Rouhani, riformatore dimezzato o dissimulatore?

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stefano
Hassan Rouhani è realmente un “moderato”? Il presidente dell’Iran, arrivato al vertice del governo il 4 agosto, si è già creato una fama di modernizzatore, moderato, riformatore, riconciliatore. A tre mesi abbondanti dalla sua elezione è già possibile tracciare un bilancio. E il risultato, purtroppo per gli ottimisti della prima ora, non è così positivo come appare.
In primo luogo, il presidente ha potere decisionale soprattutto nella politica economica e nel mantenimento dell’ordine interno. Su questo secondo fronte, Rouhani si è già distinto per un record di esecuzioni capitali: 82 in appena 3 mesi, fra cui anche casi molto controversi e ormai drammaticamente noti. Uno dei condannati, Alireza M., è sopravvissuto all’impiccagione dopo essere stato appeso per ben 12 minuti. Solo all’obitorio di Bojnurd, nella provincia settentrionale del Khorasan, i medici hanno scoperto che respirava ancora. Ma i suoi parenti non hanno fatto a tempo a celebrare il miracolo che, il 16 ottobre scorso, un giudice, Nourollah Aziz Mohammadi pronunciava il suo terribile parere: “il condannato deve morire”. Da notare che non si tratta neppure di un pericoloso assassino, ma di un uomo, padre di due figli, accusato di spaccio di droga. Dal pronunciamento di ottobre è nato un interessante dibattito, in cui il governo e parte del clero sostengono che il condannato sopravvissuto abbia diritto di vivere, mentre un’altra parte della magistratura ritengono che debba comunque morire. L’ultima parola non spetta al governo: la magistratura dipende dall’Ayatollah. E un parere definitivo non è ancora stato espresso sul destino di Alireza. Questo caso è emblematico dei limiti, sia culturali che istituzionali delle riforme: non tutti ritengono che la legge debba essere interpretata in modo “liberale” e anche se fosse ci sono contro-poteri tradizionalisti che impongono l’interpretazione più dura.
Per il resto, le impiccagioni vanno avanti a ritmo accelerato per ogni tipo di crimine. Il 27 ottobre ci è giunta la notizia dell’esecuzione di ben 16 sospetti terroristi in un solo giorno. La sentenza viene eseguita in pubblico, con esposizione del cadavere a mo’ di esempio, nelle strade e nelle piazze delle città iraniane. Lungi dal considerarla una buona lezione, un traumatizzato ragazzino di 12 anni, chiamato Mehran, si è impiccato lo scorso 10 ottobre in un villaggio della provincia occidentale di Khermanshah, probabilmente per spirito di imitazione, forse per gioco, perché considerava le forche e gli uomini appesi come un’abitudine acquisita. Quel ragazzino è una vittima involontaria e collaterale delle esecuzioni di massa di questi primi mesi di Rouhani.
Le esecuzioni capitali, spesso seguite a processi tutt’altro che garanti dei diritti degli imputati, non sono l’unico problema di diritti umani. Dal 1 novembre, un’ottantina di carcerati della prigione di massima sicurezza di Evin (famosa per i prigionieri politici) sono in sciopero della fame, per ottenere un trattamento più umano. Evin è tristemente celebre per la “tortura bianca”: privazione del sonno e del senso del tempo del prigioniero, fino a spingerlo ai limiti della follia. Gli scioperanti di Evin accusano le autorità carcerarie di negare adeguate cure mediche. I prigionieri di coscienza e politici hanno contribuito notevolmente a espandere la popolazione carceraria in questi ultimi mesi. Soprattutto l’estate, a cavallo delle elezioni, è stata caratterizzata da numerose retate.
È in corso uno scontro sui diritti anche nell’etere e in Internet. Il governo sta raccomandando di alleggerire la censura sui social media, che nel 2009 furono il motore della Rivoluzione Verde e sono dunque potenzialmente esplosivi. Rouhani stesso è stato sostenuto dal popolo degli internauti. Almeno negli ultimi giorni di campagna, quando gli altri riformatori erano stati tutti eliminati dalla scena con metodi non democratici… In Tv, invece, sembra si proceda verso un’involuzione, con un ayatollah, Seyyed Hashem Hoseyni-Bushehri, che raccomanda di “non smitizzare il clero”, reintroducendo nuovi controlli e censure.
Sul fronte economico, finché rimarranno le sanzioni imposte dalla comunità internazionale a causa del programma nucleare, andrà avanti anche la crisi iraniana. Il commercio con la Cina cresce: aumentano le esportazioni di petrolio verso l’unica grande potenza (grande importatrice) contraria all’embargo. Ma il commercio con l’India e con il resto dell’Asia è invece gravemente danneggiato: l’Iran ha dimezzato le esportazioni di greggio in due anni. Il welfare state, pagato con i ricavi petroliferi, deve subire tagli, col rischio di ulteriori disordini sociali.
È precisamente la necessità di alleggerire le sanzioni che induce gli iraniani ad essere più concilianti (per lo meno nei toni) sul programma nucleare, discusso proprio a partire da ieri ai nuovi colloqui internazionali di Ginevra. Ma questa materia non dipende da Rouhani, né da alcun membro del suo governo. Il presidente, su questo aspetto, è più un portavoce che un decisore. Parla con i capi di Stato delle grandi potenze, può apparire più intransigente o più pragmatico a seconda dei casi, può fare tutte le telefonate che vuole, lunghe e storiche che siano, con il presidente statunitense Obama. Ma l’ultima parola sul programma nucleare spetta sempre all’ayatollah Khamenei. Che finora non pare aver cambiato mai idea, né rotta.

Stefano Magni

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