“Andreotti era un uomo normale”
Paolo Cirino Pomicino
“Ma se adesso si pensa di intitolare una strada a una persona esiliata, e si dice che Mani pulite è stata come piazzale Loreto. Sembra di vedere la storia in modo capovolto, ma ci sarà un modo per rivalutare questa storia. Ci sarà. Mani pulite non l’ho scoperta io: nasce dall’esito dell’inchiesta del maxi-processo di Palermo, quando Giovanni Falcone riceve, riservatamente, da Tommaso Buscetta la notizia che è stato fatto l’accordo tra il Gruppo Ferruzzi e la mafia. E Falcone dà l’incarico al Ros di fare quel che poi è divenuto il rapporto di 980 pagine: che doveva andare a Falcone, ma lui viene trasferito”.
“A Roma, come direttore degli affari penali al ministero di Grazia e Giustizia”.
“E il rapporto dei Ros rimane lì, a Palermo, in mano a Pietro Giammanco, che lo mette in cassaforte. Falcone, appena vede tutto questo, ne parla con altre persone. Ne parla con me, perché io stavo lì, al ministero, e lui nemmeno lo conoscevo. Ero perito elettronico, ero stato alla Difesa, mi occupavo di informatizzazione degli uffici giudiziari. Sono stato chiamato lì perché all’epoca nessuno sapeva come funzionava, e invece scoprono che c’è uno che capisce qualcosa di informatica. Così conosco Falcone, la Del Ponte, e vengo a sapere di questa realtà. Falcone aveva l’idea che doveva informatizzare questa cosa, quindi già nasce lì”.
“E l’altra persona a cui ne aveva parlato?”.
“L’altra era Paolo Borsellino: gli aveva detto di portare avanti quell’inchiesta del Ros. Con Borsellino ci siamo parlati ai funerali di Falcone: nella camera ardente, appoggiati alla colonna. E lui, che nel frattempo evidentemente aveva saputo che Falcone me ne aveva parlato, ripeteva: dobbiamo fare presto, dobbiamo fare presto. Io da parte mia ero partito due o tre anni prima, con Lombardia informatica. Dopo Capaci, Borsellino chiama, si arrabbia come una bestia, si fa dare il fascicolo da Giammanco e si mette a indagare. Chiama Giuseppe De Donno, Borsellino poi viene ammazzato. E io ho sempre sostenuto, ho anche degli elementi, che non è stato ucciso per quel che aveva fatto, ma per quel che doveva ancora fare in quell’inchiesta: non per il maxiprocesso insieme a Falcone, ma perché insieme a Falcone doveva far nascere Mafia pulita”.
“Mafia pulita?”
“Mani pulite non nasce con Mani pulite, nasce come figlia di Mafia pulita. E il mio obiettivo non era scoprire quello che ho scoperto: era arrivare al collegamento al quale già erano arrivati loro, a Palermo. Raul Gardini non si suicida così, per disperazione, il 23 luglio 1993: si suicida perché sa che quella mattina, venendo da me, doveva fare il nome di Salvo Lima, che aveva ricevuto una parte della tangente Enimont da 150 miliardi di lire”.
“Scusi ma è roba nuova questa?”.
“Ma no! Ne ho parlato con la procura di Brescia, Milano, ne ho parlato col Copasir, con la Procura di Palermo, a Caltanissetta, mi sembra che a nessuno interessi più di tanto, eppure è una storia drammatica”.
“Cioè, lei sta dicendo: la tangente Enimont era andata un pezzo anche a Salvo Lima, come rappresentante di Andreotti e della mafia”.
“Se quel fatto veniva detto, se Gardini parlava, se Salvo Lima non moriva, io avrei potuto avere elementi sufficienti per chiedere al Parlamento di arrestare Andreotti”.
“Si sarebbero saldate le inchieste, Milano e Palermo”.
“Invece all’improvviso le solite manine della delegittimazione mandano una marea di esposti contro di me alla procura di Brescia, che mi costringono alle dimissioni. Ma quando a me rimproverano: “ti sei dimesso”, possibile che nessuno si chieda perché l’ho fatto?”.
“Veramente ce lo chiediamo da 25 anni”.
“Sì, ma è da 25 anni che lo racconto alle autorità giudiziarie. Ma a quanto pare a nessuno fa piacere la mia risposta: era una scelta di campo. Se non mi fossi dimesso sarei stato arrestato, (per violazione dell’art. 289 del codice penale: attentato agli organi costituzionali dello Stato in relazione al cosiddetto avviso di garanzia Conto Protezione del 10 febbraio 1993, nda) perché le accuse fatte nei miei confronti lo prevedevano obbligatoriamente: c’era il concreto pericolo di
inquinamento delle prove, finchè ero magistrato. Dunque a Brescia avrebbero potuto arrestarmi. Proprio nel mentre io stavo arrivando alla cupola mafiosa grazie alle dichiarazioni che mi aveva fatto il pentito Li Pera su un certo Filippo Salamone, imprenditore agrigentino intermediario tra il sistema mafioso e il sistema imprese-appalti, il nord che veniva gestito soprattutto da Gardini e dalla Calcestruzzi spa di Panzavolta. Insomma Palermo arriva prima di me, nel 1992”.
