Portella della Ginestra, alleanze obbligate?


Una lettura originale dei fatti del 1947 e delle loro implicazioni politiche

Portella della Ginestra resta giustamente, nella storia italiana, il simbolo di una tragedia resa ancora più grande dal fatto che ancora oggi non se ne sono trovati, a livello giudiziario, i responsabili. Come si ricorda, nel 1947, un grande raduno di lavoratori e contadini per celebrare il primo maggio venne sciolto con la violenza da una banda armata di mafiosi agli ordini di Salvatore Giuliano: undici persone furono uccise e 27 gravemente ferite. Come già nel delitto Matteotti, i processi ,che si volsero a Viterbo (1952) e a Roma (1956), lasciarono l’amaro in bocca : si ebbe l’impressione che al solito, a volare fossero gli stracci mentre i veri mandanti della strage rimanessero impuniti. Secondo un copione spesso stancamente riproposto nella storia d’Italia, scoop e memoriali si sprecarono. Salvatore Giuliano, qualche anno prima di essere ucciso dal suo luogotenente Gaspare Pisciotta, aveva inviato, nel 1948, una lettera all’’Unità’ in cui si alludeva ai suoi rapporti con pezzi grossi della DC siciliana, tra cui Mario Scelba. In seguito, al processo di Viterbo, Pisciotta condannato per aver preso parte alla strage, dichiarò: “Servimmo con lealtà e disinteresse i separatisti, i monarchici, i democristiani e tutti gli appartenenti a tali partiti che sono a Roma con alte cariche, mentre noi siamo stati scaricati in carcere. Banditi, mafiosi e carabinieri eravamo la stessa cosa”, e minacciò rivelazioni scottanti che avrebbero compromesso i deputati Bernardo Mattarella, Gianfranco Alliata, Tommaso Leone Marchesano e ancora Mario Scelba. Com’è noto, nel 1954, sarebbe stato avvelenato all’Ucciardone. I sospetti su Matterella, nel 1992 , trovarono in Claudio Martelli un esponente—non di secondo piano– della classe politica disposto a crederli fondati “Bernardo Mattarella secondo gli atti della Commissione antimafia e secondo Pio La Torre (1976)—dichiarò l’ex ministro craxiano– fu il leader politico che traghettò la mafia siciliana dal fascismo, dalla monarchia e dal separatismo, verso la Dc”. Anche il sociologo Danilo Dolci, però, lo aveva accusato nel 1965– in un dossier presentato in una conferenza stampa e poi riprodotto nel libro Chi gioca solo del 1966–di collusioni con la mafia. “Mattarella – dicono le cronache – lo querelò, concedendogli facoltà di prova e, dopo un dibattimento durato circa due anni, con l’escussione di decine di testimoni e l’acquisizione di un’ampia documentazione, e durante il quale Dolci chiese che gli venisse applicata l’amnistia varata nell’anno precedente, Dolci fu condannato per diffamazione a due anni di reclusione, che non scontò per effetto dell’indulto approvato l’anno precedente”.
Ci troviamo dinanzi a uno dei tanti misteri irrisolti del Bel paese, che avrebbe ispirato, nel 1962, il bellissimo film di Francesco Rosi, “Salvatore Giuliano”, vincitore dell’Orso d’argento al Festival di Berlino, per la migliore regia, di tre Nastri d’argento. Il film, con le sue straordinarie, drammatiche, sequenze sembra avvalorare la tesi di un eccidio ordinato dalla politica e portato a esecuzione dalla mafia. D’altra parte ,il contesto politico italiano e internazionale autorizza a rendere la tesi plausibile. Il 13 maggio del 1947, infatti, Alcide De Gasperi metteva termine ai governi di unità nazionale, cacciava le sinistre all’opposizione e inaugurava un esecutivo (il quarto) che collocava l’Italia nell’area atlantica, sotto l’egida degli USA
Se dovessi dire quale idea mi sono fatto di questa intricatissima vicenda—in cui difficilmente si farà chiarezza anche se venissero aperti tutti gli archivi segreti di Roma e di Palermo—tenderei a escludere il coinvolgimento di alti esponenti democristiani nei fatti di Portella della Ginestra. Ma, nello stesso tempo, tenderei a ritenere tutt’altro che improbabile la loro complicità (diretta o indiretta) nell’affossare le indagini, nel depistare gli inquirenti e i responsabili delle forze di sicurezza che avrebbero voluto ‘andare fino in fondo’. La mia tesi è che sotto il profilo dell’etica pubblica è difficile, se non impossibile, giustificare i dirigenti siciliani dello scudo crociato ma sotto il profilo politico forse le cose vanno considerate in una ben diversa prospettiva.
