Mostri d’Italia. Tracce di draghi tra insoliti resti e abili falsificazioni


Un grande rettile con ali da pipistrello, una lunga coda da serpente, zampe robuste dotate di artigli affilati e temibili fauci armate di denti aguzzi e in grado di emettere fuoco: questo è l’identikit ben radicato nell’immaginario moderno del drago, la creatura fantastica probabilmente più nota al mondo, quella che nella cultura occidentale cristiana è stata a lungo identificata con il demonio.
Tale concezione, dominerà per tutto il Medioevo e oltre ripercuotendosi tanto nella letteratura, quanto nell’iconografia europea attraverso il tema della eterna lotta ingaggiata dai difensori della Cristianità contro la leggendaria creatura, simbolo del paganesimo. Così, all’interno di chiese, santuari e abbazie troveranno ampio spazio le celebri raffigurazioni di santi-cavalieri colti nell’atto di trafiggere la terribile bestia.
Ma accanto a queste testimonianze, ve ne sono altre, decisamente più insolite, provenienti dal mondo naturale, che in passato servirono non solo per fornire ai fedeli la prova materiale dell’esistenza del male sotto le sembianze di questo mostro spaventoso, ma anche per dimostrarne l’esistenza come un fatto del tutto naturale.
Insoliti resti
Si tratta di reperti autentici, come le ossa di animali estinti (mammiferi preistorici) o viventi (perlopiù balene e coccodrilli), inusuali per forma o dimensioni, che per secoli vennero associate ai resti di questa creatura. Ancora oggi, possiamo ammirare questi strani resti all’interno di diversi luoghi di culto (e non solo) sparsi un po’ ovunque, nella nostra penisola.
La maggiore concentrazione di queste tracce è legata alle antiche tradizioni lombarde sui draghi pestilenziali che popolavano le acque dello scomparso “lago” Gerundo, una vasta area acquitrinosa formata dalle esondazioni dei fiumi Adda, Oglio, Serio, Brembo e Silero, che un tempo si estendeva nel territorio attualmente compreso tra la parte meridionale di Bergamo e quella settentrionale di Cremona.
E’ ben nota la storia di “Tarantasio”, un drago dall’alito pestifero che infestava le acque del Gerundo attorno a Lodi diffondendo epidemie e morte tra la popolazione; il supplizio finì grazie all’intervento di San Cristoforo: Tarantasio venne ucciso e la vittoria sul drago coincise con il prosciugamento delle acque del lago. Versioni più o meno analoghe di questa leggenda, ambientata nel Basso Medioevo, vedono entrare in scena diversi personaggi (la cui identità a dire il vero è piuttosto incerta) nel ruolo di uccisori del mostruoso rettile dimorante nel grande specchio d’acqua stagnante: tra questi, uno dei più noti, è Uberto Visconti, capostipite della dinastia, sul cui stemma – uno dei simboli più noti di Milano – troneggia un “drago-serpente” che divora un fanciullo.
E come non ricordare la storia del mostro di Calvenzano, piccolo centro abitato in terra bergamasca, dove la tradizione popolare narra che anticamente gli abitanti furono costretti ad erigere mura ciclopiche per difendersi dagli attacchi di un mostruoso serpente pestifero che infestava il Gerundo; sul finire dell’Ottocento, l’attuale via del paese dedicata ad Andrea Locatelli, era ancora chiamata “Via della biscia” a ricordo di questa vicenda.
Nei racconti sui draghi del Gerundo è ben evidente il legame con il territorio attraverso l’inscindibile binomio drago-palude interpretabile in chiave geomitologica: da un lato, l’alito pestilenziale del drago che possiamo ricondurre alle esalazioni dovute alla presenza di metano e idrogeno solforato nel sottosuolo; dall’altro, la sconfitta della mostruosa creatura testimoniata dal rinvenimento di resti fossili a seguito del prosciugamento del lago.