“E lei quando ci arriva?”
“Io l’anno dopo. Con la morte di Falcone e Borsellino cambio strategia: mi dedico solo alle imprese, perché – mi dico – l’unico modo per arrivare a scoprire le malefatte di Tangentopoli e Mafiopoli non è più passare attraverso il reato di corruzione, ma di falso in bilancio. Cerco di arrivarci da quest’altro fronte: e vado avanti come un treno, fino a quando mi trovo di nuovo allo stesso punto, che è Filippo Salamone”.
“E lei si dimette”.
“Vengo a sapere molte cose anche io, perché in tutta questa storia ho una persona che mi sta idealmente vicina: Francesco Cossiga (in pubblico, il “Picconatore” sosteneva Andreotti e in privato faceva di tutto per fermarlo: il “doppio gioco” non è una scelta, ma una necessità, nda). Fin quando c’è stato lui sono stato rispettato dalle istituzioni”.
“Ma lei pure era un confidente di Cossiga, no?”.
“Eh sì, non solo di Cossiga se è per questo. Di questa storia sono due le persone con cui interloquivo: uno era Cossiga, l’altro era Montanelli. Lo può raccontare, se vuole, Vittorio Feltri, che ogni tanto era presente”.
“Sta raccontando Mani pulite e Palermo come un’unica storia”.
“Ma è così, una storia unica”.
“Mentre, nella percezione del 1992-93, il pool di Milano si occupava dei partiti, e loro si occupavano della mafia. Lei si occupava di Craxi, loro di Andreotti”.
“Tutti dicono che ho fatto Mani pulite per mettere sotto processo la Prima Repubblica. Io invece ho processato una persona sola: Cusani. Gli altri erano indagati per reato connesso. Il vero casino nasce quando io faccio il grande errore di non fidarmi di Gardini. Perché io capisco – lo capivo perché già lo sapevo – che dovevo arrivare a Gardini: con lui avrei chiuso il cerchio”.
“Se Gardini non fosse morto, quello invece che il processo Cusani sarebbe stato il processo Gardini?”.
“No: sarebbe stato il processo Mafia-appalti. Andreotti compreso”.
“Ma perché non si è fidato di Gardini?”.
“L’interfaccia tra me e Gardini è un ex procuratore aggiunto di Milano, che era diventato il suo co-difensore. Concordiamo tutto. Cosa Gardini dirà, e il fatto che se ne andrà con le sue gambe, cioè non sarà arrestato. L’accordo è che lui viene alle otto la mattina. Abbiamo la certezza che è all’estero, in Svizzera, quindi per venire da me deve andare a dormire da qualche parte. Per cui io faccio mettere carabinieri, finanza, polizia, a Milano, Roma, Ravenna. Non faccio capire nulla a nessuno. Quello per venire da me deve necessariamente rientrare in Italia: e da allora non mi deve scappare più. Perché anche io lottavo contro il tempo, c’era anche l’ipotesi di farmi fuori – non dimentichiamo. Comunque, a mezzanotte mi chiamano i carabinieri, uno di quelli del capitano Zuliani, e mi dicono: è arrivato a piazza Belgioioso, lo prendiamo? E io: no, mantengo la parola sennò non mi parla più. Poi mi chiedono, e io do, l’ordine formale di non arrestarlo. Se l’avessi arrestato ora sarebbe ancora vivo. Ora non so più quello che avrebbe messo per iscritto davanti a me. Alle otto mi telefona l’avvocato di Gardini, dice “stiamo arrivando”. Lui era già vestito. Da quanto mi riferisce il maggiordomo, si affaccia e vede i carabinieri. E pensa che io l’ho tradito. A quel punto: bum, è un attimo. Si è ammazzato perché era convinto che lo stavo arrestando… “.
Sembra di essere nel film “The Departed – Il Bene e il Male” di quel genio che è Martin Scorsese; è tutto così incredibilmente vero da sembrare impossibile. Ma manca una parte nella ricostruzione resa da Antonio Di Pietro (nomen omen). E’ una verità relativa. Non è la verità tout court.
