Un referendum che fa bene al Paese

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La riforma della Costituzione fortemente voluta da Matteo Renzi non è certo il toccasana per il nostro paese in crisi – come e più degli altri partener europei – ma, per quanti hanno sottoscritto il manifesto del Sì, potrebbe, se non altro, essere il primo colpo di piccone per rimettere mano seriamente a una Costituzione, che non è certo la più bella del mondo e che, nel giudizio di un grande liberale come Meuccio Ruini, era piena di lacune e difetti. L’eliminazione del bicameralismo perfetto, il ridimensionamento del potere delle regioni, la cancellazione dello sciagurato Titolo V della Costituzione— art. 114, La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato. I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione, sono motivi sufficienti, ad avviso di molti (politici, intellettuali, uomini della strada) per far chiudere un occhio davanti a un pacchetto di riforme non del tutto coerente e convincente. Per altri non meno pensosi e preoccupati delle sorti della Repubblica, al contrario, quei motivi o non sono validi o non bastano per giustificare il cambiamento.

Indipendentemente dagli esiti (ancora incerti) della consultazione di dicembre, almeno una cosa è certa. Grazie a – o per colpa di – Matteo Renzi, in ciò vero erede di Bettino Craxi, il cielo piatto e grigio della politica italiana si sta riempiendo di tuoni e bagliori insperati: le aree di centro destra e di sinistra sono sconvolte, vecchi sodalizi si sciolgono, amicizie politiche che sembravano incrollabili vengono meno.
Tanto per fare qualche nome, nell’area liberale i sostenitori del No – Francesco Forte, Piero Ostellino – divorziano da quanti ieri avevano come loro guardato con simpatia, all’attivismo del Cavaliere (Marcello Pera, Giuliano Urbani, Raimondo Cubeddu); a sinistra, studiosi di grande prestigio come Sabino Cassese e Giuseppe Vacca prendono le distanze dagli antichi sodali come Stefano Rodotà e da Massimo D’Alema. Per non parlare della carta stampata che, a destra, ha visto la rottura tra ‘Il Giornale’ di Alessandro Sallusti e ‘Libero’ di Vittorio Feltri e, a sinistra, ha visto i già distanti ‘Fatto quotidiano’ e ‘Repubblica’ allontanarsi l’uno dall’altra a velocità supersonica.
Non azzardo previsioni ma forse questo terremoto politico, nella sua trasversalità irriducibile, potrebbe, almeno sui tempi lunghi, essere di giovamento alla nostra democrazia. Almeno nel senso di liberare la destra liberale (o almeno una
sua parte consistente) dall’abbraccio mortale con famiglie ideologiche estranee al suo dna – a cominciare dai leghisti, ai quali non vanno giù la perdita di potere delle regioni e la riaffermazione dell’autorità dello Stato; e la sinistra riformista dall’estremismo postcomunista e neo-azionista, per il quale il termine ‘socialdemocrazia’ ha ancora il significato conferitogli dal marinaio Gennarino Corunchio nel film di Lina Wertmüller “Travolti da un insolito destino nell’azzurro
mare d’agosto” (1974).
Potremmo ritrovarci, in tal modo, un centro liberale non più costretto a inseguire alleati
inaffidabili e pieni di tossine antiunitarie e antirisorgimentali e una sinistra democratica, non meno amante della libertà dei moderni, e diffidente nei confronti dei teorici dei diritti che creano diritti, dei fanatici dell’apocalisse ugualitaria, dei
nemici implacabili della proprietà privata. Sarebbe, per dirla col vecchio Hegel, un caso esemplare di eterogenesi dei fini: si parte per riformare la Costituzione e si finisce per riformare una political culture sempre più estranea—nelle sue manifestazioni accademiche e festivaliere—ai valori della società aperta. Per la buonanima di Gianni Baget Bozzo, la destra non vince senza i suoi scomodi alleati leghisti; per Pierluigi Bersani, la sinistra non vince se non si riconcilia con gli indignados che la incalzano da ogni parte. Certo, nell’un caso e nell’altro, si vince ma il guaio è che poi non si governa giacché, senza valori forti e condivisi da tutti i membri di una coalizione, la sconfitta è dietro l’angolo e dietro l’angolo ci sono pure il populismo e l’antipolitica.
(estratto da “Il Foglio”)

di Dino Cofrancesco

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Dino Cofrencesco
Dino Cofrancesco è uno dei più importanti intellettuali italiani nel campo della storia delle dottrine politiche e della filosofia. E' autore di innumerevoli saggi e tra i fondatori dei Comitati per le Libertà. Allergico all'ideologia dell'impegno, agli "intellettuali militanti", ai profeti e ai salvatori del mondo, ai mistici dell'antifascismo e dell'anticomunismo, ha sempre visto nel "lavoro intellettuale" una professione come un'altra, da esercitarsi con umiltà e, nella misura del possibile, "senza prendere partito". Per questo continua, oggi più che mai, a ritenere Raymond Aron, Isaiah Berlin e Max Weber gli autori più formativi del '900; per questo, al tempo dell'Intervista sul fascismo di Renzo De Felice, si schierò, senza esitazione, dalla parte della storiografia revisionista, senza timore di venir accusato di filofascismo.

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