Dopo aver rivisto – forse per la terza volta – il film di Rosi mandato in onda dalla RAI nell’ambito delle celebrazioni del 1° maggio, che hanno riunito a Portella della Ginestra i leader delle tre confederazioni – una decisione che ho molto apprezzato e che mi ha molto commosso – mi è capitato sotto gli occhi un articolo dell’Unità’ del 30 novembre 1946, Oggi ancora si parla di ‘profughi’, in cui l’odio per gli istriani, che fuggivano da Tito, si traduceva in una colossale e deliberata opera di rimozione del loro dramma. “Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre grandi città, non sotto la spinta del nemico incalzante, ma impauriti dall’alito di libertà che precedeva o coincideva con l’avanzata degli eserciti liberatori (…) Questi relitti repubblichini che ingorgano la vita delle città e le offendono con la loro presenza e con l’ostentata opulenza, che non vogliono tornare al loro paese d’origine perché temono di incontrarsi con le loro vittime, siano affidati alla Polizia che ha il compito di difenderci dai criminali, (…) coloro che sfuggono al giusto castigo della giustizia popolare jugoslava (…) essi sono indotti a fuggire, incalzati dal fantasma di un terrorismo che non esiste”. A rileggere queste pagine si rimane letteralmente inorriditi per la spietatezza dell’ideologia politica che portano allo scoperto e per l’esprit totalitaire che eleva la menzogna a verità e fa del Grande Fratello il padrone assoluto del pensiero.
L’esodo giuliano-istriano non ispirò alcuna opera cinematografica o teatrale – ove si eccettui il toccante film di Mario Bonnard, La città dolente (1948) completamente dimenticato et pour cause! -ma nell’immaginario collettivo di molti italiani, accanto ad altri episodi come il reggiano triangolo della morte, esso pesò come un macigno. Non fu solo la political culture di destra ma altresì quella liberale (conservatrice o progressista che fosse), a vedere- -a differenza dei cattolici sociali e degli azionisti – nella lotta al comunismo un vero e proprio ‘conflitto di civiltà’. Si parlò allora di crociate, ispirate dalle madonne che piangevano e dalla propaganda dei Comitati Civici, ma, fosse pure improprio il termine ‘crociata’ (che poi voleva dare l’idea del fanatismo religioso che scatenava le passioni degli anticomunisti), è innegabile che le paure risultassero ben fondate, se solo si pensa alle foibe, di cui si è ammessa l’esistenza soltanto dopo mezzo secolo.
In un clima da guerra civile incombente – nel 1947 i giochi non erano chiusi e i manganelli della Celere, su comando di Mario Scelba, questo grande ricostruttore della democrazia liberale in Italia, non avevano ancora riportato la legge e l’ordine – non meraviglia che il partito di maggioranza in Sicilia intendesse non dividere le forze politiche e sociali che avrebbero potuto fare da argine all’avanzata dei comunisti.
Quando una società è spaccata in due parti irriducibilmente antagonistiche, gli alleati, come la pecunia, non olent: individuato il pericolo maggiore, i nemici dei nemici diventano necessariamente amici. E’ quanto accadde negli anni in cui la croce uncinata aveva quasi unificato l’Europa dai Carpazi alla Manica e l’Impero nipponico minacciava di ridurre l’intera Asia orientale a suo spazio vitale. In quei frangenti, poteva rifiutarsi l’accordo con il più feroce e determinato dittatore del primo dopoguerra? I processi di Mosca, la soppressione di milioni di contadini, le deportazioni in Siberia, gli arcipelaghi Gulag non avevano certo impedito a Churchill e a Roosevelt di formare un triumvirato per la spartizione dell’Europa liberata dal nazifascismo che ricordava molto da vicino i triumvirati della Repubblica romana al tramonto. E, del resto, cosa poteva farsi di diverso dinanzi a una Germania nazionalsocialista che stava riportando il vecchio Continente all’età del ferro e sterminava milioni di persone non per le loro convinzioni politiche o la loro posizione sociale ma per la loro presunta, irredimibile, natura razziale? Nelle guerre totali, non si è liberi di scegliersi i collaboratori: quanti possono essere utili per la vittoria finale sono bene accetti—si tratti pure della mafia italo-americana, che agevolò lo sbarco degli americani in Sicilia. Destino tragico, questo, senza dubbio, ma, da sempre, iscritto in quella humana conditio che non consente di conseguire il Bene senza compromettersi con le forze del Male: i cristiani lo attribuiscono al ‘peccato originale’, Kant al ‘legno storto dell’umanità’.
Contro un totalitarismo di destra vincente non si rifiuta l’aiuto di un totalitarismo di sinistra, eguale e contrario, dinanzi alla minaccia di un totalitarismo di sinistra non ci si può permettere il lusso di respingere l’apporto delle destre e di quelle che, un tempo venivano chiamate le forze della reazione e del capitale. Scelba avrebbe voluto impedire la nascita del MSI nel tentativo di far rifluire nella DC – mettendoli al servizio della Repubblica – i nostalgici e quanti avevano creduto nel duce e nel suo regime: gli andò male (anche a causa del PCI che preferiva vedere i voti neofascisti congelati nel frigorifero della delegittimazione politica piuttosto che farli accaparrare dalla DC che se ne sarebbe rafforzata