Sappiamo che nel XII secolo furono avviate delle opere di bonifica delle acque del lago; e si narra che successivamente, a Lodi, presso l’Adda, venne rinvenuto lo scheletro di Tarantasio, custodito per secoli nella chiesa dedicata a San Cristoforo. Si trattava probabilmente di un assemblaggio costituito da ossa di animali preistorici (resti fossili) e viventi: il naturalista Giovanni Battista Brocchi (1772-1826), nella sua Conchiologia Fossile subappenninica(1843), ci restituisce la descrizione di una costola del drago “ che fu al certo staccata dallo scheletro di un cetaceo preso nel mare…”; si trattava probabilmente di una delle tante donazioni effettuate dei fedeli, custodite nelle chiese come sacre reliquie. La descrizione del Brocchi resta l’ultima testimonianza di questo reperto.
Fortunatamente non tutte le tracce materiali dei draghi del Gerundo sono andate perdute: nel Santuario de La Natività della Beata Vergine di Sombreno, frazione di Palladina (Bergamo), è conservata la costola di un mammut identificata come tale dal naturalista Enrico Caffi (1866-1950) a cui è dedicato il Museo di Scienze Naturali di Bergamo; altre due costole gigantesche sono appese sulle volte delle chiese di San Bassano, a Pizzighettone (Cremona) e di San Giorgio, ad Almenno San Salvatore (Bergamo).
In conclusione, anche la zoologia può aver giocato un ruolo in queste leggende: secondo il criptozoologo Maurizio Mosca le storie sui mostri del Gerundo potrebbero essere messe in relazione anche con la presenza di un animale reale come – tra gli esempi riportati dallo studioso – un grosso storione nelle acque del fiume Po.
Altre “ossa di drago” legate in gran parte a storie locali simili a quelle dei draghi del Gerundo, ovvero quelle di un mostro che terrorizza una comunità fino a quando non viene ucciso per intercessione divina, si trovano nei seguenti luoghi di culto: la chiesa dedicata a S. Leucio, ad Atessa (Chieti); la chiesa di Santa Maria della Consolazione, a Todi e il Duomo di Città di Castello (Perugia); l’abbazia di Santa Maria delle Grazie di Udine.
Del tutto particolare poi è la collocazione (dalle controverse origini) di una gigantesca costola appesa sotto l’Arco della Costa, vicino Piazza delle Erbe, a Verona; si tratta di uno dei numerosi esempi di resti che risultano essere stati identificati come ossa di cetacei. Tra questi si ricordano quelli custoditi nella Basilica dei Santi Maria e Donato, a Murano (Venezia); nell’abbazia di S. Maria Staffarda, a Revello (Cuneo); nel Duomo di Modena; nel museo di Apecchio (Pesaro e Urbino); nella chiesa di S. Andrea, a Tirli (Grosseto); nella Basilica di Sant’Antonino, a Sorrento (Napoli) (anche se in questo caso, per l’esattezza, la leggenda parla di un mostro marino); e ancora, nella Basilica di San Giulio, edificata sulla piccola isola omonima, al centro del lago d’Orta, tra le province di Novara e del Verbano-Cusio-Ossola: al suo interno troviamo diverse sculture sacre raffiguranti draghi e, nella sacrestia, un antico drago realizzato in ferro battuto sormontato da una enorme vertebra.
Di particolare interesse è il caso del leggendario drago lucano ucciso dal principe di Stigliano, su intercessione della Madonna, i cui resti sono attualmente custoditi nel Museo Scenografico “Convento Santa Maria di Orsoleo”, a Sant’Arcangelo (Potenza); gli elementi scheletrici appartengono a ben tre specie distinte: due zanne di elefanti (che la tradizione attribuisce alle corna del drago), il rostro di un pellicano e la mandibola di un coccodrillo.