“Il Diavolo è nei dettagli”, Victor Ugo e Friedrich Hegel. E’ quanto emerge – almeno in parte – dalla ricostruzione resa da Gianni Barbacetto nel suo libro “La beatificazione di Craxi. Le falsità e i luoghi comuni sul leader politico che continua a dividere gli italiani”:
“… Gardini capisce che dovrà dire tutto: cifre, segreti e ricatti che hanno segnato la breve vita di Enimont. Un’avventura fatta di sogni e tangenti. Oltre 152 miliardi finiti a quasi tutti i partiti politici italiani: dalla Dc al Psi, dal Pri al Psdi, fino alla Lega Nord, forse anche al Pci e all’Msi.
“Basta” sbotta Gardini, “concentriamoci sulla lettera”: quella che ha scritto una settimana prima, il 16 luglio (1993, ndr), appena saputo che la Procura aveva chiesto un ordine di custodia cautelare contro di lui (nella persona di Francesco Greco, ndr). Una lettera breve, appena 39 righe che cominciano così:
“Ill.mi signori procuratori, dr. Antonio Di Pietro e dr. Francesco Greco, io sottoscritto, Raul Gardini, assistito dai miei difensori, avvocati Giovanni Maria Flick e Marco De Luca, preso atto della pendenza presso il Loro ufficio di tutta una serie di indagini afferenti la situazione economico-patrimoniale del gruppo Ferruzzi, nonché varie ipotesi di dazioni di denaro a esponenti del mondo politico dal 1988 in poi, nonché infine fatti inerenti l’utilizzo personale di beni sociali, con la presente desidero portare a Loro conoscenza la mia più ampia e illimitata disponibilità a ragguagliare le S.V.Ill.me su tutti i fatti che saranno ritenuti per Loro di interesse.” (come ha ricostruito con la fantasia del romanziere Matteo Cavezzali nell’opera “Icarus. Ascesa e caduta di Raul Gardini”, Gardini era tra gli “stati misti”, come Idina Ferruzzi ha confermato, ndr)
In merito alle “dazioni di denaro a partiti politici e, più specificatamente, a personalità politiche” esplicita che si tratta anche di “vicende attinenti la joint venture Enimont”.
Alle sette del mattino di venerdì 23 luglio (1993, ndr), il maggiordomo di Palazzo Belgioioso, Franco Brunetti, serve la colazione e i giornali in un salottino adiacente la stanza da letto. Gardini, già sveglio, si alza e comincia a sbocconcellare un croissant. Quando il suo sguardo cade sulla mazzetta dei quotidiani, ha un sussulto. Su “Repubblica”, che anticipa un servizio del settimanale “Il Mondo”, campeggia un titolo a prima pagina: Tangenti, Garofano accusa Gardini. Il Corsaro scorre l’articolo e probabilmente si sente perduto. Per lui quella è la prova che in Procura qualcuno lo vuole imbrogliare: com’è possibile che le confessioni di Garofano siano finite, quasi in tempo reale, su quel settimanale? E perché sono uscite prima ancora che lui potesse raccontare la sua versione, mentre Flick gli aveva assicurato che c’era una “trattativa” in corso con il pool? E ancora: ciò che sta leggendo è tutto quel che ha detto il Cardinale, o c’è dell’altro?
Gardini non può immaginare che quella, come molte altre fughe di notizie, è opera non dei magistrati, ma di un giovane carabiniere in servizio alla Procura che passa fotocopie di verbali ad alcune giornaliste per farsi bello con loro. Pensa invece a una fuga pilotata, organizzata dai pm per colpirlo e affondarlo prima ancora di averlo ascoltato. Non sa che il pool è all’oscuro di tutto. Gardini afferra la pistola, una vecchia Ppk calibro 7,65, ormai fuori produzione, l’appoggia alla tempia destra e preme il grilletto. Il proiettile gli trapassa il cranio.
Mancano pochi minuti alle 8:30 quando a Palazzo Belgioioso arriva una telefonata. E’ l’avvocato Flick. Chiede di Gardini. Il maggiordomo gira la chiamata al “dottore” e lascia squillare l’apparecchio per qualche secondo. Inutilmente. Preoccupato per il lungo silenzio, corre in camera da letto. Gardini è riverso sul lenzuolo, con la pistola in mano. Cerca di fermare il sangue tamponando i buchi alle tempie con degli asciugamani. Chiama un’ambulanza, che arriva qualche minuto dopo le nove e corre a tutta velocità verso il Policlinico. Ma alle 9.07 il medico di turno dichiara il decesso.
Mani pulite vive uno dei suoi momenti più drammatici… “
C’è una leggera “non-coincidenza” tra la ricostruzione di Barbacetto e l’intervista – molto ben fatta – di Antonino Monteleone ad Antonio Di Pietro (giovani Augias crescono con vanitas e soprattutto, con la dignitas di una iena) per “Linea di confine”, perché – ricordiamolo – se si spaccano i
dettagli, emerge il Diavolo.
