti, si nasce o si diventa?
Come aveva scritto nel suo coccodrillo su “la Repubblica” del 7 maggio 2013 Eugenio Scalfari nell’idiosincrasia al veleno verso il Gobbo che l’analista lacaniano Mauro Siri aveva notato, commentando l’editoriale, al bar Mangini a Genova con chi scrive – ma dal 1978 al ’90, Scalfari era stato il confidente di Francesco Cossiga da cui aveva appreso che nulla costui potè fare per salvare Aldo Moro in quanto il Divo aveva deciso che doveva morire e si può capire l’antipatia verso il leader democristiano –, aveva una certa propensione al malaffare condivisa con Moro.
Se uno era il Divo, l’altro era l’Antelope Kobbler, nome in codice affibbiato a Moro dal Dipartimento di Stato Usa sotto la guida di Kissinger: uno degli intestatari della tangente Lockheed.
Moro lo ha pagato con la vita. Andreotti non ha pagato con la vita il Conto Spellman allo Ior (22 milioni di euro) nella maxitangente Enimont, ma ha tratto il massimo vantaggio dal suicidio di Raul Gardini come ha detto Antonio Di Pietro nell’intervista a Susanna Turco nel febbraio del 2020 su l’Espresso acquisita in Corte d’Appello al processo trattativa Stato/Mafia.
C’era una differenza fondamentale tra l’enfant prodige, anche sotto il profilo anti-sociale, di De Gasperi e lo stratega delle “convergenze parallele”: Moro era più fragile. E’ pericoloso delinquere, se si è fragili. Per commentare la bellissima intervista di Antonino Monteleone a “Linea di confine” al giurista primus inter pares Giuliano Amato, “Moro non è più Moro” fu la diagnosi fatta dal Comitato anti-crisi del Viminale da Franco Ferracuti e Steve Pieczenick. Persona e personaggio, finzione e morte. Amato non era d’accordo con questa impostazione, chi scrive invece sì. O morire di ciclotimia, che Moro affliggeva (non Andreotti). Durante il sequestro di Moro, Cossiga stette male con i sintomi del disturbo bipolare e chiederà aiuto allo psichiatra double face Franco Ferracuti (iscritto alla P2), che riferiva poi il contenuto delle sedute terapeutiche al Venerabile Gran Maestro Licio Gelli. Nulla poté fare per impedire la fabbricazione del falso comunicato n.7 delle Brigate Rosse e fu una sofferenza atroce condivisa con il fondatore de “la Repubblica”, che si porterà
questo segreto nella tomba. Il giorno stesso dell’aprile 1978 in cui uscì il documento apocrifo, Steve Pieczenick partirà per gli Stati Uniti con un biglietto di sola andata. “Temevo di essere ucciso e non mi fidavo di Andreotti, un uomo pericoloso”.
Per dare un’idea della distanza tra personaggio e persona nell’assetto anti-sociale del Gobbo, vale qui la pena citare il ritratto che di Salvo Lima stese Giuseppe Carlo Marino nel bel libro “I padrini” edito da Compton editori, perché il 12 marzo 1992 l’ex sindaco di Palermo che prese impegni poco “ortodossi” nell’abitazione di Ignazio Salvo agli arresti domiciliari con il capo della Cupola Totò Riina per acquisire meriti presso il grande Capo, scappava per le strade di Mondello dai killer di Riina che lo inseguivano in motocicletta, ma in realtà scappava da se stesso e perdeva la maschera sotto i colpi di mitra (una morte orrenda, come aveva osservato Vito Ciancimino) nello stesso contesto temporale in cui dovevano essere rapiti i figli di Andreotti per il tradimento degli impegni presi in ordine al maxi-ter; “Salvo Lima, il padrino degli onorevoli”:

“Il suo motto famoso, universalmente apprezzato a Palermo, era: “mangio e faccio mangiare”. A chi scrive, avendo allora abitazione nel palazzo dove lui teneva studio, riesce facile ricordarselo in pompa magna, ovvero in pubblica e benefica esposizione, sul largo marciapiede della via Francesco Crispi, sotto i portici, all’altezza del civico 108.
Si chiamava Salvatore Lima, Salvo o “Salvino” per gli amici: amici, da Andreotti in giù, nel lungo corteo degli inseparabili cugini Ignazio e Nino Salvo (gli esattori, i titolari del famoso aggio esattoriale del 10%) e del potente conte-imprenditore Arturo Cassina, fino ai cari Bontate e ai Badalamenti e ai Buscetta. A quel tempo (l’anno 1978), era in buoni rapporti anche con i comunisti, per le necessarie consultazioni politiche, e i relativi intrecci, con gli andreottiani nel quadro della politica di “unità nazionale”. Assai signorile ed elegante (con una certa calcolata e, quindi ancor più elegante, trascuratezza), Lima, prima o dopo le riunioni di studio, amava sostare a lungo sul marciapiede sotto i portici, offrendosi generosamente ad una massa strabocchevole di clienti e ammiratori, tra i quali, a parte varie decine di semplici questuanti, si individuavano spesso distinti professionisti ed infermieri, semplici impiegati e primari ospedalieri, accademici e graduati della Forza pubblica, medici e marescialli in pensione, magistrati e dentisti, avvocati e imputati a piede libero, notai e farmacisti, funzionari di alto rango della Regione e dello Stato, nonché numerosi “onorevoli” di seconda o terza categoria (deputati o deputatini nazionali, consiglieri regionali ed affini, qualche sottosegretario del governo in carica, persino qualche ex ministro della Repubblica) che lui, pur con signorilità, soleva trattare scostantemente da famigli. Molti gli dovevano carriere ed onori. Moltissimi sostavano fiduciosi in lista d’attesa, per richieste di posti, aiuti, sistemazioni varie o promozioni. I ricordi di quel vortice di segni, gesti, brusii, risate, invocazioni, applausi, valgono per la memoria almeno quanto i documenti. Una grande scena barocca, da Sicilia spagnola, in occasione delle visite dei viceré. Lui, l’atteso, l’invocato, appariva monumentale (per quanto fosse di altezza medio-normale e di normale-media corpulenza) tra i tavolini del bar “Imperatore”, rubando spesso la scena a Franco Franchi, l’attore comico che aveva anche lui abitazione in quel palazzo. Al suo arrivo, un attimo di silenzio segnalava l’universale emozione. Lui surrogava con il ciondolio del corpo il dinamismo bloccato della gestualità degli astanti che poi gli riprendeva intorno, sommergendolo in voci e scrosci di battimano. Si scuriva leggermente in volto per via di una certa naturale tendenza ad una torva seriosità, però, sulle labbra, un qualche artificio di smorfie segnalava la volontà di dispensare sorrisi; indi, esercitava la sua arte di selezionare nel vocio le domande pertinenti e di insinuarvi con levità le sue risposte provocando automatiche pause di silenzio; si imponeva programmaticamente austero, eppero’ vogliosamente disponibile, con le grandi orecchie aperte alle suppliche (richieste di posti o sussidi, raccomandazioni o punizioni) di cui qualcuno tra i segretari prendeva nota; si piegava o si irrigidiva, ben più che benevolo, avido di pubblico affetto, con gli occhi un po’ torbidi strizzati all’improvviso, forse per immaginarsi la “roba” di volta in volta implicita nelle richieste; dinamico senza eccessi, ora stringendo il braccio ad un vicino di fianco o una mano dinanzi, ora con una felpata pacca di benevolenza sulle spalle di un “amico” appena emerso dalla folla e prono ad un devoto saluto (il
quasi immancabile “benedica… onorevole!”), manifestava una più evidente inclinazione a consentire, annuendo, che a dissentire; talvolta privilegiava un vicino ritagliandosi uno spazio per farsi da canto con lui, in intima conversazione, a farfugliargli parole incomprensibili; comunque, coglieva i segni di quanti erano rimasti silenziosi in attesa di informazioni circa l’esito di precedenti richieste e rassicurava con un “già fatto… non c’è problema”, indicando con il dito il carnet di qualche segretario, oppure riaccendeva la speranza stringendo la mano al questuante e sussurrandogli “vedremo…!!”; sbuffava, intendendo dare così prova di modestia, se qualcuno enfatizzava la gratitudine per le grazie ricevute, quasi a dire, e lo diceva talvolta, “niente… è stato un piacere… il dovere di un amico”; comunque dava l’impressione di tenere tutto in mente sotto controllo e di conoscere a fondo e condividere ansie e bisogni anche al di là di quelli direttamente manifestatigli. Non era raro che qualcuno, inibito dall’ansia di parlargli e intimidito dal suo sguardo, comunque fortunato nell’impresa di avvicinarglisi, osasse infilargli una busta spiegazzata nelle tasche; lui, comprensivo e paterno, mostrava di gradire anche i foglietti volanti: li piegava con rapida cura, apriva la giacca e estraeva il portafogli dove, ostentatamente, ma con nonchalance, li riponeva; infine, ancora flemmatico e sincopato, annuendo ed origliando qui e là, guadagnava lo sportello della sua automobile; indugiava ancora in qualche imprevisto scampolo di conversazione (questa volta con personaggi autorevoli al seguito); dava le ultime disposizioni ai suoi diretti collaboratori e si infilava dentro, in partenza, accentuando le smorfie che segnalavano i sorrisi… “.