A proposito del grande rettile, animale esotico e poco noto che in passato si è rivelato un soggetto zoomorfo ideale per incarnare la figura di una bestia pericolosa e malvagia come il drago, possiamo notarne i resti custoditi all’interno di diversi edifici sacri del belpaese. In questo caso non stiamo parlando solo di ossa, come il cranio conservato nel Convento della Santissima Trinità della Selva, nel Borgo di S. Fiora (Grosseto) o lo scheletro parziale esposto nel Museo Baroffio, accanto al Santuario di Santa Maria del Monte (Varese), ma anche di interi corpi mummificati che per secoli sono stati appesi fra le volte di chiese e santuari, sorretti da robusti supporti metallici, sotto lo sguardo intimorito dei fedeli.
Possiamo ricordare quelli che tuttora possiamo ammirare nella Chiesa di S. Maria Annunziata di Ponte Nossa (Bergamo), nel Santuario della Beata Vergine delle Grazie di Curtatone (Mantova), nell’Oratorio attiguo alla chiesa di Madonna di Campagna a San Michele Extra (Verona), nella Chiesa di Santa Maria delle Vergini (Macerata) e nel Santuario di Nostra Signora di Montallegro (Rapallo).
Anche in questi casi si tratta di testimonianze legate a storie locali avvolte nella leggenda, ambientate tra XV e XVIII secolo, tutte accomunate dalla stessa trama: un fiume abitato da un terribile mostro che mette in serio pericolo la vita di una comunità fino a quando non viene ucciso da un personaggio eroico per intercessione divina.
In realtà, tra le diverse ipotesi, più o meno attendibili, avanzate fino ad oggi per spiegare la presenza di queste insolite “reliquie”, quella più credibile è che si tratti in gran parte semplicemente di donazioni destinate a trasformarsi nella tradizione cristiana in testimonianze di ex voto per fornire ai fedeli la prova materiale di un essere malvagio sconfitto per volontà divina grazie al potere della fede.
Sappiamo infatti – come ricorda la storica dell’arte Laura Marazzi citando un’opera del naturalista francese Pierre Belon (1517-1564) – che già nel XVI secolo, in Europa, era diffusa l’usanza di esporre coccodrilli non solo in chiese e santuari, ma anche nelle piazze pubbliche, all’interno delle cosiddette “camere delle meraviglie” come curiosità del mondo naturale, e nelle botteghe degli speziali, spesso utilizzati in antiche terapie poiché ad essi venivano attribuite virtù mediche straordinarie.
In quest’ultimo caso, in particolare, possiamo ricordare due esemplari, più precisamente un coccodrillo e un caimano, conservati nell’antica farmacia del Monastero di Camaldoli (Arezzo) e il coccodrillo che troneggia “minacciosamente” sul soffitto di un locale, adibito in passato a spezieria e oggi a moderno wine-bar, all’interno del mercato storico di Palermo; qui la presenza della mummia viene ripetutamente segnalata dall’Ottocento in poi sino a divenire il simbolo dell’antico mercato della Vucciria. La tradizione popolare tramanda che il “coccodrillo di Palermo” dimorasse nella fontana di piazza Caracciolo facendo strage di “picciriddi” fino a quando non venne ucciso da quattro persone che all’interno del suo ventre trovarono ancora in vita il corpo di una bambina.
Abili falsificazioni
Continuando questo nostro viaggio alla scoperta delle tracce dei draghi in Italia, non è possibile tralasciare l’interessante tema delle falsificazioni, straordinari esempi di bioarte creati coniugando mito e tassidermia. Se infatti le ossa gigantesche ed inusuali di animali estinti o viventi possono aver suggerito l’immagine della mitica creatura alata, questi artefatti, veri e propri draghi in miniatura realizzati modificando o assemblando parti di una o più specie animali, avevano la pretesa di fornire la prova materiale più tangibile della loro reale esistenza.