Monteleone: “… La mattina del 23 luglio (1993, ndr) ha un contatto telefonico con l’avvocato di Gardini (Giovanni Maria, ndr) Flick; a che ora ha saputo del fattaccio?”
“Praticamente nell’immediatezza, perché appena l’ho saputo – e non è lontano palazzo Belgioioso dal palazzo, Tribunale –, io ero già pronto per riceverlo; appena ho saputo, sono corso e l’ho trovato nel suo letto, diciamo così dove era rimasto caduto… dove s’era colpito.”
“Si ricorda il clima, l’aria che si respirava?”
“Di incredulità da parte mia; lo sconcerto, perché ero convinto che sarebbe venuto; cioè, tutto mi sarei aspettato meno che questo, e questo è stato uno degli errori di valutazione che ho fatto io, perché obiettivamente col senno del poi, un personaggio di quel genere – che è abituato a vincere – una sconfitta così pesante, avrei dovuto considerarla… “.
“Ma Gardini, avevate voi in quel momento elementi per indagarlo o addirittura arrestarlo?”
“C’era un provvedimento restrittivo nei suoi confronti.”
“Pronto?”
“No pronto, da eseguire. Sapevano che c’era un provvedimento restrittivo.”
“Cioè, lei ci sta dicendo che Gardini sapeva che sarebbe stato arrestato?”
“Certo… Veniamo al punto, sennò non ne veniamo a capo. Tra me e gli avvocati di Gardini – quindi mi assumo la responsabilità, che era condivisa anche negli altri; ho parlato io, quindi me l’assumo io la responsabilità – c’era un accordo per cui se lui mi avesse detto chi erano coloro a cui aveva dato il denaro – veniva con i suoi piedi, e se ne andava con i suoi piedi; questo era sostanzialmente (il “gentlemen agreement”, ndr); il problema di fondo è che Gardini non s’è fidato di me, tutto qui… “
“La domanda che le faccio è questa: la mattina del 23 luglio (1993, ndr), Raul Gardini si sveglia, scende e va a comprare il giornale; apre… “
“Non lo so questo.”
“Posso immaginare questo; è uscito di casa per comperare il giornale… “
“Non credo che sia uscito di casa”
“Però qualcuno gli ha portato i giornali”
“C’aveva il maggiordomo”
“Il maggiordomo gli porta il giornale, però legge “verbale di Garofano”… “
“(Di Pietro sorride da fuoriclasse della comunicazione, ndr) La storia del giornale l’ho letta anch’io sui giornali. So che avevo interrogato nei giorni precedenti Garofano.”
“Ci fu una fuga di notizie; è finito sul giornale.”
“Guardi, quei giorni uscivano stralci d’interrogatorio; io so di non averli fatti uscire, ma se l’ha saputo (Gardini, ndr) io questo non lo posso sapere; se ha saputo cosa aveva detto Garofano il giorno prima o meno; certo, è che Garofano ne aveva dette tante.”
“Le dichiarazioni di Garofano potevano mettere in discussione quell’accordo (tra Di Pietro e Gardini, ndr)?”
“No, io la mattina in cui Gardini si è suicidato, alle 8:00 e qualcosa, io ho parlato con il suo avvocato che mi aveva detto aveva parlato con Gardini, e stava preparandosi per venire da me”
“No, perché, nella mia testa cosa c’è? Immaginare che Gardini, con le sue gambe, viene in Procura; con le sue gambe esce; il giorno in cui tutti sono scioccati da quello che dice Garofano, che si legge nei verbali, un po’ impegnativo rimandarlo a casa libero… “
“Non è vero… Tenga presente che Gardini – è fatto noto – cioè tramite i suoi difensori aveva fatto già arrivare una lettera alla Procura della Repubblica, in cui si era dichiarato disposto a rivelare quanto a sua conoscenza –, non è una mia pressione, è lui che – preso atto di tutto ciò che stava accadendo nell’insieme dei suoi collaboratori; tramite il suo difensore ha mandato un’istanza specifica per essere interrogato con i suoi difensori… “
“Insisto, perché io quella mattina m’immagino il dottor Di Pietro che chiama l’avvocato e dice:
“Caspita, oggi veniamo, tutto a posto… “
“Non è mai successo; l’ho vissuta come una sconfitta, perché avrei potuto fare di più e di meglio.”
“Posso dire che il suicidio di Gardini fa tirare un sospiro di sollievo a tante persone, o sono cinico?”
“E’ cinicamente vera la sua affermazione.”
di Alexander Bush