e che si sarebbe spostata più a destra con quegli apporti) ma il suo disegno aveva una sua logica impeccabile. Forse rientrava in essa la decisione di chiudere al più presto il fascicolo di Portella della Ginestra: una ridistribuzione delle terre imposta da un sindacato egemonizzato dal partito comunista avrebbe, infatti, creato un acuto conflitto sociale, sicuramente penalizzante per il partito democristiano, che sarebbe stato abbandonato dai ceti conservatori (proprietari e non), per non aver difeso la ‘proprietà’, e avrebbe consegnato l’isola ai ‘sovversivi’.E’ facile accusare e recriminare sul latte versato quando i pericoli restano un ricordo sempre più lontano nel tempo; e non serve a nulla pentirsi di aver accolto quei determinati alleati (divenuti poi ‘impresentabili’) dinanzi alla loro irresistibile ascesa nel vecchio continente e nel mondo.
“Abbiamo ammazzato il porco sbagliato!”, pare avesse esclamato Churchill sconcertato dall’espansione sovietica a macchia d’olio. Il grande statista sbagliava: con la Francia in ginocchio, la Scandinavia invasa (ove si eccettui l’ambigua e ‘neutrale’ Svezia) e l’Inghilterra minacciata incessantemente dalla Lutwaffe, il’ porco giusto’ era proprio il Fuehrer. Questa consapevolezza, però, dovrebbe indurci a non dimenticare mai che è il nemico principale e assoluto che decide le strategie e che queste possono portare a chiudere un occhio su sentenze -come le ricordate sentenze di Viterbo e di Roma – che non fanno luce su un episodio criminoso (che resta, comunque, tra le pagine più buie della storia italiana) e che, per questo, inducono a parlare, a mio avviso senza fondamento, di ‘strage di Stato’.
Forse è superfluo far rilevare che quando il pericolo totalitario è passato, le coalizioni ‘contro natura’ non hanno più ragione di essere e, se continuano a sopravvivere, fanno sospettare una ‘falsa coscienza’ ovvero il disegno di perpetuare contrapposizioni non più nell’interesse della comunità politica ma di determinate sue sezioni. Ne è un esempio da manuale l’antifascismo: il nemico non esiste più da settant’anni ma si continua ad evocarlo per tenere insieme uomini, culture politiche, partiti che non hanno nulla, o ben poco, in comune, a cominciare dai nemici della ‘società aperta’ che proliferano nei Centri sociali o nelle correnti estremiste del sindacato. Ma anche l’anticomunismo si è prestato, a suo tempo, alla bisogna: nelle zone più arretrate del paese, era il modo per legare individui e ceti allo status quo ed era proprio questa scoperta strumentalizzazione dell’occidentalismo e dell’atlantismo a portare a sinistra tanti giovani che non erano mossi da ‘idealismo’(come si dice retoricamente, quando si parla dei giovani che sarebbero, per natura, disinteressati) ma ingrossavano l’opposizione al sistema perché l’immobilismo sociale non garantiva loro nessun posto al sole.
In politica, come in tanti altri ambiti vitali, le alleanze non sono eterne: è il comune pericolo che le forma : quando “passata è la tempesta”, si sciolgono per ricomporsi su altre linee divisorie. Una storia, che voglia educare e non ‘indottrinare’, deve insegnare che le vicende del passato vanno viste nel loro concreto e specifico contesto e che non si possono valutare le nostre azioni di ieri sulla base di parametri etici e politici che abbiamo acquisito soltanto oggi. Ce l’ha insegnato la grande tradizione storicistica italiana da Benedetto Croce a Rosario Romeo, da Federico Chabod a Giuseppe Galasso.
Non era certamente mia intenzione assolvere i notabili democristiani degli anni 40 e 50 del secolo scorso dall’accusa di aver occultato la verità su Portella della Ginestra, come probabilmente avranno pur fatto. Ho solo voluto ricordare gli anni terribili in cui si sono trovati a vivere e quello che era per loro il periculum maius davanti al quale il minor cessat..

di Dino Cofrancesco

Sull'Autore

Dino Cofrancesco è uno dei più importanti intellettuali italiani nel campo della storia delle dottrine politiche e della filosofia. E' autore di innumerevoli saggi e tra i fondatori dei Comitati per le Libertà. Allergico all'ideologia dell'impegno, agli "intellettuali militanti", ai profeti e ai salvatori del mondo, ai mistici dell'antifascismo e dell'anticomunismo, ha sempre visto nel "lavoro intellettuale" una professione come un'altra, da esercitarsi con umiltà e, nella misura del possibile, "senza prendere partito". Per questo continua, oggi più che mai, a ritenere Raymond Aron, Isaiah Berlin e Max Weber gli autori più formativi del '900; per questo, al tempo dell'Intervista sul fascismo di Renzo De Felice, si schierò, senza esitazione, dalla parte della storiografia revisionista, senza timore di venir accusato di filofascismo.

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