A partire dal Rinascimento, tali curiosità naturali, ricercatissime, andarono ad arricchire le collezioni delle elités europee ed illustri uomini di scienza, nelle loro opere di storia naturale, diedero ampio spazio allo studio dei draghi, creature che all’epoca si collocavano ai confini dell’erpetologia in quanto ritenute più simili ai serpenti che non ai mostri veri e propri.
Tra questi, un posto di rilievo è occupato dal grande medico e naturalista bolognese Ulisse Aldrovandi (1522-1605) che nel suo volume Serpentum et draconum historiae libri duo(1640), corredato da splendide illustrazioni, ci fornisce diversi esempi del genere, ponendosi in una posizione a cavallo tra lo scetticismo più intransigente e l’eccessiva credulità.
Tra i casi riconosciuti dallo scienziato come falsi, ci sono quelli classificati come “Draco ex Raia” (riportati anche nell’opera De piscibus), ovvero pesci appartenenti all’Ordine dei Raiformi, fatti essiccare e tagliati a forma di drago attraverso una tecnica ben descritta da Conrad Gessner (1516-1565), un collega di Aldrovandi, che pure fa un breve accenno ad un simile procedimento. Stiamo parlando di quegli artefatti, più volte citati anche con il termine di “basilischi”, come quelli, straordinari per fattura e stato di conservazione, provenienti dalle collezioni storiche dei musei di storia naturale di Verona e Venezia.
Un altro esempio di falso smascherato dallo scienziato bolognese è quello, decisamente più elaborato, di un’idra a sette teste, il mostruoso serpente policefalo noto sin dalla mitologia greca, che l’Aldrovandi affermò di aver esaminato e riconosciuto come “summo artificio afficto” nel Tesoro della repubblica veneta.
Ben più problematica – almeno apparentemente – per lo scienziato risulta l’identificazione di un drago apparso il 13 maggio del 1572 nella campagna bolognese e portato allo scienziato che ne fece realizzare una raffigurazione dal vivo per poi farlo essiccare e conservarlo nel suo museo. L’esemplare è andato perduto, ma l’immagine che ci è stata restituita del “Draco bononiensis” mostra un serpente con un ventre rigonfio nella parte centrale, fornito di soli arti anteriori. L’Aldrovandi ne fornisce un’accurata descrizione arrivando a classificarlo come una sorta di serpente mostruoso.
Secondo il rinascimentalista italianista Marco Ruffini, in realtà, questo esemplare era un artefatto creato all’interno dello stesso museo del naturalista bolognese che in tal modo intendeva fornire una prova materiale sull’esistenza del drago come un fatto naturale e non come un segno anticristiano. Questo perché, a detta dello studioso, la demoniaca creatura era rappresentata nello stemma gentilizio del bolognese Ugo Boncompagni, parente di Aldrovandi, che era salito al soglio pontificio sotto il nome di Gregorio XIII (Pontificato 1572-1885) nello stesso giorno in cui lo scienziato ci dice che era apparso il drago. “Lo scopo ultimo (di Aldrovandi) – continua Ruffini – era quello di trovare un mecenate nel proprio concittadino e parente”, anche se “Gregorio XIII ed i suoi mostrarono molto poco interesse verso il drago “naturale”, il quale non fruttò all’Aldrovandi alcuna protezione o beneficio”.
Se di falso si trattava, dunque, è probabile, come suggerito dal biologo statunitense Phil Senter, che il “serpente – drago” in questione fosse stato creato ad arte unendo parti di animali diversi che potevano essere facilmente reperiti localmente come la biscia dal collare, un pesce per la parte superiore del torso, ed infine un rospo comune a cui vennero amputate le zampe.