Di tutto questo, Salvo Lima è morto. Così è se vi pare.
Il personaggio di Lima moriva inseguito dagli assassini di Totò o Curto.
Ma non è molto diverso, tutto ciò, da quello che il collaboratore di giustizia rovinato dalla vita Francesco Marino Mannoia (fu uccisa sua madre per ritorsione della mafia e forse delle “menti raffinate”, e tenterà il suicidio) riportò in merito ad una circostanza che riguardava Giulio Andreotti; fu definito pentito credibile dalla Corte di Cassazione nel processo Andreotti ancorchè in mancanza della “probatio diabolica”, specializzato nella raffinazione della morfina base per l’eroina nei laboratori di Palermo: “Con riferimento a Giulio Andreotti ora mi sono ricordato un quadro particolare. Impazziva per questo quadro (di De Chirico, ndr). Alla fine Stefano Bontate e Pippo Calò sono riusciti a procurarglielo tramite un antiquario romano (che lavorava a Roma) amico del Calò. Non riesco a ricordare la natura del quadro, vale a dire che tipo di quadro fosse”. E’ un episodio sconcertante; il racconto di Mannoia, quand’ancora la magistratura giudicante non aveva raggiunto alcune certezze, aveva provocato l’ironia di Enzo Biagi: “Se fosse vero, Andreotti sarebbe deficiente”. Un’altra circostanza è degna di essere menzionata. Nel luglio del 2020 a Camogli, in occasione della trasmissione in tv del documentario-intervista di Tatti Sanguineti, la domestica di Hanne Winslow esclamò: “Andreotti è (era, ndr) strano, non è autentico!”.
Essere o non essere: ecco il dilemma… Nel luglio del 1979, telefonando all’“eroe borghese” Giorgio Ambrosoli, il massone-uomo d’onore Giacomo Vitale, cognato di Stefano Bontate, dirà al curatore fallimentare della Banca Privata Italiana di Michele Sindona che il “capo grande” della mafia era Andreotti, non Sindona; Ambrosoli verrà ucciso sotto il portone di casa sua a Milano. Come dirà il pubblico ministero Guido Viola nella sua requisitoria per l’omicidio Ambrosoli, “Ambrosoli non sarebbe stato ucciso senza l’appoggio di Andreotti a Sindona”. Le telefonate minatorie al commissario liquidatore – rara avis per rettitudine e intransigenza – sono state acquisite agli atti del processo Andreotti, e in esse Ambrosoli contestò al picciotto che parlava in maniera sgrammaticata che Andreotti si era del tutto inventata la circostanza che Carlo Azeglio Ciampi avrebbe dato il suo assenso ai piani di salvataggio della Banca Privata: “… Ma come fa a inventarselo il presidente del Consiglio?”.

Recentemente, al programma “Linea di confine” di Antonino Monteleone – che ricorda Corrado Augias da giovane – nella trasmissione dedicata a Raul Gardini, è stato intervistato tra gli ospiti Stefano Zurlo, che giustamente rilevava che il fallimento della fusione tra Eni e Montedison, o il closing fallimentare di Enimont tra il 1990 e il 1992 è l’inizio del declino industriale del nostro Paese. Orbene, la nemesi del Contadino o del Corsaro era Andreotti, che si servì degli “uomini comunicazione” della P2 per fare scacco matto all’erede di Serafino Ferruzzi; per il Gobbo, l’alternativa a questa strategia odiosamente anti-sociale – come aver licenziato la mitica segretaria Enea senza neppure farle una telefonata, perché si era ammalata – era essere arrestato come l’intestatario del Conto Spellman allo Ior aperto da monsignor Donato de Bonis. Andreotti – sia detto di passata – non esce bene dal bellissimo libro di Carlo Sama “Caduta di un impero. Montedison Ferruzzi Enimont”. Ecco la trascrizione quasi integrale della scioccante intervista di Susanna Turco ad Antonio Di Pietro su “l’Espresso” a inizio pandemia alla voce “Vi racconto la vera storia di Mani pulite – La maxitangente Enimont andò anche a Salvo Lima. Per conto della mafia e di Andreotti. Che sarebbe stato arrestato se Raul Gardini non si fosse ucciso.”; questa intervista è stata acquisita processualmente al dibattimento cosiddetto “Trattativa” ed è causalmente legata alla pronunzia di assoluzione del generale dei Ros in pensione Mario Mori e di Giuseppe De Donno:

“Le rivelazioni dell’ex pm: “Craxi? Ma Craxi era solo uno dei tanti”. D’improvviso, allo scoccare della seconda ora e mezza di conversazione, con quel suo modo un po’ buffo e stratificato di parlare – sopra approssimativo, sotto preciso, fulmineo – Antonio Di Pietro, 69 anni, ex pm, ex politico, oggi avvocato sostanzialmente lontano dalle scene, butta giù l’ultimo feticcio che era rimasto in piedi di una pagina che ripercorre in un modo mai visto… Ecco lui, uomo di tanti snodi chiamato a parlare di Craxi, quando apre la porta di casa per prima cosa parla del Codice Penale. Ti accoglie così: “Scusi, ma il 323, io non l’ho mai contestato? Non mi ricordo di averlo fatto”.
“Prego? Il 323?”
“L’abuso d’ufficio adesso va molto di moda. Io l’ho sempre considerato una sconfitta dello Stato. Perché vuol dire che non hai la forza di scavare un po’ meglio. Lo dico perché, a differenza di Piercamillo Davigo, che è sempre stato monolitico sul tema – per lui sei colpevole fino a prova contraria – io ormai… Prendete il Codice: al primo capitolo ci sono i soggetti processuali. Ecco, io ho fatto il poliziotto, il giudice, il pm, il testimone, la parte lesa, la parte civile, l’indagato, l’imputato: mi manca soltanto il “responsabile civile per le ammende” e le ho fatte tutte. Ho messo talmente tanti abiti, ho visto così tante giustizie, che le certezze granitiche di Davigo non ce le ho più, perché dipende dai vestiti che indossi, prima cosa. Secondo: sono convinto che noi del pool di Milano abbiamo creato un effetto positivo, ma anche una conseguenza non voluta: pur nell’entusiasmo generale abbiamo creato tanti dipietrini. Già all’epoca: è stato quello che ha bloccato Mani pulite”.
“A bloccare Mani pulite sono stati i magistrati?”
“Mani pulite non è stata fermata dalla politica: è stata fermata dai giudici. E’ una storia che va riscritta, prima o poi. La politica non la poteva fermare, se i giudici avessero fatto il loro dovere. Mani pulite si ferma oggettivamente quando si rompe l’unicità dell’inchiesta. La sua forza era infatti nel cosiddetto fascicolo virtuale, nell’idea cioè di creare una connessione probatoria tra tutti i fatti, per cui procedeva una sola autorità giudiziaria (e questo si allea con la separazione delle carriere, ndr). Ma nel momento in cui nascono i conflitti di competenza territoriale, il fascicolo si smembra: e allora non ha più tutti gli elementi, non si può più utilizzare, e soprattutto il pm che sta qua, non conosce l’insieme degli elementi del pm che sta là. E allora, nel 1994, ecco gli emulatori: Roma, Napoli, Catania, Foggia, Bari, Venezia, Genova etc. Oltretutto, invece che cercare il reato, ci si è messi a investigare per cercare se c’era un reato… Questo è un lato della faccenda: l’altro sta in quello che è successo a me con la vicenda di Filippo Salamone, il dossier Achille, di cui ho parlato nell’aula bunker” (ma George Soros direbbe che sono due lati della stessa faccenda, poiché “le idee hanno conseguenze” per parafrasare Friedrich Hegel, ndr).
“A Palermo ha detto anche che Mani pulite si interrompe quando arriva alla connessione appalti-mafia. Partiamo da qui?”.
“Parliamoci chiaro. Ho intenzione prima o poi di parlarne, sto portando le mie carte e i miei
documenti un po’ qua e un po’ là, nell’indecisione di cosa farci: io e mia figlia le vogliamo bruciare, mio figlio e mia figlia dicono di no.”.

di Alexander Bush

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Alexander Bush
Alexander Bush, classe '88, nutre da sempre una passione per la politica e l’economia legata al giornalismo d’inchiesta. Ha realizzato diversi documentari presentati a Palazzo Cubani, tra questi “Monte Draghi di Siena” e “L’utilizzatore finale del Ponte dei Frati Neri”, riscuotendo grande interesse di pubblico. Si definisce un liberale arrabbiato e appassionato in economia prima ancora che in politica. Bush ha pubblicato un atto d’accusa contro la Procura di Palermo che ha fatto processare Marcello Dell’Utri e sul quale è tuttora aperta la possibilità del processo di revisione: “Romanzo criminale contro Marcello Dell’Utri. Più perseguitato di Enzo Tortora”.

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