Dalle pagine dell’illustre scienziato e, più precisamente, da quelle del Monstrorum historia (1642), sappiamo che nel suo museo era conservato persino un “Draco Marinus”, di color verde, ricoperto di squame, anch’esso dotato di sole zampe anteriori (palmate), con un solo occhio ed un caratteristico rostro da delfino con dentatura a forma di sega. Lo strano animale venne catturato nell’Adriatico, presso Ostuni, e donato ad Aldrovandi dal vescovo di quella città, Giovanni Carlo Bovio. Anche in questo caso, molto probabilmente si trattava di un falso, per certi versi simile ad uno strano animale conservato presso i Musei Civici di Reggio Emilia, denominato “Cofano Concatenato”. L’esemplare in questione è costituito dalla parte posteriore di un pesce della famiglia Ostraciidae (i cosiddetti “pesci scatola”) unita a quella anteriore, creata artificialmente in scagliola, con denti di cartone, che riproduce quasi per intero le fattezze della testa del drago marino aldrovandiano.
Tra i draghi riportati dallo scienziato bolognese, quello che si avvicina di più all’immagine classica di un grosso rettile tetrapode (sebbene, anche in questo caso, siano presenti solo le zampe anteriori), con ali di pipistrello e coda serpentina, è senza dubbio un esemplare di “Draco Aethiopicus” che, pare, venne donato (opportunamente essiccato) ad Aldrovandi da un tale Francesco da Cento nel 1591. Molto simile al drago etiopico riportato originariamente dal naturalista francese Pierre Belon, questo se ne distingue per la presenza di cinque vistose gobbe sul dorso. Nonostante l’immagine del “Draco Aethiopicus” non mostri dettagli anatomici altamente diagnostici, il sovra citato Phil Senter e Darius M. Klein ritengono che l’esemplare in questione sia un falso ottenuto a partire da un serpente a cui sono state aggiunte parti di mammiferi (cranio e zampe) e, per simulare le ali, le pinne pettorali di un “pesce rondine” (Dactyloperus volitans), una specie presente anche nel Mediterraneo.
Più attendibile, risulta invece l’identificazione effettuata dalla stesso Senter e Klein di un esemplare mummificato di drago alato donato dal Re Luigi XII (1462-1515) al Cardinale Francesco Barberini (1597-1679), che troviamo raffigurato nelle opere seicentesche degli eruditi Giovanni Faber (1574-1629) e Athanasius Kircher (1602-1680). Le immagini, infatti, mostrano diversi dettagli anatomici relativi in gran parte al sistema scheletrico che a detta degli studiosi sono riconducibili a diverse specie e più precisamente: il cranio a quello di una donnola, gli arti a quello dello stesso animale o di una lucertola ocellata, la coda alla colonna vertebrale di un’anguilla e la pelle a quella di diversi rettili (serpenti e lucertole). Nonostante le immagini del drago donato al Cardinale Barberini siano così “realistiche”, troviamo ancora la presenza delle zampe anteriori, un dettaglio anatomico del tutto incompatibile con quello delle ali che nella storia evolutiva dei vertebrati che hanno sviluppato un volo vero e proprio(pterosauri, uccelli e pipistrelli) non sono altro che il primo paio di arti, quelli anteriori appunto, modificati per il volo.
Diversamente, a conclusione di questa carrellata sui falsi draghi, è utile soffermarsi sulle immagini di un esemplare che rappresenta uno degli esempi più realistici tra le raffigurazioni storiche di draghi, a tal punto da spingere recentemente alcuni creazionisti ad interpretarle come una testimonianza sulla sopravvivenza degli pterosauri (rettili volanti vissuti al tempo dei dinosauri) nel XVII secolo.
Si tratta di tre raffigurazioni tratte dall’opera intitolata Nuovi ritrovamenti divisi in due parti (1696) dell’ingegnere idraulico olandese Cornelius Meyer (1629-1701) che mostrano un drago (in vita e cadavere) dotato di ali da pipistrello e di sole zampe posteriori, trovato nelle aree paludose fuori Roma. Un esemplare simile, lo troviamo raffigurato nel famosissimo dipinto di “San Giorgio e il drago” di Paolo Uccello databile attorno al 1456. Ma in questo caso, come nel drago donato al Cardinale Barberini, a colpire di più è la raffigurazione che mostra in modo evidente diverse aree del sistema scheletrico del presunto drago-pterosauro. E ancora una volta è Phil Senter, insieme a Pondanesa D. Wilkinssul, a svelarci i segreti sulla vera natura di questo drago, ovvero quella di un falso costruito assemblando abilmente parti di animali diversi con l’aggiunta di ali e coda artificiali. Dunque, nulla a che vedere con gli pterosauri, rettili preistorici che, a dire il vero, tra gli animali esistiti realmente, sono senza dubbio quelli che complessivamente richiamano di più l’immagine delle mitiche creature alate: questi rettili, infatti, presentavano vistose creste sul cranio, mascelle fornite di denti aghiformi (nella maggior parte della specie), una lunga coda (nelle forme più antiche) e arti anteriori trasformati in ali membranose simili a quelle dei pipistrelli che potevano raggiungere un’apertura di circa 11 metri. Ma non sputavano fuoco. E soprattutto, si sono estinti da oltre 60 milioni di anni.

Carlo Canna

L’autore tiene a precisare che, nei limiti del possibile, ha tentato di ricostruire un elenco dei luoghi dove sono attualmente esposti i resti attribuiti dalla tradizione a draghi o mostri associati a queste creature. I dati, partendo dalle fonti bibliografiche consultate (Cordier 1986, Bermani 1991,Mosca 2000, Delucca 2014, Marazzi 2014), sono stati verificati attraverso numerosi contatti telefonici e via email. L’elenco qui proposto resta tuttavia passibile di ulteriori approfondimenti.

Bibliografia:
AA.VV. 1986, I meravigliosi mostri, “Kos”, Anno III, Numero 21. Milano: Franco Maria Ricci
AA.VV. 2004. Animali e creature mostruose di Ulisse Aldrovandi. Milano: Federico Motta
Aldrovandi, U. 1640. Serpentum, et draconum historiae libri duo. Bologna
Bermani, C. 1991. Il bambino è servito. Leggende metropolitane in Italia. Bari: Dedalo
Brocchi, G.B., 1843. Conchiologia Fossile subappenninica, vol. 2. Milano: Silvestri
Caprotti, E. 2004, Mostri, draghi e serpenti nelle silografie dell’opera di Ulisse Aldrovandi e dei suoi contemporanei. Milano: Mazzotta
Cordier, U. 1986. Guida ai draghi e mostri in Italia. Milano: SugarCo
Delucca, O. 2014. Il drago di Belvedere a Rimini e altri draghi d’Italia. Rimini: Bookstones

Marazzi, L. 2014. Il “mostro” del Museo Baroffio e del Santuario, “Il Nostro Sacro Monte”, Anno XXII, Numero 61, pp. 25-27

Mosca, M. 2000. Mostri dei laghi. Milano: Mursia
Ruffini, M. 2005. Le imprese del drago. Politica, emblematica e scienze naturali alla corte di Gregorio XIII (1572-1585). Roma: Bulzoni
Senter, P., Hill, L. C. & Motion, B. J. 2013. Solution to a 440-year-old Zoological Mystery: The Case of Aldrovandi Dragon. “Annals of Science”, vol. 70, Issue 4, pp. 531-537
Senter, Phil and Wilkins, Pondanesa D.. 2013. Investigation of a claim of a late-surviving pterosaur and exposure of a taxidemic hoax: the case of Cornelius Meyer’s dragon, Palaeontologia Electronica Vol. 16, Issue 1, 6A 11p; palaeo-electronica.org/content/2013/384-late-surviving-pterosaur

Senter, Phil and Klein, Darius M. 2014. Investigation of claims of late-surviving pterosaurs: the cases of Belon’s, Aldrovandi’s, and Cardinal Barberini’s winged dragons. Palaeontologia Electronica Vol. 17, Issue 3;41A; 19p; palaeo-electronica.org/content/2014/967-late-surviving-pterosaurs

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